Sussiste nesso eziologico tra esposizione all'amianto e patologia insorta a oltre 20 anni di distanza

13 Dicembre 2016

Esiste un rapporto causale unanimemente riconosciuto tra mesotelioma pleurico ed esposizione all'amianto. Pertanto, ove l'esposizione lavorativa sia accertata, può ritenersi dimostrata la rilevanza causale di quest'ultima rispetto alla patologia insorta anche a notevole distanza di tempo, atteso che l'intervallo di tempo tra l'esposizione stessa e l'esordio di tale malattia è attualmente valutato nell'ordine dei 20-40 anni.
Massima

Esiste un rapporto causale unanimemente riconosciuto tra mesotelioma pleurico ed esposizione all'amianto. Pertanto, ove l'esposizione lavorativa sia accertata, può ritenersi dimostrata la rilevanza causale di quest'ultima rispetto alla patologia insorta anche a notevole distanza di tempo, atteso che l'intervallo di tempo tra l'esposizione stessa e l'esordio di tale malattia è attualmente valutato nell'ordine dei 20-40 anni.

Il caso

La pronuncia del Tribunale trae le mosse dal ricorso presentato dagli eredi di un lavoratore deceduto in seguito alla contrazione di un mesotelioma pleurico maligno. Il dante causa dei ricorrenti aveva prestato servizio per circa 22 anni – dal 1965 al 1987 – in qualità di operaio a beneficio della compagnia operante presso il porto di Napoli, svolgendo, in particolare, le mansioni di scaricatore di stive delle navi e occupandosi della sistemazione del materiale a terra. Lo stesso, nel corso dell'anno 2006, aveva contratto la suddetta patologia, che circa un anno più tardi, nel giugno 2007, ne aveva causato il decesso.

I ricorrenti, dunque, adivano il Tribunale di Napoli deducendo che la contrazione della malattia e, conseguentemente, la morte del dante causa sarebbero state cagionate dall'esposizione ad ingenti dosi di amianto, verificatasi proprio nel corso dello svolgimento della menzionata attività di lavoro, durante la quale il datore di lavoro non avrebbe impiegato misure preventive e di sicurezza avverso tale rischio. Col ricorso, dunque, si chiedeva di accertare e dichiarare, eventualmente anche in via presuntiva, la responsabilità della parte convenuta in ordine al decesso del lavoratore e per l'effetto condannare la stessa al risarcimento dei danni non patrimoniali subiti, sia iure successionis che iure proprio, dai ricorrenti. La parte convenuta si costituiva chiedendo il rigetto della domanda nel merito. Nel corso dell'istruttoria, ritenendo di doversi avvalere di consulenza tecnico legale, il giudice procedeva alla nomina del CTU.

La questione

È possibile affermare la sussistenza del nesso causale tra lo svolgimento di attività lavorativa caratterizzata da esposizione all'amianto e la contrazione di mesotelioma pleurico maligno avvenuta a circa 20 anni di distanza? In tal caso, possono ritenersi conseguentemente sussistenti la responsabilità del datore di lavoro e il diritto al risarcimento del danno, anche in capo agli eredi del lavoratore nel frattempo deceduto?

Le soluzioni giuridiche

Dopo aver risolto alcune questioni preliminari, il Tribunale si pronuncia sul merito del giudizio, accertando la responsabilità del datore di lavoro in forza dell'affermazione secondo cui, nel caso di specie, «non possono esservi dubbi in relazione alla sussistenza del nesso di causalità tra l'evento morte descritto in ricorso (e le relative patologie ivi indicate) e l'espletamento delle mansioni di scaricatore di stive delle navi e sistemazione del materiale trasportato nei magazzini a terra». Il giudizio di responsabilità viene fatto discendere proprio dall'affermazione della sussistenza del nesso causale tra l'esposizione all'amianto e la patologia mortale.

In assenza di un'esplicita ricostruzione teorica sul punto operata dalla sentenza, la stessa pare seguire il metodo della “causalità reale”, dal momento che le risultanze probatorie risultano rilevanti in quanto fondano il convincimento del giudice sul fatto che dall'esposizione sia derivata la patologia e che la stessa esposizione fosse inquadrabile nell'ambito dell'organizzazione aziendale. Quanto al primo aspetto, da un lato, l'effettivo verificarsi dell'esposizione all'amianto risulterebbe dimostrata da documentazione – proveniente da organismi pubblici spesso di tipo tecnico – che, anche se in data successiva a quella di svolgimento dell'attività lavorativa, avrebbero accertato la presenza di ingenti dosi di amianto sul luogo di lavoro fin dai tempi in cui il dante causa dei ricorrenti prestava il proprio servizio. Gli stessi documenti dimostrerebbero la riconducibilità dell'esposizione stessa all'esercizio delle mansioni assegnate al lavoratore. Dall'altro lato, è la perizia del CTU a non lasciare alcun dubbio circa il fatto che la patologia letale fosse diretta conseguenza dell'attività lavorativa svolta.

