Il danno morale da invalidità temporanea: a volte ritornano
24 Agosto 2015
Massima
Il danno non patrimoniale deve essere valutato considerando che in tema di risarcimento del danno da fatto illecito la liquidazione del danno morale, poiché ha natura satisfattoria della sofferenza determinata dall'illecito, integrante anche reato, va effettuata unitariamente in relazione al singolo fatto illecito (cioè al singolo reato), senza che possa scomporsi in varie voci in relazione a un danno per invalidità permanente o temporanea. A tal fine deve stimarsi la presumibile sofferenza morale soggettiva, il turbamento dell'animo e il dolore intimo sofferti dalla parte danneggiata, quali possono essere ragionevolmente ipotizzati in relazione alla speciale sensibilità emotiva che può presumersi secondo le circostanze Il caso
Un medico odontoiatra viene convenuto avanti al Tribunale di Monza dal paziente che allega inadempimento per imprudenza e imperizia del professionista, nonché per inosservanza dell'obbligo di informativa dello stesso e chiede il risarcimento dei danni subiti, sia patrimoniali (restituzione di quanto versato a titolo di corrispettivo), che non patrimoniali (danno biologico da invalidità temporanea e danno morale). Il medico si costituisce contestando nel merito le deduzioni attoree, ma il Tribunale accoglie la domanda, accertando la responsabilità del medico e riconoscendo a titolo di danno patrimoniale il rimborso di quanto pagato al professionista e spese mediche future, a titolo di danno non patrimoniale, il pregiudizio da invalidità temporanea e il danno morale. Propone gravame il professionista, sollevando numerosi profili di censura, che la Corte di Milano, nella sentenza in commento, ritiene, in gran parte, inammissibili per carenza di specificità, sanzionandoli ex art. 342 c.p.c.. La questione
La Corte risponde al quesito se, a fronte di illecito che ha causato lesioni fisiche, anche solo di natura temporanea e quindi in assenza di postumi permanenti, ed accertati incidentalmente dal giudice civile i presupposti per l'esistenza di un fatto-reato, sia in astratto risarcibile anche il danno morale del danneggiato, inteso quale «sofferenza morale soggettiva, turbamento dell'animo e dolore intimo». Le soluzioni giuridiche
La sentenza impugnata accerta, a fronte di conforme c.t.u., la responsabilità del professionista, per avere lo stesso provveduto alla ricopertura di un dente senza prima devitalizzarlo, affermando che il convenuto avrebbe dovuto astenersi dall'esecuzione di tale intervento qualora la paziente si fosse opposta alla devitalizzazione. L'intervento, di routine, produce un peggioramento delle condizioni della paziente e il professionista non dimostra che l'evento lesivo è riconducibile a evento imprevedibile. Sotto diverso profilo, secondo il primo giudice, imprudenza e imperizia si erano manifestate anche in relazione alla scelta delle sostanze applicate, le quali, a prescindere dal fatto che fossero o meno biocompatibili e certificate, avevano causato un peggioramento delle condizioni della paziente, facendo presumere che fossero inadeguate, quantomeno in relazione alla alta concentrazione e all'uso eccessivo con cui sono state impiegate. Senza chiedere la riforma del capo della sentenza di primo grado relativo alla responsabilità del professionista, il medico censura il Tribunale laddove lo stesso, pur escludendo l'esistenza di postumi permanenti, in conformità a quanto stabilito dal c.t.u., liquida a favore della paziente un importo a titolo di mero “danno morale”, in presenza degli elementi soggettivi ed oggettivi del reato di lesioni colpose a carico del medico. Secondo l'appellante, tale quantificazione sarebbe viziata di “illogicità” in quanto l'ausiliario del primo giudice, da un lato, non ha fatto riferimento a tale voce di danno, dall'altro nessun risarcimento sarebbe dovuto in assenza di danno biologico permanente. La Corte ricorda che in caso di lesioni personali, il giudice civile è tenuto ad accertare, incidenter tantum, secondo la legge penale, l'esistenza degli elementi costitutivi del reato di lesioni colpose: nel caso in oggetto, l'appellante non ha neppure impugnato la sentenza sul punto, quindi tale accertamento viene ritenuto coperto dal giudicato. Partendo da tale premessa, la Corte evidenzia come la sussistenza di due presupposti del fatto-reato e dei postumi, anche solo di natura temporanea, sia elemento sufficiente per una valutazione, dapprima in astratto, poi in concreto, della componente del danno non patrimoniale, qualificata come danno morale. Secondo la sentenza in commento, «in tema di risarcimento del danno da fatto illecito, la liquidazione del danno morale, poiché ha natura satisfattoria della sofferenza determinata dall'illecito, integrante anche reato, va effettuata unitariamente in relazione al singolo fatto illecito (cioè al singolo reato), senza che possa scomporsi in varie voci, in relazione, in particolare, ad un danno per inabilità permanente o per invalidità temporanea». Poiché anche l'invalidità temporanea costituisce conseguenza diretta del fatto illecito ed è risarcibile per equivalente pecuniario anche nell'ipotesi in cui non risultino postumi permanenti, la Corte ritiene doversi stimare la presumibile «sofferenza morale soggettiva, il turbamento dell'animo e il dolore intimo» sofferti dalla parte danneggiata, valutati in relazione alla speciale sensibilità emotiva che può presumersi secondo le circostanze. In sostanza, la risarcibilità del danno non patrimoniale deve essere riconosciuta in forza del combinato disposto degli art. 2059 c.c. e art.185 c.p., in ossequio agli insegnamenti delle Sezioni Unite, Cass. n. 26972/2008. Nel caso di specie, quindi, la Corte conferma la sentenza di primo grado che, a fronte di un'invalidità temporanea parziale di quaranta giorni, risarcita con l'importo di complessivi euro 900,00, riconosceva al danneggiato un “danno morale” di euro 3.000,00. Osservazioni
