Gravi menomazioni a seguito di incidente: il valore paradigmatico delle Tabelle di Milano nella liquidazione del danno
07 Luglio 2017
Massima
Nella liquidazione del danno non patrimoniale non è consentito, in mancanza di criteri stabiliti dalla legge, il ricorso a una liquidazione equitativa pura, non fondata su criteri obiettivi, unici a permettere la verifica ex post del ragionamento seguito dal giudice nell'apprezzare ciascun profilo di nocumento del caso concreto, mentre va preferita l'adozione del criterio di liquidazione predisposto dal Tribunale di Milano, idoneo a garantire l'uniformità di trattamento di situazioni analoghe.
Il caso
Caio subisce gravi menomazioni a seguito di incidente stradale e significative alterazioni del carattere, caratterizzate da comportamenti aggressivi e scoppi di ira. La moglie, con cui all'epoca dei fatti era sposato da 25 anni e che aveva 45 anni come il coniuge, agisce contro il proprietario del veicolo investitore e la sua compagnia di assicurazione per ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale subito, costituito, in generale, dalla grave perturbazione della vita familiare pregressa, concretatasi in svariati profili afferenti alla vita di coppia, privata e pubblica. Il Tribunale accoglie, per quanto di ragione, la domanda, riconoscendo e ristorando il danno afferente alla sfera biologica, morale e da alterazione della vita sessuale e liquidandolo con somme quantificate secondo equità pura. Tizia propone appello, sostenendo, per quanto di interesse, che la liquidazione con criterio equitativo puro era insufficiente e che, al contrario, si sarebbero dovute applicare le Tabelle del Tribunale di Milano, nella parte dedicata alla perdita del rapporto parentale, al quale la fattispecie concreta poteva essere senz'altro parificata. La Corte d'Appello accoglie solo parzialmente il gravame, aumentando sì la liquidazione del danno, ma negando la possibilità di equiparare le conseguenze delle gravi menomazioni riportate dal marito di Tizia a una vera e propria perdita del rapporto coniugale e disattendendo quindi la richiesta di applicazione delle Tabelle di Milano, finendo per applicare comunque un criterio equitativo puro. Tizia propone ora ricorso per cassazione. La questione
La questione posta dal ricorso di Tizia alla Suprema Corte è se, per la liquidazione del danno non patrimoniale da lei subito in dipendenza delle lesioni patite dal marito, il criterio equitativo puro sia legittimo ovvero se esso sia insufficiente a garantire la pienezza del ristoro del danno non patrimoniale. Le soluzioni giuridiche
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso. In appello, rivedendo la liquidazione di prime cure giudicata insufficiente, si era ritenuto di fare comunque ricorso all'equità pura, attribuendo, per un periodo di venti anni futuri, un valore monetario a ciascun anno di convivenza che ristorasse la perdita della sfera affettiva e sessuale; e un altro valore monetario annuale che tenesse in conto il compito dell'assistenza al merito. Questo modo di procedere è stato denunciato da Tizia quale violazione del diritto all'integrale riparazione del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.), essendo il criterio equitativo puro privo di qualsiasi adeguata giustificazione. La Suprema Corte, nell'accogliere tale motivo di ricorso, ha dapprima osservato che il giudice di merito aveva correttamente premesso che il ristoro di siffatto nocumento deve essere integrale e onnicomprensivo, corrispondentemente alla nozione unitaria di danno non patrimoniale, e che erano stati individuati, quali prospettive diverse di tale unica generale lesione, il danno biologico (danno medicalmente accertato), il danno morale (dolore interiore) e il danno alla vita di relazione (alterazione della vita quotidiana). Le argomentazioni della Corte d'Appello sono poi state censurate nel momento in cui passano a negare, sul rilievo della diversità fra morte del congiunto e sua sola menomazione, l'applicabilità delle Tabelle di Milano. L'uso dell'equità pura, che