Se la prestazione sanitaria è routinaria, l'onere della prova grava sul medico

Paolo Maria Storani
11 Maggio 2016

In tema di interventi sanitari di routine, qual è per lo specialista dermatologo la diagnosi di una comune micosi, la ripartizione dell'onere della prova tra paziente e medico grava su quest'ultimo.
Massima

In tema di interventi sanitari di routine, qual è per lo specialista dermatologo la diagnosi di una comune micosi, la ripartizione dell'onere della prova tra paziente e medico grava su quest'ultimo, che deve comprovare l'assenza di colpa in relazione alla condotta tenuta nella specie con la dimostrazione di avere osservato - nell'esecuzione della prestazione - la diligenza di norma richiesta allo specialista ed esigibile dal medico in possesso dello stesso grado di specializzazione.

Il caso

Diagnosi erronea da parte dello specialista in dermatologia: non di psoriasi si trattava, bensì di semplice infezione micotica. La scoperta della banalità della patologia era dovuta ad una successiva visita specialistica, eseguita da altro medico. Talché, la persona assistita allega in giudizio l'esistenza di un rapporto contrattuale con il dermatologo ed il mancato miglioramento della malattia da cui era affetto: adeguatamente trattato, era poi guarito con rapidità. La consulenza tecnica d'ufficio escludeva che il paziente fosse mai stato affetto da psoriasi, mentre le cure praticate per un lungo lasso di tempo non avevano dato esito alcuno sino alla corretta diagnosi della micosi da parte del medico interpellato in seconda battuta. Nonostante ciò, il tribunale respingeva la domanda opinando che la patologia era indimostrata, mentre in appello non miglior destino subiva l'impugnazione del paziente sul presupposto che per la Corte di Appello di Venezia permaneva il dubbio in ordine all'ipotizzato errore diagnostico-terapeutico; la corte distrettuale, oltretutto, chiosava che la guarigione era stata raggiunta senza postumi permanenti.

La questione

Il fulcro della vicenda processuale è allora il seguente: in presenza di interventi “routinari” (vale a dire di facile esecuzione) come si ripartisce l'onere probatorio? Graverà sul paziente, avuto riguardo all'inesattezza dell'adempimento, o, al fine dell'esonero di responsabilità, sul professionista sanitario?

Le soluzioni giuridiche

Si rivela granitico l'orientamento assunto dalla S.C. in tema di interventi sanitari “routinari” del tipo di quello affrontato dalla recente Cass. civ., Sez. III, 20 gennaio 2016, n. 885. Già il 3 marzo 2001 l'illustre autore Marco Rossetti, commentando sul n. 8 di Diritto e Giustizia, pag. 30 e ss., ed. Giuffrè, la sentenza - saggio della Cass., Sez. III, 16 febbraio 2001, n. 2335 (Est. Segreto), a proposito dell'onere della prova chiosava: «Se l'intervento è routinario, il fatto stesso che non sia riuscito pone a carico del medico una presunzione de facto di imperizia. Pertanto in questi casi: o il paziente ha l'onere di provare soltanto la routinarietà dell'intervento; oppure sarà il medico, se vuole andare assolto, a dover provare che l'insuccesso va ascritto a complicazioni imprevedibilmente insorte». Gli interventi di routine sono caratterizzati da un grado minimo di aleatorietà, tale per cui all'osservanza della diligenza ordinaria consegue di norma un esito favorevole; l'onere probatorio è assai sbilanciato a vantaggio del paziente come nei casi di interventi ortopedici semplici, di ingessatura di un arto, di esecuzione di un taglio cesareo, dell'impianto di capelli artificiali, di intervento di liposuzione, di somministrazione di un'anestesia, dell'applicazione di un catetere o degli interventi di tipo odontoiatrico. Doveva apparire evidente alla Corte d'Appello di Venezia che l'impugnante aveva adempiuto all'onere della prova ed aveva allegato l'esistenza di un legame di tipo contrattuale («non contestato» tiene a porre in risalto l'Estensore, Cons. Giacomo Travaglino) con il medico ed il mancato miglioramento delle condizioni di salute del malato, mentre, per converso, il medico, “debitore” qualificato nella rafforzata diligenza delineata dal canone della diligenza di cui al capoverso dell'art. 1176 c.c., non aveva offerto nessuna dimostrazione in ordine all'adeguatezza del proprio operato; addirittura, nella fattispecie in disamina si versa in un caso limite in cui non solo non ricorre la prova che l'insuccesso terapeutico sia dipeso da fattori indipendenti dal comportamento del medico, ma esisteva in atti la prova della riluttanza dello specialista all'adozione delle cure correlate alla diversa (e corretta) diagnosi di micosi formulata da altro collega, parere che il paziente gli aveva anche rappresentato; ciò nonostante, il dermatologo si era ostinato, imperterrito, sulla sua posizione diagnostica-terapeutica di psoriasi. Occorre registrare che il Collegio regolatore è giunto all'approdo ormai consolidato secondo cui l'onere di provare l'assenza di colpa grava sul professionista sanitario soltanto in tempi relativamente recenti. Infatti, sino al 2004 vigeva una linea ermeneutica più rigorosa per il danneggiato: ancora con la pronuncia della Cass, Sez. III, 19 maggio 2004, n. 9471, Est. Travaglino, il S.C. sosteneva che l'allegazione di colpa, pur senza spingersi in un grado di approfondimento estremo e fino alla necessità di enucleazione di specifici e peculiari aspetti tecnici di responsabilità professionale, conosciuti e conoscibili solo per gli esperti del settore, dovesse pur sempre essere realizzata in maniera chiara e non puramente generica: «pur gravando sull'attore l'onere di allegare i profili concreti di colpa medica posti a fondamento della proposta azione risarcitoria, tale onere non si spinge sino alla necessità di enucleazione ed indicazione di specifici e peculiari aspetti tecnici di responsabilità professionali, conosciuti e conoscibili soltanto dagli esperti del settore (ché, diversamente opinando, si finirebbe per gravare il richiedente di un onere supplementare, quanto inammissibile, quale quello di richiedere, sempre e comunque, un accertamento tecnico preventivo onde supportare l'atto introduttivo del giudizio delle necessarie connotazioni tecnico - scientifiche)». Proprio in quello stesso anno, però, il formante giurisprudenziale inaugura un orientamento più liberale, poi prevalso, con la sentenza della Cass., sez. III, 21 giugno 2004, n. 11488, Est. Alfonso Amatucci; in un rinnovato clima di contrattualizzazione del tipo di responsabilità, la S.C. afferma che, in tema di responsabilità professionale del medico (nella fattispecie un ecografista), sussistendo un rapporto contrattuale in base alla regola di cui all'art. 1218 c.c., il paziente ha l'onere di allegare l'inesattezza dell'inadempimento, non la colpa, né tanto meno la gravità della medesima, dovendo il difetto di colpa o la non qualificabilità della stessa in termini di gravità essere allegate e provate dal medico: spetta, pertanto, a quest'ultimo provare che l'impossibilità della prestazione sia derivata da causa a lui non imputabile.

