Il risarcimento dei danni derivanti dal mancato rispetto dei principi generali di diritto processuale nel processo sportivo
08 Luglio 2016
Massima
È illegittima la decisione degli Organi di Giustizia Sportiva Federale - che sanzioni un'atleta con la sospensione dall'attività sportiva - qualora non siano rispettati, nel corso del processo sportivo stesso, i principi fondamentali di diritto processuale in tema di acquisizione di prove. La Federazione di appartenenza deve, dunque, risarcire l'atleta di tutti i danni - patrimoniali e non patrimoniali, compresi i danni da perdita di chance e di immagine – dalla stessa subiti a causa della sentenza illegittima. Il caso
Con provvedimento pubblicato nel Comunicato Ufficiale n. 2 del 20 febbraio 2014, la Corte Federale della FIPAV (Federazione Italiana Pallavolo) sospendeva per sei mesi dall'attività sportiva la giocatrice di beach volley G.C. per violazione dei principi informatori di lealtà e correttezza, ex art. 16 dello Statuto Fipav 19 e art. 2 del Codice del Comportamento Sportivo del Coni. La giocatrice, infatti, avrebbe aggredito verbalmente ed in luogo aperto al pubblico il tecnico federale di origini brasiliane, V.F., inveendo contro di lui in modo arrogante e provocatorio, nonché avrebbe utilizzato, tramite il social network Twitter, frasi allusivamente offensive e denigratorie, apostrofando lo stesso come «caprone nero» e «uomo nero». La sentenza veniva confermata dalla Corte di Appello Federale della Fipav, la quale rigettava il ricorso. L'atleta agiva, quindi, di fronte all'Alta Corte di Giustizia Sportiva del Coni (ora Collegio di Garanzia dello Sport, ultimo grado nell'ambito della giustizia sportiva), che, con decisione n. 16 del 5 maggio 2014, rigettava il ricorso dichiarandolo inammissibile. Infine, avverso tale decisione, la G.C. proponeva ricorso al Tar. La questione
È risarcibile il danno subito da un'atleta, a seguito di una pronuncia di condanna emanata dagli organi di giustizia sportiva, qualora questi – nonostante le peculiarità del processo sportivo endofederale - non abbiano rispettato i principi fondamentali di diritto processuale in tema di acquisizione delle prove? Le soluzioni giuridiche
In via preliminare, il Tar si dichiarava competente nelle controversie inerenti il risarcimento dei danni subiti dal soggetto sottoposto alla l. n. 91/1981 (norme in materia di professionismo sportivo), qualora venga leso un diritto disponibile dello stesso (sia questo atleta o società) e, come previsto dalla l. n. 280/2003, una volta «esauriti i gradi della giustizia sportiva e fermo restando la giurisdizione del giudice ordinario sui rapporti patrimoniali tra società, associazioni e atleti, ogni altra controversia avente ad oggetto atti del Comitato Olimpico Nazionale Italiano (di seguito CONI) o delle Federazioni Sportive non riservata agli organi di giustizia dell'ordinamento sportivo ai sensi dell'articolo 2» (sul rapporto tra giustizia ordinaria e giustizia sportiva si veda P. Sandulli e M. Sferrazza, Il giusto processo sportivo, Giuffrè editore, 2015). Accertata, dunque, la propria competenza nel procedimento in esame, il Tar era chiamato a sciogliere il nodo relativo alla mancata acquisizione di una prova testimoniale nel corso del procedimento sportivo; in particolare, la ricorrente lamentava che il tribunale sportivo avesse basato la propria decisione unicamente sulle testimonianze dei due soggetti coinvolti in prima persona, senza che né il Procuratore Federale (colui che svolge le indagini e, al termine di queste, decide se esercitare l'azione disciplinare deferendo la persona sottoposta ad indagini oppure chiedendo l'archiviazione), né il tribunale sportivo stesso avessero chiamato a testimoniare S.C., l'unica persona presente durante i fatti contestati alla pallavolista. Contro tale doglianza la Corte di Appello della Fipav rispondeva, invece, che fosse onere dell'atleta, nei propri atti