Onere della prova sul consenso del paziente all’esecuzione di un intervento chirurgico più invasivo di quello programmato
05 Marzo 2025
Massima Non è il paziente a dover provare che, se fosse stato informato del più complesso intervento, non vi avrebbe consentito ma, al contrario, a fronte della allegazione del paziente che il suo consenso sarebbe stato circoscritto a quanto programmato e non oltre, è la struttura sanitaria a dover provare che egli avrebbe autorizzato l’intervento più invasivo. Il caso Nel presente caso, una paziente agiva in giudizio per il risarcimento del danno alla salute e da violazione del diritto all'autodeterminazione, affermando di essere stata sottoposta ad un intervento chirurgico diverso e più invasivo rispetto a quello programmato e per cui aveva prestato il proprio consenso. Presso la struttura convenuta in giudizio, la paziente avrebbe dovuto essere sottoposta ad un intervento chirurgico di rimozione plastica gastrica antireflusso e una anastomosi gastro digiunale. In realtà, i medici avevano invece eseguito una resezione subtotale dello stomaco e della cistifellea, non autorizzata da parte dell'attrice e, inoltre, non giustificata da una ipotesi di urgenza. L'attrice riferiva, in aggiunta, che l'intervento più invasivo e non autorizzato non aveva prodotto alcun miglioramento nelle condizioni della stessa (la quale era affetta da una grave forma di reflusso) ed, al contrario, aveva avuto esiti peggiorativi tanto da rendere necessario un secondo intervento demolitivo presso un diverso ospedale, a distanza di quattro anni. All'esito del giudizio di primo grado, la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale, biologico, morale e da violazione del diritto all'autodeterminazione proposta dalla attrice veniva rigettata. Il Tribunale accertava, infatti, che effettivamente l'attrice non era stata informata e che, in luogo del programmato intervento, sarebbe stata eseguita un'operazione più invasiva. Tuttavia, il giudice di prime cure riteneva che l'attrice non avesse provato il rifiuto ovvero che, se fosse stata informata dell'intenzione dei medici di eseguire l'intervento più invasivo, non avrebbe dato il proprio consenso. L'attrice proponeva quindi appello, ma la Corte d'Appello confermava la sentenza di primo grado, richiamando le risultanze della seconda consulenza tecnica d'ufficio espletata, ritenendo che la scelta medica di eseguire l'operazione più radicale non fosse in sé sbagliata, atteso che la tecnica di revisione della plastica preesistente non dava buone garanzie di riuscita. La Corte d'Appello aggiungeva inoltre che la necessità di sottoporsi ad un altro intervento chirurgico, a quattro anni di distanza, non era stata determinata da cattiva esecuzione del primo intervento chirurgico ma era connessa «all'evoluzione, intrinseca e possibile, di alterazioni funzionali conseguenti alla rimozione di parte dello stomaco». La danneggiata proponeva, quindi, ricorso per Cassazione affidandosi a quattro motivi. Col primo motivo, la ricorrente censurava la sentenza d'appello per error in procedendo e nullità per violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c. nonché l'omessa pronuncia sul motivo di appello relativo all'effetto lesivo iatrogeno ed alla inutilità della operazione, inutilità dimostrata dalla necessità di un successivo intervento per rimuovere la parte rimasta dello stomaco e per eliminare gli effetti peggiorativi dell'intervento per cui è causa. Con il secondo motivo, la ricorrente denunciava il vizio di motivazione per omesso esame di fatti oggetto di discussione fra le parti, avendo la Corte d'Appello, in presenza di due consulenze tecnica d'ufficio contrastanti, aderito acriticamente alla seconda perizia, senza motivazione e senza esaminare le risultanze della prima perizia. Con il terzo motivo, la ricorrente denunciava il travisamento della prova documentale consistente nelle linee guida della società americana dei chirurghi gastroenterologi endoscopici, depositate, ed anche citate nella sentenza appellata, affermando che non erano state adeguatamente considerate in quanto dichiarate inapplicabili al caso di specie perché pubblicate in epoca successiva al fatto. In realtà, tali linee guida erano state pubblicate nel 2001 e quindi erano applicabili al caso concreto. Infine, col quarto motivo, la ricorrente rilevava la violazione degli artt. 1176, 1218, 1223, 1226, 2236, 2043, 2056, 2057, 2059 e 2697 c.c. per avere la Corte d'Appello erroneamente applicato i principi in materia di ripartizione dell'onere della prova e presunzione di colpa medica in riferimento all'ipotesi in cui l'intervento -pur correttamente eseguito - non sia stato autorizzato, sia stato inutile a risolvere il problema e abbia prodotto degli effetti peggiorativi La questione La questione principale sottesa al ricorso richiedeva alla Corte di Cassazione di soffermarsi sull’onere della prova in capo al paziente e alla struttura sanitaria in caso di violazione del consenso informato, in relazione all’esecuzione di un intervento chirurgico più invasivo di quello programmato. Le soluzioni giuridiche La Cassazione ha dichiarato inammissibili il secondo e il terzo motivo, mentre ha accolto il primo e il quarto esaminandoli congiuntamente. Secondo la Cassazione, la Corte d’Appello non ha valutato l’inutilità dell’intervento a cui la paziente era stata sottoposta senza aver espresso il proprio consenso, fermando il suo accertamento alla mancanza di prova, da parte della paziente, del rifiuto che avrebbe opposto se fosse stata informata. Inoltre, la Corte d’Appello ha ricostruito erroneamente la distribuzione degli oneri probatori, non considerando, per l’appunto, che la paziente era stata sottoposta - a sua insaputa e fuori da una situazione di urgenza - ad un intervento