ne discende, è per la Cassazione indebito in difetto di giustificazione, del tutto omessa, della stretta necessità di farvi ricorso e … senza precisare per quale motivo sia impossibile, nel caso di specie, utilizzare altri più omogenei e verificabili criteri di quantificazione del danno. In secondo luogo, è giudicata erronea in diritto la scelta della Corte territoriale di attribuire una somma fissa determinata, la cui quantificazione è priva di giustificazione, così come la pretesa di stimare in venti anni, anche qui senza spiegazioni adeguate, il periodo rilevante a fini risarcitori, senza neppure distinguere il tempo utile per la vita intima della coppia da quello relativo alla assistenza, senz'altro destinato ad allungarsi e a conoscere un aggravamento dei problemi. La Corte richiama quale precedente specifico, cui intende dare continuità, Cass. civ., sez. III, 15 ottobre 2015 n. 20895, che aveva posto l'accento sull'indebito ricorso all'equità liquidatoria pura, in quanto canone inidoneo a consentire ex post un controllo sulla correttezza del risarcimento del danno non patrimoniale, che, da un lato, deve essere esaustivo, ossia coprire qualsiasi profilo concreto di nocumento, senza lasciare vuoti; dall'altro, deve evitare locupletazione del danneggiato, come può avvenire con la duplicazione del ristoro, sotto nomi diversi, del medesimo pregiudizio. Osservazioni
Il principio di portata generale che la sentenza in commento esprime è la messa al bando del criterio equitativo puro. Nel campo del danno non patrimoniale, l'equità (artt. 2056 e 1226 c.c.) è e resta irrinunciabile, sin quando almeno non intervenga il legislatore, che per ora ha molto limitato i suoi interventi in materia (art. 139 d.lgs 209/2005). Non per questo il potere equitativo deve essere esercitato in difetto di parametri noti, sistema questo di equità pura, che, in definitiva, scade nel principio tot capita, tot sententiae: a ben vedere, il giudice d'appello, nel caso qui esaminato, non aveva corretto l'insufficiente criterio liquidatorio del Tribunale, ma aveva semplicemente sostituito il suo proprio sentire a quello del giudice di primo grado, con ciò reiterando quella violazione di legge che la Suprema Corte ha ravvisato. Il sistema equitativo puro ha innanzitutto il limite di non giustificare l'attribuzione dei valori monetari di base. È vero che il giudice di appello, in modo più specifico che non quello di primo grado, aveva fatto riferimento a una serie di parametri: durata e intensità dei postumi invalidanti del marito, gravità della sua alterazione anche psichica, situazione mononucleare della famiglia; così come, del resto, sempre il giudice dà – o dovrebbe dare – conto dei profili che sta valutando ai fini del risarcimento. Ma queste indicazioni servono solo a indicare quale profilo di danno non patrimoniale si sta ristorando, ma nulla dicono ancora sulla scelta di attribuire un valore monetario determinato a quel nocumento. Si potrebbe certo affermare, provocatoriamente, che anche nelle Tabelle di Milano, come in qualsiasi ipotizzabile sistema predeterminato di liquidazione del danno non patrimoniale, vi sia un dato equitativo intrinsecamente non verificabile o falsificabile, laddove, appunto, venga dato un valore monetario al primo punto di invalidità. Ma il valore positivo essenziale di un criterio equitativo predeterminato e non pensato di volta in volta dal giudice del singolo caso risiede – e questo si coglie molto bene nella sentenza commentata, con il frequente richiamo all'art. 3 Cost. - non tanto nella bontà intrinseca del canone predeterminato, quanto nell'uniformità di giudizio per casi simili. Infatti, quel che sta a cuore alla Cassazione, che in vari passaggi lo accenna, è ricordare che, in base alle Tabelle di Milano, lesioni di pari incidenza sulla salute dei soggetti coinvolti ricevono trattamento risarcitorio uguale, laddove il sistema equitativo puro assicura invece l'opposto. Quest'ultima notazione è decisiva: un sistema tabellare rispetta, innanzitutto, il principio di eguaglianza e, sol