Le Sezioni Unite definiscono la disciplina del danno da “nascita indesiderata”

04 Gennaio 2016

Non è configurabile nel nostro ordinamento il diritto del nascituro a richiedere al medico il risarcimento del danno per la nascita malformata, poiché non sussiste un nesso eziologico tra la condotta omissiva del sanitario e le sofferenze psicofisiche cui il figlio è destinato nel corso della sua vita.
Massima

L'impossibilità della scelta della madre nella prosecuzione della gravidanza, determinata da negligente carenza informativa da parte del medico cui la stessa aveva richiesto di indagare su possibili malformazioni del nascituro, è fonte di responsabilità civile del sanitario.

Perché sussista il danno da nascita indesiderata occorre che l'interruzione della gravidanza sia stata all'epoca legalmente consentita (possibile accertamento delle rilevanti anomalie del nascituro e conseguente grave pericolo per la salute fisica o psichica della madre) e che venga provata la volontà della donna di non portare a termine la gravidanza in presenza di tali specifiche condizioni facoltizzanti

L'onere di provare tali elementi facoltizzanti e la volontà di interrompere, in loro evenienza, la gravidanza è posto a carico della madre ex art. 2697 c.c. (principio della vicinanza della prova), onere che può essere assolto dalla donna anche in via presuntiva, tramite la dimostrazione di altre circostanze dalle quali si possa ragionevolmente risalire, per via induttiva, all'esistenza del fatto psichico che si tratta di accertare (secondo il parametro del più probabile che non).

Benché sussista l'astratta titolarità attiva dell'individuo, quando pur l'illecito sia commesso prima della sua nascita, non è invece configurabile nel nostro ordinamento il diritto del nascituro a richiedere al medico il risarcimento del danno per la nascita malformata, poiché non sussiste un nesso eziologico tra la condotta omissiva del sanitario e le sofferenze psicofisiche cui il figlio è destinato nel corso della sua vita.

Il caso

Una donna citava in giudizio il proprio medico ginecologo imputandogli la non corretta informazione e la non adeguatezza della prestazione sanitaria richiesta, consistente nello svolgimento di esami di diagnostica pre-natale finalizzati all'accertamento di patologie e malformazioni in capo al feto in fase gestazionale, imputandogli quindi un danno da lesione della scelta consapevole di proseguire la gravidanza. La madre chiedeva altresì il risarcimento del danno alla bambina, nel frattempo nata, affetta da sindrome Down, consistente nella negazione del diritto ad una vita sana e dignitosa.

I due giudizi di merito portavano alla assoluzione del medico e della sua impresa di assicurazione, sul presupposto (quanto al danno della madre) che non fosse stata provata in giudizio la sussistenza delle condizioni previste dalla l. n. 194/1978, facoltizzanti la scelta di interrompere la gravidanza. La corte territoriale negava altresì la legittimazione della figlia minore, portatrice della malformazione, sul presupposto della insussistenza nel nostro ordinamento della tutela di un diritto “a non nascere se non sano”

Posta dalla madre la questione avanti alla Corte di Cassazione e rilevato il contrasto giurisprudenziale nei precedenti arresti di legittimità sulle questioni in discussione, il ricorso veniva rimesso alle Sezioni Unite, con udienza pubblica il giorno 22 settembre 2015, in ordine al seguente duplice profilo:

  • il primo contrasto all'interno della Corte di legittimità verteva sulla questione dell'onere probatorio circa la sussistenza delle condizioni psicofisiche della madre nel momento in cui fosse stata messa a conoscenza delle condizioni del nascituro: in particolare, il contrasto si era determinato tra un primo orientamento che riteneva con presunzione semplice sempre provato che la gestante – se correttamente informata – avrebbe interrotto la gravidanza (Cass., 13 luglio 2011, n. 15386) ed un altro (più recente) che riteneva necessario per la gestante allegare e provare che, in tale circostanza, avrebbe certamente optato per la scelta abortiva (in ultimo, Cass., 10 dicembre 2014, n. 12264).
  • il secondo contrasto (ancora più marcato) verteva sulla questione della legittimazione del nato a pretendere il risarcimento del danno a carico del medico per il proprio stato di infermità: qui il contrasto si articolava tra la tesi che nega tale legittimazione (Cass., 11 maggio 2009, n. 10741) e quella ammissiva (fra tutte la nota sentenza Cass., 2 ottobre 2012, n. 16754), tanto sotto l'aspetto della legittimità a pretendere un danno conseguente ad un'azione posta in essere prima della nascita, quanto sotto il profilo sostanziale della esistenza giuridica di un danno da nascita malformata.
La questione

Si pongono dunque, alla attenzione del supremo Collegio, due questioni di grande rilievo non solo nella disciplina del danno da nascita indesiderata ma anche, in via di estensione analogica, in un contesto generale che attiene all'onere probatorio ed alla legittimazione ad agire in caso di responsabilità da illecito in sanità.

Sotto il primo profilo, la Corte rammenta che, per accedere alla richiesta danni da parte della madre per l'omessa informazione diagnostica prenatale, occorre che «l'interruzione fosse legalmente consentita» e che quindi fossero accertabili «le rilevanti anomalie del nascituro e il loro nesso eziologico con un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna».