ben più complesso ed invasivo di quello programmato e consentito. A fronte di ciò, la Cassazione afferma che, nel presente caso, non è la paziente a dover provare che se fosse stato informato del più complesso intervento, non vi avrebbe consentito ma, al contrario, a fronte della allegazione della paziente che il suo consenso sarebbe stato circoscritto a quanto programmato e non oltre, è la struttura sanitaria a dover provare che la paziente avrebbe autorizzato il secondo e più invasivo intervento. La Cassazione enuncia quindi il principio del “dissenso presunto” del paziente «in relazione a tutto ciò che si pone al di là e al di fuori rispetto ai trattamenti medico chirurgici che abbia consentito di effettuare sul proprio corpo, a meno che - e non è questo il caso - il diverso e più invasivo intervento sia giustificato da una situazione di urgenza.». Osservazioni Con l'ordinanza in commento, la Suprema Corte sembra volersi allontanare dai principi formulati in precedenza dalla stessa Cassazione in tema di ripartizione dell'onere probatorio in caso di violazione del consenso informato. Invero, negli ultimi anni, con diverse pronunce la Suprema Corte aveva affermato che, ai fini del risarcimento del danno, il paziente dovesse provare il fatto positivo del rifiuto, ovvero che avrebbe rifiutato l'intervento eseguito in assenza del suo consenso: «Il paziente che alleghi l'altrui inadempimento sarà dunque onerato della prova del nesso causale tra inadempimento e danno, posto che: a) il fatto positivo da provare è il rifiuto che sarebbe stato opposto dal paziente al medico; b) il presupposto della domanda risarcitoria è costituito dalla scelta soggettiva del paziente, sicché la distribuzione del relativo onere va individuato in base al criterio della cd. "vicinanza della prova"; c) il discostamento della scelta del paziente dalla valutazione di necessità/opportunità dell'intervento operata dal medico costituisce eventualità non corrispondente all'id quod plerumque accidit» (ex multis: Cass. civ., sez. III, 11 novembre 2019, n. 28985; Cass. civ., sez. III, 4 novembre 2020, n. 24471; Cass. civ., sez. III, 26 agosto 2020, n. 17806). In base a tale orientamento, il paziente è sicuramente maggiormente gravato in punto di onere probatorio e, infatti, alla struttura sanitaria compete soltanto la prova del corretto adempimento degli obblighi informativi e di acquisizione del consenso informato. Tuttavia, già con la sentenza Cass. civ., sez. III, 12 giugno 2023, n. 16633, la Cassazione aveva menzionato il principio del “dissenso presunto” ossia che, in taluni casi, si possa presumere che, se correttamente informato, il paziente avrebbe rifiutato di sottoporsi all'atto terapeutico. Sennonché, con la citata pronuncia, la Suprema Corte aveva comunque ritenuto che spettasse al paziente la prova del rifiuto. Con l'ordinanza in commento, invece, la Cassazione sembra invertire l'onere probatorio, sostenendo che non grava sul paziente l'onere di provare il rifiuto che avrebbe opposto se fosse stato informato adeguatamente. Se, infatti, il paziente ha affermato che il proprio consenso sarebbe stato circoscritto a quanto programmato e non oltre, compete alla struttura sanitaria o al medico la prova che il paziente avrebbe acconsentito anche all'intervento più invasivo e, inoltre, non necessitato dall'urgenza. Secondo la Cassazione, in questa ipotesi, opera infatti il principio del dissenso presunto del paziente, ovvero si presume che il paziente non avrebbe prestato il consenso a qualsiasi intervento sul proprio corpo al di fuori di quanto espressamente autorizzato. L'unica eccezione, a parere della Suprema Corte, è rappresentata dai casi di urgenza. Sul punto, infatti, la giurisprudenza è stata finora concorde nell'escludere la responsabilità del medico e della struttura che non acquisiscano il consenso del paziente in situazioni di urgenza (Cass civ., sez. III, 15 aprile 2019, n. 10423). Anche se è bene rammentare che il settimo comma dell'art. 1, l. n. 219/2017 prevede che: «il medico e i componenti dell'equipe sanitaria assicurano le cure necessarie, nel rispetto della volontà del paziente ove le sue condizioni cliniche e le circostanze consentano di recepirla». A sommesso avviso dell'autrice, è tuttavia prematuro parlare di un revirementda parte della Cassazione in tema di onere probatorio in caso di violazione del consenso informato, essendo più opportuno attendere ulteriori pronunce. Anche perché il principio del “dissenso presunto” e il conseguente riparto dell'onere probatorio è stato certamente formulato a fronte della particolarità del caso concreto. Non si può trascurare, infatti, che, nel caso di specie, la paziente è stata sottoposta ad un intervento chirurgico molto invasivo, che ha comportato la rimozione dello stomaco e della cistifellea. Inoltre, tale intervento non era né necessario a fronte del quadro clinico né comunque è risultato utile, causando, invece, un peggioramento del quadro clinico della paziente. Da ultimo, l'intervento non era neppure urgente. Il caso concreto era quindi molto grave, al punto da indurre la Cassazione a ritenere che, in questa specifica fattispecie, il dissenso della paziente possa ritenersi presunto e spetti invece alla struttura sanitaria provare che la stessa avrebbe acconsentito anche all'intervento più invasivo e, inoltre, non necessitato dall'urgenza. In ogni caso, a ben vedere, col seguente passaggio «al contrario, a fronte della allegazione della paziente che il suo consenso sarebbe stato circoscritto a quanto programmato e non oltre», l'ordinanza dà atto comunque che la paziente avesse chiarito quali fossero i limiti del proprio consenso, affermando che non avrebbe acconsentito a null'altro, e quindi, allegando, di fatto, la prova del rifiuto. Riferimenti
|