Nella subiecta materia gli elementi costitutivi della responsabilità sono l'inadempimento e la colpa, oltre all'altro elemento fondante, il nesso di causalità.

Notoriamente nell'ottica civilistica ci si accontenta di un più tenue criterio probabilistico di normalità causale, il modello del “più probabile che non”, ricalcato sulla matrice della c.d. preponderance of evidence.

Del resto, ricorda Cass. civ., sez. III, 9 ottobre 2012, n. 17143, che la diligenza esigibile dal medico nell'adempimento della sua prestazione professionale, pur essendo quella rafforzata di cui al comma 2 dell'art. 1176 c.c., non è sempre la medesima, ma varia col variare del grado di specializzazione di cui sia in possesso il medico, oltre che del grado di efficienza della struttura in cui il sanitario si trovi ad operare.

Da rilevare che il paziente del caso affrontato da Cass. n. 885/2016 ora in commento affidava le sorti del suo ricorso, poi accolto, alla violazione e falsa applicazione proprio dell'art. 1176, comma 2, c.c., oltre che all'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia.

A tacer della considerazione che, allargando l'orizzonte dell'analisi alla medicina di base, persino facendo leva sulle leges artis comuni a qualsiasi ramo della professione medica, si sarebbe potuta agevolmente individuare l'esatta diagnosi di infezione micotica, patologia peraltro assai frequente.

Emerge chiaramente che l'attore deve, in sintesi, provare l'esistenza della fonte negoziale del suo credito e la riconducibilità all'inadempimento lamentato della tipologia e della misura dei pregiudizi, patrimoniali e non patrimoniali, scaturenti dall'inadempimento lamentato; il paziente deve soltanto allegare la prestazione contestata. Notoriamente, per allegazione s'intende l'affermazione dei fatti rilevanti, costituenti le ragioni della domanda e su cui si fondano l'azione o l'eccezione dedotte in causa. Le allegazioni hanno la funzione di delimitare il perimetro decisorio del giudice. Spetta al convenuto smantellare il quadro tratteggiato dal richiedente.

Osservazioni

Si rivela, in primo luogo, il fondamentale ruolo della Ctu medico legale nella materia della responsabilità medica, che nella pratica condiziona il giudizio in ordine alla sussistenza di profili di colpa imputabili ai sanitari.

A titolo operativo, si è al cospetto di responsabilità contrattuale con conclusione con il paziente di un contratto d'opera professionale; mentre la responsabilità aquiliana che scaturirebbe dalla c.d. Legge Balduzzi per il richiamo operato all'art. 2043 c.c. (cfr. Trib. Milano, sez. I civ., 17-23 luglio 2014, n. 9693, Est. Patrizio Gattari) sorge in capo ad un soggetto che, tendenzialmente, sino alla verificazione del danno era un estraneo rispetto al danneggiato, l'erogazione della prestazione da parte del medico libero professionista, diretto contraente del paziente, ricalca la tipologia routinaria (la routine, prestito dal francese route, è la ‘strada', il ‘percorso', è l'esperienza abitudinaria che si trae dall'andamento uniforme e ripetitivo della casistica di lavoro).