La sentenza in commento si segnala per una corretta esposizione dogmatica degli insegnamenti delle Sezioni Unite in tema di danno non patrimoniale, ma non un'altrettanto lineare applicazione pratica degli stessi. Il danno non patrimoniale è una categoria unitaria che può assumere numerose forme concrete, quanti sono i beni o gli interessi su cui va ad incidere. Pertanto, il danno non patrimoniale, che resta categoria unitaria, «si differenzia nei criteri di accertamento e di liquidazione, a seconda dell'interesse concreto su cui vada a cadere» (Cass. civ., sez. III, 7 novembre 2014, n. 23778). Tuttavia, l'unitarietà del danno non patrimoniale, secondo l'insegnamento della Suprema Corte, «non può restare un mero ossequio formale alla dogmatica e dunque non è consentito moltiplicare le voci di danno chiamando con nomi diversi pregiudizi identici» (cfr. Cass. civ., sez. III, 7 novembre 2014, n. 23778). In materia di danno alla persona derivante da una lesione del bene salute, il giudice deve tener conto anche delle «sofferenze che, pur traendo occasione dalle lesioni, non hanno un fondamento clinico (la medicina parla, al riguardo, di “dolore non avente base nocicettiva»(Cass. civ., sez. III, 7 novembre 2014, n. 23778), dopo avere liquidato l'invalidità permanente o temporanea (danno alla salute), applicando un criterio standard e uguale per tutti, che consenta di garantire parità di trattamento a parità di danno. Per tenere conto di entrambi i profili, il giudice deve applicare le tabelle e “personalizzare” il danno, vale a dire variare il criterio sopradetto, in eccesso o in difetto, adeguandolo al caso concreto. Tale operazione deve avvenire con adeguata motivazione che illustri i pregiudizi accertati, i criteri di monetizzazione e i criteri di eventuale personalizzazione. Detti principi sono, peraltro, indicati dalla Suprema Corte in caso di lesione al bene salute di natura permanente, ma nulla impedisce che si applichino anche in caso di lesioni di natura temporanea, purché con adeguata motivazione che, nel caso della sentenza di primo grado, sembra mancare. Se l'insegnamento delle Sezioni Unite di San Martino riguarda l'unitarietà del danno non patrimoniale, allora non appare legittimo il “ritorno all'antico” che emerge dalla sentenza in commento, nella quale si utilizza la “vecchia” categoria del “danno morale”, come “sofferenza transeunte”, “turbamento dell'animo”, “dolore intimo” dai contorni sfuggenti, che le sentenze di San Martino hanno tentato, a quanto pare invano, di eliminare: «la limitazione alla tradizionale figura del cd. danno morale soggettivo transeunte va definitivamente eliminata» (Cass.civ., S.U., 11 novembre 2008, n. 26972). La formula “danno morale” non individua una sottocategoria di danni, ma descrive, tra i possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva causata dal reato, in sé considerata, ma sempre quale componente del danno biologico (Cass. civ., S.U., 11 novembre 2008 nr. 26972). L'affermazione della Corte di Appello milanese «la liquidazione del danno morale, poiché ha natura satisfattoria della sofferenza determinata dall'illecito, integrante anche reato, va effettuata unitariamente in relazione al singolo fatto illecito» non è coerente con il richiamato insegnamento delle S.U., dal momento che i giudici milanesi utilizzano la categoria del “danno morale” come sottocategoria del danno non patrimoniale, peraltro mantenendola all'esterno del perimetro del danno biologico, ma richiamando categorie come “dolore intimo” e “sofferenza morale soggettiva”. Le S.U. di San Martino, invece, hanno chiarito che: «il danno non patrimoniale è categoria generale non suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate»; «definitivamente accantonata la figura del cd. danno morale soggettivo, la sofferenza morale, senza ulteriori connotazioni in termini di durata, integra pregiudizio non patrimoniale». Inoltre, nella sentenza in commento la Corte milanese non fornisce alcuna motivazione in ordine alla sua quantificazione, decisamente sproporzionata rispetto al danno biologico da invalidità temporanea accertato dal primo giudice. Invece, proprio le S.U. di San Martino hanno affermato che la componente morale del danno da lesione dell'integrità psicofisica è pur sempre «sofferenza soggettiva in sé considerata», proprio ove fosse allegato il «turbamento dell'animo e il dolore intimo sofferti». Va detto che la Corte si ferma a una valutazione astratta del profilo oggetto del gravame, sanzionato con l'inammissibilità per genericità, posto che la motivazione con cui il primo giudice ha riconosciuto tale aspetto del risarcimento non è stata specificamente impugnata dall'appellante. La Corte mostra, tuttavia, di aderire alla valutazione del primo giudice, che richiama i “forti dolori” sofferti dalla paziente per il periodo di invalidità temporanea. E allora, se così è, non si vede per quale motivo non incrementare la voce relativa al danno da invalidità temporanea, riconoscendo la sofferenza descritta quale danno biologico personalizzato e procedendo a una liquidazione unitaria del danno non patrimoniale. Restano, in ogni caso, non poche perplessità su una liquidazione di un danno non patrimoniale, che, nelle sue componenti risarcite, è costituito da euro 900 a titolo di danno da invalidità temporanea, della durata di soli quaranta giorni e solo in forma parziale, e da euro 3.000 nella sua componente “morale”, senza che a tale liquidazione sia attribuita alcuna specifica giustificazione, che non sia la mera ripetizione di categorie, quali appunto “danno morale”, “sofferenza soggettiva”, “dolore intimo” che non trovano nella sentenza della Corte d'Appello una adeguata motivazione. |