L’esercizio della clausola risolutiva espressa nei limiti del principio di buona fede oggettiva
23 Dicembre 2024
Massima In tema di clausola risolutiva espressa, non costituisce abuso del diritto la condotta del contraente che, a fronte dell'altrui inadempimento effettivo - tale cioè da provocare una significativa lesione del suo interesse - si valga del diritto potestativo di scioglimento del rapporto. Per converso, qualora il comportamento del debitore, pur integrando il fatto contemplato dalla clausola, appaia comunque conforme al criterio di buona fede, e l'inadempimento non sia quindi effettivo, l'esercizio della clausola deve ritenersi abusivo, e quindi immeritevole di tutela. Il caso Con ricorso ex art. 447 bis c.p.c., la locatrice di un immobile destinato ad attività commerciale chiedeva l'accertamento della risoluzione conseguente all'esercizio, ai sensi dell'art. 1456 c.c., della clausola risolutiva espressa prevista nel contratto (per cui il mancato o ritardato pagamento, anche parziale, del canone conferiva alla locatrice il diritto di provocare lo scioglimento del rapporto, decorsi trenta giorni dalle scadenze previste), nonché la condanna al rilascio del bene. In particolare, l'inadempimento che aveva determinato l'attivazione della clausola risolutiva aveva ad oggetto il pagamento dei canoni relativi a due mensilità, nonché di pregressi oneri condominiali. Nel costituirsi in primo grado, la conduttrice replicava di aver provveduto al pagamento dei predetti canoni, seppure con ritardo (di oltre un mese quanto alla prima mensilità), e degli stessi oneri condominiali, pur avendo la medesima conduttrice contestato la spettanza di tali oneri, allegando un controcredito per spese da essa sostenute (ma da addebitare alla locatrice) a causa di malfunzionamenti che interessavano l'immobile. Le domande attoree trovavano pieno accoglimento nei gradi di merito: con sentenza di primo grado, poi confermata in appello, il Tribunale dichiarava la risoluzione del contratto di locazione e condannava la conduttrice a rilasciare l'immobile. Con ricorso per cassazione la conduttrice lamentava, con unico motivo ai sensi dell'art. 360 c. 1 n. 3 c.p.c., la violazione dell'art. 1456 c.c. in relazione all'art. 1375 c.c. In tesi della ricorrente, la sentenza d'appello aveva errato nell'applicare il principio giurisprudenziale secondo cui “il contraente che invochi una clausola risolutiva espressa viola i doveri di buona fede e abusa del suo diritto potestativo” qualora, pur sussistendo un fatto astrattamente idoneo ad attivare la clausola, “non si sia consumata una effettiva e significativa lesione del suo interesse”. Secondo la Corte d'appello, nella fattispecie l'interesse della locatrice aveva subito una lesione concreta, atteso il mancato pagamento di due mensilità di canone alle scadenze pattuite (in un caso, essendo il pagamento avvenuto con ritardo superiore ai 30 giorni utili a rendere operante la clausola risolutiva), nonché il ritardato pagamento di oneri condominiali di annualità anteriori. La questione La questione oggetto della pronuncia in commento è così riassumibile: se, e a quali condizioni, l'esercizio della clausola risolutiva espressa ai sensi dell'art. 1456 c.c., pur in presenza di un fatto astrattamente integrante inadempimento contrattuale, possa dirsi contrario a buona fede, e quindi inidoneo, poiché abusivo, a provocare lo scioglimento del contratto. Le soluzioni giuridiche Con l'ordinanza in esame, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso della conduttrice (già delibato come manifestamente infondato, con la proposta di definizione accelerata ai sensi dell'art. 380 bis c. 1 c.c. Nel reputare come legittimo l'esercizio della clausola risolutiva espressa, la Corte ha adottato il seguente percorso argomentativo:
Osservazioni La pronuncia in commento si colloca nel solco dell'elaborazione giurisprudenziale sul principio di buona fede, quale canone generale cui deve ispirarsi la condotta dei contraenti in tutte le fasi del rapporto, e declina tale principio nel caso di esercizio della clausola risolutiva espressa. La fattispecie è di interesse in quanto consente di cogliere l'attitudine, per così dire elastica, del criterio della buona fede oggettiva, nelle sue interazioni con altre disposizioni normative e nelle variabili applicazioni concrete. In particolare, va sottolineata la riconosciuta vocazione ‘riequilibrante' del canone della bona fides, rispetto all'esercizio rimedi che altrimenti, nella loro rigorosa attuazione, risulterebbero nell'ingiustificato sacrificio di una parte. Infatti, a mente dell'art. 1456 c.c., “I contraenti possono convenire espressamente che il contratto si risolva nel caso che una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite” (comma 1) e “la risoluzione si verifica di diritto quando la parte interessata dichiara all'altra che intende valersi della clausola risolutiva” (comma 2). Come noto, attraverso tale clausola, le parti compiono ex ante una valutazione di gravità dell'inadempimento (la cui “non scarsa importanza” dovrebbe essere altrimenti valutata ai sensi dell'art. 1455 c.c., ai fini della pronuncia costitutiva di risoluzione giudiziale). Ebbene, dalla rigida attuazione della littera legis - ove sia riscontrabile il mancato adempimento, imputabile al debitore, di un'obbligazione dedotta quale oggetto di clausola risolutiva – dovrebbe discendere sempre e comunque lo scioglimento del rapporto. D'altro canto, come sottolineato dalla giurisprudenza cui si conforma l'ordinanza in commento, il principio generale desumibile dagli artt. 1175 e 1375 c.c., derivazione di quello solidaristico ai sensi dell'art. 2 Cost., richiede di valutare se l'esito caducatorio sia realmente conforme a buona fede, in un duplice e speculare senso:
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