per questo, va preferito. Vi sono, a cascata, almeno due conseguenze molto importanti. La prima, pure rammentata nella sentenza in commento, è la possibilità di verifica ex post dell'esaustività del risarcimento. La seconda, che preme qui ricordare, è la prevedibilità di ogni decisione, che, a sua volta, ha un effetto deflattivo sul sistema, oltre che donargli la massima trasparenza. La decisione di legittimità, per sua natura, non risolve la questione pratica concreta: come va liquidato il danno nel caso specifico? Le tabelle del Tribunale di Milano, citate nella sentenza in commento e da tempo ritenute dalla giurisprudenza di legittimità idonee a costituire parametro di riferimento su tutto il territorio nazionale (Cass. civ., sez. III civ., sent. n. 12408/2011 e Cass. civ., sez. III, n. 14402/2011), possono soccorrere anche in difetto di una disciplina specifica. Infatti, la situazione accertata in causa, ossia quella di una gravissima perturbazione della vita di coppia a ogni livello, è assimilabile, coi dovuti aggiustamenti, a quella della morte del congiunto, evento per il quale la tabella ha una espressa disciplina. Anche nella situazione di Tizia v'è, a ben vedere, una perdita del rapporto di coniugio, dal momento che il marito che prima assicurava il soddisfacimento degli ordinari benefici di una vita a due nei più disparati aspetti (dalla vita sociale a quella intima, ecc.) è divenuto, a causa dell'incidente, soggetto incapace di recare benefici, bisognoso di assistenza, non più parte, insomma, della comunione materiale e spirituale che dovrebbe essere il rapporto coniugale. La via più agevole per superare i vizi sanzionati dalla Suprema Corte, dunque, pare proprio essere quella di liquidare una percentuale del danno tabellare per la morte del congiunto; o, comunque, di prendere quel parametro a base della determinazione. È vero che anche in questo caso ci si affida a una valutazione equitativa ulteriore del giudice, che è chiamato a stimare in qual misura percentuale il marito menomato costituisca un minus rispetto al marito deceduto; così come è vero che su questo tema si può aprire una autonoma discussione, sino a porre la domanda se il coniuge che non dà più alcun contributo alla comunione spirituale e materiale e che, anzi, costituisce oggetto di un obbligo di assistenza gravoso, costituisca, soprattutto nel dipanarsi del tempo della vita media residua, un nocumento non patrimoniale maggiore rispetto alla morte, che con la sua irreparabilità e definitività lascia però aperta la strada a una progressiva elaborazione interiore e a un recupero (non del rapporto coniugale, ma) del benessere fisiopsichico, pur stabilizzatosi su assetti di vita mutati e modificati. Resta però indiscutibilmente fermo, a monte, che la somma riparatoria viene ancorata non all'equità pura – ossia, in sostanza, alla non verificabile opinione di quel determinato giudice – ma una tabella preesistente e generalmente usata in casi simili. Il potere equitativo in sé, si ribadisce, non è, allo stato, eliminabile e probabilmente neppure sarebbe auspicabile un sistema che ne prescindesse completamente, visto che lo ius dicere è, nella sua essenza, l'adeguamento della norma astratta al caso concreto e che solo la flessibilità del potere equitativo consente di tenere minuziosamente conto di tutte le peculiarità che ciascuna fattispecie alla fin fine reca con sé. È però fonte di irrazionalità e, in ultima analisi, di violazione del principio di eguaglianza, affidare al solo potere equitativo, sganciato da qualsiasi parametro che non sia la sensibilità personale del giudice, la liquidazione del danno. È dunque interessante, a conclusione di quanto sin qui scritto, notare che proprio in questo periodo l'Osservatorio per la Giustizia Civile del Tribunale di Milano, nella elaborazione di nuove tabelle, stia tentando di coprire con specifici nuovi parametri quei danni non patrimoniali altrimenti privi di appiglio (danno intermittente, danno da lucida agonia, danno da diffamazione, danno da abuso del processo, ecc.). |