Il danno da perdita di un prossimo congiunto ricoverato presso una struttura sanitaria per pazienti affetti da patologie psichiatriche
08 Febbraio 2016
Massima
Del danno non patrimoniale derivante dalla morte del paziente ricoverato presso una struttura specializzata nel “trattamento intensivo” di soggetti con disturbi psichiatrici rispondono, ex contractu, la struttura di cura e assistenza interessata, in ragione delle carenze strutturali e organizzative che hanno compromesso l'adeguata vigilanza sul degente, nonché il medico che la dirige, il quale avrebbe dovuto vagliare personalmente tale aspetto, in rapporto di stretta correlazione alla patologia psichiatrica del paziente, sia al momento del ricovero, sia per tutta la durata dello stesso. Analogamente ne risponde lo psichiatra che aveva in cura il malato all'epoca dei fatti, in quanto autore del progetto terapeutico e preposto al controllo circa il suo effettivo decorso. Il caso
La vicenda in analisi trae origine dalla richiesta di risarcimento proposta dalla moglie di un paziente settantacinquenne - affetto da «disturbo delirante cronico» connesso al morbo di Parkinson - a seguito della sua morte quale diretta conseguenza della fuga dalla casa di cura e assistenza presso cui era stato inviato dal Dipartimento di Salute Mentale dell'AUSL di Rimini. L'attrice ha formulato la propria pretesa nei confronti dei seguenti soggetti:
In sostanza, la parte attrice ravvisava la negligenza sia rispetto alla scelta “a monte” di trasferire il marito presso la struttura in questione, imputabile al medico dell'ospedale e al direttore del Dipartimento presso cui la vittima si trovava ab origine ricoverata, sia rispetto al trattamento, e soprattutto alla custodia del paziente, una volta giunto all'interno della casa di cura, fino al giorno della scomparsa effettiva. La questione
In estrema sintesi, il Giudice del Tribunale di Rimini ha accertato, in primis, se vi fosse o meno una responsabilità addebitabile al medico psichiatra che dispone il trasferimento del paziente affetto da un disturbo cronico connesso all'evoluzione del morbo di Parkinson presso la struttura dalla quale lo stesso sia poi riuscito a scappare, procurandosi così la morte. In secondo luogo, ha ragionato in ordine al ruolo di eventuale responsabilità da riconoscere in capo al dirigente dell'AUSL a cui la struttura che ospitava il paziente in questione era collegata, e dalla quale dipendeva, dal punto di vista dei servizi di cura medico-sanitaria forniti ai degenti. In terzo luogo, ha definito i presupposti, il contenuto e la natura della responsabilità attribuibile al medico psichiatra direttore della casa di cura e al medico che aveva personalmente in cura il paziente all'interno della struttura e alla struttura medesima. Infine, ha chiarito alcuni profili di cruciale importanza in ordine alla determinazione e ai criteri di quantificazione del danno non patrimoniale collegato alla perdita di un prossimo congiunto, qual era quello lamentato da parte attrice nella fattispecie.
Le soluzioni giuridiche
Con riferimento alla prima delle questioni prospettate, il Tribunale di Rimini ha escluso la responsabilità del medico ospedaliero che aveva disposto il ricovero del paziente psichiatrico presso la struttura specializzata, atteso che «la catena causale che prende le mosse dall'originaria prescrizione è inevitabilmente ‘intermediata' dal comportamento dei soggetti preposti alla struttura in questione che possono concretamente avere reso possibile la ‘fuga', così come effettivamente realizzatasi». Di conseguenza, a parere del Giudicante, solo una macroscopica inadeguatezza della struttura in questione, sotto il profilo delle misure di sicurezza poste a presidio dell'incolumità di pazienti di questo genere – lascerebbe sussistere il nesso eziologico in questione. Ma, nel caso di specie, trattandosi di una residenza specificamente preposta a questo genere di ricoveri «e per di più legata alla AUSL di Rimini da una convenzione funzionale allo scopo (…) non può richiedersi al medico di verificare personalmente, volta per volta, le caratteristiche della struttura nella quale ritenga di inviare il paziente, soprattutto a fronte di una valutazione ‘preventiva' di idoneità da parte del suo datore di lavoro, la AUSL». Anche rispetto alla posizione del medico direttore della AUSL, il Tribunale ha escluso qualsivoglia profilo di responsabilità, dal momento che la scelta di deferire il paziente presso la struttura specializzata ha natura terapeutica, e come tale è stata assunta in piena autonomia dal medico curante (il quale peraltro, stando a quanto sopra argomentato, ha operato una scelta di per sé irrilevante nel meccanismo causale produttivo dell'evento dannoso). Per quel che concerne, invece, la responsabilità della struttura e del medico psichiatra posto a capo della stessa, il Tribunale ne ha riaffermato la natura sostanzialmente contrattuale, alla luce del “contatto sociale” istauratosi con il paziente al momento del ricovero. In particolare, la struttura risponde delle carenze organizzative inerenti al controllo sui pazienti, ossia della rilevata mancanza di accorgimenti e di risorse umane e strutturali idonee a garantire la sorveglianza, mentre il direttore risponde in ragione della “relazione qualificata” con i pazienti inviati dalla AUSL , da cui discende l'obbligo «di accertarsi delle condizioni di ciascun paziente, e poi di verificarne l'evoluzione onde valutare la persistente efficacia del programma terapeutico, mano a mano che questo andava svolgendosi». In quest'ottica, il Tribunale non ha ritenuto che