difensivi, quello di chiamare Suprema Corte a testimoniare ed inferiva da tale mancanza l'attestazione di colpevolezza dell'atleta. Di contrario avviso era, invece, il Tar, il quale rilevava esattamente l'opposto, ovverosia che «costituisce un vero e proprio uso illegittimo dell'argumentum a contrario la circostanza che la Corte di Appello federale affermi di ricavare l'attestazione di piena colpevolezza dell'atleta, nel momento in cui quest'ultima non chiama a testimoniare a propria discolpa l'atleta S.C. presente ai fatti». A sostegno di ciò, il Tar ricordava la propria pronuncia del 20 dicembre 2010, n. 37668, nella quale, esprimendosi in un caso simile a quello in commento, aveva definito tale modus operandi degli organi di giustizia sportiva come un «metodo scorretto di acquisizione delle prove». Il giudice amministrativo – oltre ad aver valutato come «indiziarie» le prove utilizzate dai tribunali sportivi – rilevava come non sempre la celerità del procedimento sportivo sia un favor per l'indiziato, dato che, come evidenziato in questo caso, «non ha giovato ad una compiuta valutazione dei fatti ed alla acquisizione delle prove». Dunque, la mancata acquisizione della testimonianza dell'unica persona presente ai fatti - che avrebbe potuto provare l'innocenza della pallavolista - veniva ritenuta lesiva del diritto al giusto processo dell'attrice che, non essendo stata giudicata correttamente dai tribunali della Federazione di appartenenza, doveva essere risarcita di tutti i danni conseguentemente subiti. Accertata, dunque, l'erroneità della pronuncia dei giudici sportivi, il giudice amministrativo procedeva alla valutazione dei danni – patrimoniali e non - subiti dalla ricorrente. Nella prospettazione del quantum da risarcire, il giudice amministrativo teneva in considerazione una varietà di elementi e, nello specifico, i contratti che l'atleta aveva in essere prima della squalifica (i contratti di sponsorizzazione), i contratti di prestazione sportiva, l'interruzione delle trattative negoziali con alcune società (ad esempio case automobilistiche, società della distribuzione informatica e di accessori per lo sport) e, a titolo di perdita di chance, i mancati premi per la vittoria di tornei internazionali. Tutto ciò oltre al danno all'immagine subito dall'atleta. Il Tar condannava così la Federazione Italiana di Pallavolo al pagamento di Euro 208,000,00 (61.500,00 per la risoluzione dei contratti, € 55.000,00 per la perdita di chance, € 42.007,00 per perdita di chance per premi che non aveva ricevuto ed Euro 50.000,00 per danni all'immagine), oltre alle spese di giudizio. Osservazioni
Nel caso di specie, il giudice amministrativo era chiamato a quantificare i danni subiti da parte attrice a seguito del provvedimento illegittimo emanato dagli organi di giustizia sportiva; nel fare questo, teneva correttamente in considerazione tutte le “peculiarità” che l'atleta ha rispetto ad un “normale individuo”. Nello specifico, per quanto riguarda il danno patrimoniale, valutava il mancato guadagno dell'atleta dovuto alla risoluzione del contratto di prestazione sportiva (c.d. danno emergente) ed alla mancata partecipazione a competizioni per tutto il periodo di squalifica (il c.d. lucro cessante). Inoltre liquidava il danno da perdita di chance derivante, secondo un giudizio di probabilità, dalla mancata conclusione di contratti di sponsorizzazione a seguito dell'interruzione delle rispettive trattative negoziali. Il giudice amministrativo, nella motivazione della decisione, non si soffermava però nell'argomentare l'utilizzo dell'iter logico che aveva portato alla liquidazione del danno da perdita di chance, limitandosi ad affermare che «per tali voci di danno si ritiene equo calcolare un valore medio pari a euro 55.000,00». Tale (mancata) motivazione presta il fianco alla possibilità che la sentenza possa, in concreto, essere suscettibile di sindacato in sede di