Nella fattispecie decisa dal S.C., che si iscrive nell'orbita di un consolidato orientamento della Corte di legittimità, si è al cospetto di una flagrante violazione del contratto di cura ad opera di chi aveva assunto un'obbligazione nella qualità di specialista; in proposito si veda Cass. civ., sez. III, 13 aprile 2007, n. 8826, che esalta l'affidamento in termini di salute del paziente alle doti professionali del medico; in quest'ultima sentenza i giudici di Piazza Cavour si occuparono di un caso in cui era stato effettuato un intervento di facile esecuzione, vale a dire una setto-rinoplastica a carattere funzionale e non estetico; tale intervento risultò inutile dal momento che permasero le difficoltà respiratorie dell'ammalata, costretta a sottoporsi ad altro, successivo intervento che, poi, sortì l'effetto sperato.

In tali casi la più minuta individuazione della specifica colpa del professionista non è, a ben vedere, onere stringente del paziente, che può limitarsi a declinarla in maniera anche generica. A ciò fa pendant la constatazione che, negli ultimi decenni, il fascio delle prestazioni da considerare particolarmente difficili si è ridotto sensibilmente per i progressi della medicina. Si è, dunque, assistito ad una progressivo ridimensionamento dell'art. 2236 c.c. che darebbe luogo ad una forma di responsabilità di tipo attenuato, per giunta marginalizzata al solo caso dell'imperizia, per la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, con esclusione, quindi, dell'imprudenza e della negligenza. L'attenuazione di responsabilità è, peraltro, ulteriormente limitata dalla richiesta, in capo al professionista, di un'attenzione scrupolosa, pretendendosi dallo specialista uno standard di diligenza superiore al normale, dal quale esigere appunto una preparazione ed un dispendio di attività superiore al normale come in Cass. 4437/1982, Di Biagio c. Cassa Marittima Meridionale, mentre non si consente al non specialista il trattamento di un caso altamente specialistico come in Cass. n. 2428/1990 che ritenne un ortopedico responsabile per aver affrontato, privo di esperienza nel campo, un intervento di alta chirurgia neoplastica. Talché, anteposta la sussistenza del rapporto eziologico, anche lo scarto lieve dal modello ideale di condotta può venire in rilievo ai fini dell'affermazione di responsabilità.

Va da sé che se il risultato di una determinata attività diagnostico - terapeutica è incerto, non per questo è possibile affermare che tale attività sia difficile. Ciò vale a dire che può accadere che un'attività, del tipo la corretta somministrazione di farmaci necessari per la patologia correttamente individuata, sia agevole, anche se il risultato, ossia il miglioramento o la guarigione, sia tuttavia incerto.

Il nuovo formante giurisprudenziale ha soppresso il precedente modello ancorato al duplice sistema di distribuzione degli oneri probatori a seconda se il caso sia inquadrabile come attività di non facile esecuzione o no.

Pur operando il regime di cui all'art. 1218 c.c. il paziente era onerato della dimostrazione della facilità della prestazione. Il S.C. ha affermato con linearità che la distinzione tra prestazioni di facile esecuzione e prestazioni implicanti la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà non rileva più quale criterio di ripartizione dell'onere della prova, essendo solo indice di valutazione del grado di diligenza e del complanare grado di colpa.

Rimane, dunque, sulle spalle del sanitario la prova che la prestazione era di particolare difficoltà. Parallelamente cade nel dimenticatoio la differenziazione fra obbligazione di mezzi e di risultato. S'impone porre in risalto, da ultimo, che onere di allegazione e onere di prova non sono attività coincidenti se non nel processo avanti al giudice di pace, al cui cospetto le parti, all'udienza di cui all'art. 320 c.p.c., possono ancora allegare fatti nuovi e proporre domande ed eccezioni nuove, dal momento che sono ammesse ad effettuare la costituzione in giudizio sino a tale udienza, che somma in sé le caratteristiche di prima udienza di comparizione e prima udienza di trattazione. Avanti al tribunale, invece, le parti debbono introdurre in giudizio i fatti che costituiscono il fondamento delle domande e delle eccezioni, che possono essere modificate o precisate entro la prima memoria di cui all'art. 183, comma 6, c.p.c.: sotto tale profilo si rimanda alla pronuncia di legittimità, davvero ariosa ed innovativa, emessa dalle Sezioni Unite il 15 giugno 2015, n. 12310, Est. Camilla Di Iasi, in tema di mutatio ed emendatio, un autentico arsenale di idee per il processualista che si trovi alle prese con le correzioni di tiro prima della trattazione della causa, tant'è gremita di nostro vissuto quotidiano.