potessero avere efficacia scusante rispetto alla negligenza del medico direttore della residenza specializzata sia il fatto che lo stesso fosse subentrato da pochi giorni al precedente titolare, sia il fatto che fosse in ferie il giorno dell'accaduto. Da ultimo, il Tribunale ha ribadito la responsabilità del medico psichiatra che aveva in cura il paziente presso la struttura in quanto il programma terapeutico messo a punto dal sanitario è apparso inadeguato a soddisfare gli obblighi di protezione nei confronti del malato, com'è stato dimostrato dall'evento di danno e com'era stato, nel caso di specie, già paventato da precedenti episodi di fuga di cui lo stesso soggetto si era reso protagonista in precedenza, sempre in quel contesto. Per quel che attiene alla determinazione del danno non patrimoniale patito dal coniuge del paziente scomparso nelle circostanze in analisi, il Giudice di Rimini ha considerato che, fatta eccezione per alcuni dati oggettivi, afferenti all'età del defunto, alle sue condizioni di salute e alla durata del matrimonio con la moglie, nessuna prova effettiva fosse stata fornita da parte attrice intorno ai cosiddetti “postumi permanenti” quali fattori costitutivi di una pretesa risarcitoria di questo genere. Al contrario, tenuto conto delle gravi e difficili condizioni di vita in cui la moglie del defunto si era trovata dovendo assistere il marito quando costui era in vita «il ragionamento presuntivo non potrebbe operare nel senso di far conseguire alla morte, un radicale peggioramento delle abitudini e della qualità della vita dell'attrice». Ecco perché il danno non patrimoniale alla stessa effettivamente risarcibile si riduce – a parere del Tribunale - esclusivamente ad una prestazione funzionale alla «riparazione dello sconvolgimento emotivo e del patimento interiore» conseguenti alla perdita definitiva del coniuge nelle condizioni fin qui descritte. Osservazioni
Il Giudice di Rimini prende spunto dall'analisi di una vicenda complessa di responsabilità, per così dire “a catena”, per puntualizzare alcuni profili essenziali del modello di responsabilità civile del medico e delle strutture, mediche e paramediche, in cui questo si trovi ad operare a vario titolo. In argomento, è certamente condivisibile l'idea per cui una responsabilità del sanitario debba sempre presupporre non solo, in primis, un rapporto diretto fra lui e il paziente, o meglio un “contatto” da cui insorga l'affidamento da parte del paziente (e dei suoi familiari) nella bontà delle scelte terapeutiche, ma anche un nesso eziologico diretto fra la condotta del sanitario, attiva o omissiva, e il danno patito dal paziente. In assenza di questa immediata correlazione sul piano oggettivo, invero, il rimprovero di negligenza, imprudenza, imperizia (anche le più macroscopiche) non assume alcuna rilevanza giuridica. Ecco perché il Tribunale esclude correttamente la responsabilità del medico dirigente dell'AUSL a cui era legata, sul piano organizzativo, la struttura di ricovero della vittima, ma pure quella del medico che ne aveva deciso il ricovero, mancando un nesso di derivazione diretta fra questa scelta terapeutica e l'accaduto. Peraltro, le statuizioni a cui approda il Tribunale adito si iscrivono pienamente nel paradigma della responsabilità medica, per come a tutt'oggi declinato dalla giurisprudenza di legittimità, nel senso che una volta dimostrata, ad opera del danneggiato, «l'esistenza del rapporto di cura, del danno e del nesso causale», la mera allegazione circa la colpa del sanitario ne implica la condanna alla prestazione risarcitoria, a meno che costui non provi «che l'eventuale insuccesso dell'intervento, rispetto a quanto concordato o ragionevolmente attendibile, sia dipeso da causa a sé non imputabile» (così, ex pluribus, Cass., sez. III, 20 ottobre 2015, n. 21177). Questo ragionamento, applicato alla vicenda in analisi, ha condotto il Giudicante a negare che i dati relativi al fatto che il direttore della struttura fosse in ferie, ovvero che avesse assunto da poco l'incarico integrassero fattori di elisione della sua colpa per non aver attentamente vagliato le condizioni di salute del malato in relazione alle misure di sorveglianza del luogo in cui era ricoverato, e soprattutto in considerazione delle peculiarità della patologia psichiatrica e dei precedenti episodi di fuga. Il che vale, a fortiori, per lo psichiatra che lo aveva in carico all'interno della struttura, e per quest'ultima – rispetto alle prestazioni mediche e assistenziali che avrebbe dovuto assicurare al paziente ricoverato in ragione della sua specializzazione in questo settore e della patologia che affliggeva il degente. Dopo aver dipanato la matassa delle responsabilità imputabili ai soggetti coinvolti, il Tribunale di Rimini – nella quantificazione del danno non patrimoniale connesso alla perdita del coniuge nelle condizioni esaminate – pone giustamente l'accento sulla divergenza fra l'esistenza di un evento dannoso e l'effettiva produzione di un danno che abbia una consistenza tangibile, da valutare precipuamente sulla base di quanto allegato e dimostrato dal danneggiato, specialmente sul piano dei pregiudizi permanenti che dovessero residuare nella propria sfera personale. In quest'ottica è doveroso prendere le distanze dall'abuso di meccanismi presuntivi che, per quanto ammissibili e anzi spesso necessari allo svolgimento di siffatte valutazioni, devono sempre radicarsi su dati pregnanti sul piano empirico–fattuale, e non possono in alcun caso sopperire alla loro mancanza in rerum natura.
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