Più delicato – perché attinente ad un “fatto complesso” proprio della sfera psichica della gestante – è fornire la prova dello stato psicologico della donna al momento della possibile scelta abortiva e dell'atteggiamento volitivo che la stessa avrebbe esercitato se correttamente informata.

Tale questione si pone sia nell'ambito della imputabilità dell'onus probandi (a chi tocchi fornire la prova) sia sotto quello del suo contenuto sostanziale.

Sotto il secondo profilo, della legittimazione della richiesta danni in capo al nascituro, la Corte si pone nell'ottica di chiarire, innanzitutto, se sussista in astratto la legittimazione ad agire di chi, al momento della condotta illecita del medico, «non era ancora soggetto di diritto, alla luce del principio consacrato all'art. 1 c.c. ("la capacità giuridica si acquista dal momento della nascita"), conforme ad un principio giuridico plurisecolare».

Ma la questione più controversia e complessa attiene alla ammissibilità, nel nostro ordinamento, di una titolarità per il figlio nato con handicap a richiedere il risarcimento del danno per la condotta tenuta dal medico responsabile dell'omissione diagnostica pre-natale, e quindi per l'esistenza in condizioni di menomazione psicofisica.

Le soluzioni giuridiche

Con una decisione ben articolata ed ispirata ai principi dell'ordinamento in tema di legittimazione ad agire e di nesso causale tra azione illecita e danno risarcibile, la Corte chiarisce i punti controversi stabilendo nell'odine che :

  1. in ipotesi di errore medico circa il mancato accertamento dello stato menomativo pre-natale del feto, alla madre incombe l'onere di dimostrare che – ove correttamente informata – avrebbe interrotto la gravidanza.
  2. tale prova, tuttavia, può anche essere fornita in via presuntiva dalla gestante, non solo secondo l'id quod plerumque accidit (correlazioni statistiche ricorrenti), ma anche sulla base di circostanze contingenti che potranno emergere in giudizio, quali il ricorso al consulto proprio per conoscere le condizioni del nascituro, le precarie condizioni psico-fisiche della gestante, le pregresse manifestazioni di pensiero, la propensione all'opzione abortiva manifestata ante gravidanza, e così via.
  3. in linea generale il nostro ordinamento riconosce la risarcibilità del danno al nascituro, quando sia accertata la correlazione causale tra un illecito (anche se anteriore alla nascita) ed il danno che sarà percepito e subito dal feto solo una volta venuto al mondo.
  4. quello che la Corte nega in via definitiva è la risarcibilità del danno al bambino nato malformato quale conseguenza dell'errore diagnostico commesso dal sanitario (tesi sostenuta dal Cons. Travaglino nella sentenza Cass. n. 16754/2012 sopra citata). Ciò per l'insormontabile ragione che non sussiste alcuna correlazione causale tra l'errore clinico diagnostico e la nascita malformata.

Proprio sotto quest'ultimo profilo, la Corte si dilunga per affermare che la tesi ammissiva della risarcibilità del danno al bambino nato malformato incorre in contraddizioni insuperabili, sia nel contesto del contenuto stesso del diritto assunto leso, sia nell'analisi del rapporto di causalità tra condotta illecita ed evento di danno.

Le ragioni della non predicabilità di tale voce di danno risiedono nella stessa radice del pregiudizio preteso che non supera la prova empirica del raffronto (in ossequio all'art. 1223 c.c.) nell'avere di meno a seguito dell'illecito, posto che l'assenza di danno per il bambino nato malformato, consisterebbe nel non nascere ed il raffronto tra i due momenti alternativi costituirebbe una situazione di “non vita” non tutelabile nel nostro ordinamento.

Poste le ragioni della non configurabilità del danno in termini di “ingiustizia” in un preteso “diritto a non nascere” del feto, la ipotesi risarcitoria cede sul piano dogmatico anche nella analisi dei suoi profili causali, tanto da giungere ad una inammissibile equiparazione quoad effectum dell'errore medico che non abbia evitato la nascita indesiderata all'errore medico che tale lesione abbia invece generato.

Osservazioni

La sentenza in commento pone fine ad anni di conflitto dottrinale e giurisprudenziale in tema di ammissibilità di un ipotetico diritto al risarcimento del danno per la nascita malformata, intesa come status psicofisico astratto dal contesto causale e sostanziale dell'illecito.

Il confronto più marcato è con la sentenza Cass., 2 ottobre 2012, n. 16754 (est. Travaglino) che aveva riconosciuto, in ipotesi di colpa medica per mancato accertamento diagnostico pre-natale delle patologie del nascituro, anche la titolarità attiva risarcitoria del feto stesso, poi nato malformato.

Le ragioni declinate a confutazione della tesi ammissiva prospettata portano a richiamare la non percorribilità di una via giudiziaria che aprirebbe il solco di una vera e propria «deriva eugenetica, certamente lontanissima dalla teorizzazione dottrinaria del c.d. diritto di non nascere, ma che pure ha animato il dibattito e provocato reazioni nella sensibilità dell'associazionismo rappresentativo dei soggetti handicappati» per effetto dell'implicita considerazione della vita malformata alla stregua di un danno ingiusto.

Il danno predicato nelle argomentazioni ammissive dunque (come la sentenza n. 16754/2012 più volte richiamata nella decisione) risulta inammissibile per l'impossibilità di stabilire un nesso causale tra la condotta del medico e le sofferenze psicofisiche cui il figlio malformato è destinato a patire nel corso della vita.

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