legittimità. È pacifico, infatti, in giurisprudenza che l'esercizio del potere discrezionale conferito al giudice di liquidare il danno in via equitativa possa essere oggetto di sindacato di legittimità solamente qualora la motivazione della decisione non dia«adeguatamente conto dell'uso di tale facoltà, indicando il processo logico e valutativo seguito» (Cass. civ., 15 marzo 2016, n. 5090). Tale critica potrebbe essere sollevata anche alla seconda voce di risarcimento del danno da perdita di chance, quella riguardante il mancato conseguimento di premi derivante dalla mancata partecipazione a tornei internazionali. Nel richiedere la quantificazione di tale voce di danno, la ricorrente sosteneva che la possibilità di conseguire i premi nei trofei ai quali avrebbe partecipato era elevata, dato che si collocava tra le cinque migliori atlete al mondo nella sua disciplina. Il giudice si limitava a liquidare il danno così come richiesto dalla ricorrente, senza motivare adeguatamente tale scelta e sostenendo che la somma fosse determinata «sulla base dei tornei ufficialmente calendarizzati dalla Federazione» e che, dunque, vada «riconosciuta così come dedotta in giudizio per tale titolo». Infine, l'ultima voce di danno, più complessa da valutare, era quella del danno all'immagine, che consiste nel danno non patrimoniale «costituito dalla diminuzione della considerazione della persona da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali il danneggiato abbia a interagire» (Cass. civ., 27 aprile 2016, n. 8397). Nello specifico, la ricorrente lamentava – senza tuttavia fornire sufficienti elementi a sostegno della propria domanda - che la propria immagine fosse stata rovinata a causa della squalifica e che la risonanza mediatica che tale sentenza aveva avuto a livello internazionale l'avesse fatta risultare «un'atleta razzista». Il tribunale amministrativo, tuttavia, ridimensionava in via equitativa le richieste dell'attrice, alla luce del fatto che «il danno all'immagine va rapportato alla diminuzione della considerazione della persona nell'ambiente lavorativo e nella pubblica opinione, alla risonanza che le vicende hanno avuto sia nell'ambiente professionale, ma anche nell'ambiente dei tifosi, in questo caso dimostrata dagli articoli di giornale conferiti in atti e dai quali risulta che molti appassionati di beach volley hanno addirittura raccolto firme per il rientro dell'interessata». Secondo la regola generale dettata dall'art. 2697 c.c., infatti, grava sul danneggiato l'onere di provare ogni elemento di fatto di cui possa ragionevolmente disporre, nonostante la riconosciuta difficoltà, al fine di consentire che l'apprezzamento equitativo esplichi la sua peculiare funzione di colmare soltanto le lacune riscontrate insuperabili nell'iter della precisa determinazione della misura del danno stesso. «Il concreto esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice del merito dagli artt. 1226 e 2056 c.c., non si estrinseca in un giudizio d'equità ma in un giudizio di diritto caratterizzato dall'equità giudiziale correttiva od integrativa, e trova ingresso, a condizione che la sussistenza di un danno risarcibile nell'an debeatur sia stata dimostrata ovvero sia incontestata o infine debba ritenersi in re ipsa in quanto discendente in via diretta ed immediata dalla stessa situazione illegittima rappresentata in causa, nel solo caso di obiettiva impossibilità o particolare difficoltà di fornire la prova del quantum debeatur» (Cass. civ., 8 gennaio 2016, n. 127). E' infatti pacifico in giurisprudenza che l'interessato debba provare la perdita non patrimoniale, derivante dalla lesione della propria immagine, attraverso presunzioni che devono fondarsi su circostanze gravi, precise e concordanti «e non sulla semplice ragionevolezza delle asserzioni dell'interessato circa il pregiudizio all'immagine ed al discredito professionale» (Cass. civ., 4 giugno 2007, n. 12929). |