Il profilo su cui né la consulenza tecnica né la motivazione della pronuncia indugiano è costituito dalla legge scientifica di copertura che permetterebbe di ritenere specificamente dimostrato proprio il nesso causale, che, in quanto elemento costitutivo dell'accertamento della responsabilità, non può essere semplicemente oggetto di presunzioni. In particolare, in un caso come quello in esame, in assenza di leggi di tipo scientifico, la scienza medica può fare esclusivo riferimento a leggi di tipo epidemiologico al fine di ricavare le regole generali da applicarsi all'analisi del caso concreto (cfr., sul punto, l'ampia ricostruzione di D. SPERA, F. SPERA, Danno da amianto, in Ri.Da.Re.). Viene in gioco, innanzitutto, la questione della collocazione temporale dell'esposizione causalmente rilevante. Secondo le stesse leggi epidemiologiche da prendersi come riferimento, la latenza media della malattia, a partire dalla prima inalazione, avrebbe una durata di circa 46 anni, con una deviazione standard di 12 anni, mentre rarissima resterebbe l'insorgenza entro 10 anni dalla prima esposizione (cfr. sempre D. SPERA, F. SPERA, Danno da amianto, in Ri.Da.Re.). Vi è poi il problema della misurazione quantitativa dell'idoneità lesiva dell'esposizione: autorevoli precedenti giurisprudenziali, sul punto, differenziano gli esiti delle indagini in ragione delle diverse tipologie di patologie correlate all'inalazione di polveri di amianto (cfr. Cass. civ., sez. lav., 30 luglio 2013, n. 18267). Secondo la pronuncia di legittimità appena citata, infatti, la scienza medica ha appurato che mentre nel mesotelioma pleurico, nei soggetti suscettibili esposti ad amianto, l'effetto cancerogeno può essere conseguente ad una dose estremamente bassa, al contrario, per tutti gli altri tumori – compreso il carcinoma polmonare da amianto – dosi basse non producono effetti epidemiologicamente dimostrabili. Con riferimento al caso di specie, dunque, le modalità temporali e le quantità dell'esposizione all'amianto in concreto verificatasi appaiono sufficienti, sulla scorta delle conoscenze mediche oggi disponibili, a individuare il nesso di causa con il tipo di patologia insorta.

Osservazioni

La sentenza in commento, come visto, giunge ad affermare la responsabilità del datore di lavoro per la malattia asbesto correlata sulla base dell'accertamento del solo nesso di causalità tra l'esposizione all'amianto e la patologia letale insorta a notevole distanza di tempo, senza indagare esplicitamente la questione relativa alla sussistenza di un elemento soggettivo idoneo a fondare la responsabilità datoriale. Come più volte ricordato dalla giurisprudenza in tema di violazione dell'obbligo di tutela della salute del lavoratore, l'obbligo di sicurezza, benché richieda un grado di diligenza particolarmente qualificato, non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva (cfr. Cass. civ., sez. lav., 22 gennaio 2014, n. 1312; Cass. civ., sez. lav., 18 luglio 2013, n. 17585; Cass. civ., sez. lav., 1 luglio 2013, n. 16452; Cass. civ., sez. lav., 7 agosto 2012, n. 14192; Cass. civ., sez. lav., 12 luglio 2004, n. 12863; Cass. civ., sez. lav., 1 giugno 2004, n. 10510; Cass. civ., sez. lav., 10 maggio 2000, n. 6018).

Nella ricostruzione dei fatti di causa operata dalla pronuncia in esame, certo, non vi è traccia dell'adozione, da parte del datore di lavoro, di alcuna misura di prevenzione finalizzata a proteggere i lavoratori dai rischi connessi al trasporto del materiale nocivo. Ad ogni modo, è bene ricordare che, in via generale, nel nostro ordinamento una regolamentazione normativa dei valori limite alla concentrazione di fibre di amianto in ambiente di lavoro è stata introdotta solo a partire dal D. M. 16 ottobre 1986, seguito poi dal d.lgs. 15 agosto 1991, n. 277 e dalla l. 27 marzo 1992, n. 257. Ciò dovrebbe significare che l'elemento soggettivo della colpa specifica potrebbe considerarsi sussistente solo per il caso di esposizioni verificatesi in data successiva a quella dell'entrata in vigore della predetta normativa. Tuttavia, anche se in modo più generico, per condotte poste in essere anteriormente sarebbe sempre possibile richiamare il d.P.R. 19 marzo 1956, n. 303, che dettava alcune prescrizioni volte a contenere il potenziale impatto dannoso sulla salute dei lavoratori delle polveri presenti sul luogo di lavoro.

Inoltre, non si può trascurare come nell'ordinamento sia comunque dato riscontrare la presenza dell'art. 2087 c.c., che, ponendosi quale norma di chiusura del sistema prevenzionistico, appare idonea a fondare la responsabilità per colpa generica del soggetto che, investito della posizione di garanzia, ometta di predisporre quelle misure e cautele che, benché non specificamente previste da alcuna norma, siano atte a preservare la salute e l'integrità psicofisica del lavoratore nel luogo di lavoro (cfr. Cass. civ., sez. lav., 8 ottobre 2012, n. 17092). Il principio della massima sicurezza tecnologicamente possibile fondato sulla menzionata norma codicistica viene declinato, dalla giurisprudenza in tema di amianto, nella regola di accertamento dell'elemento soggettivo secondo cui l'obbligo del datore di lavoro di prevenzione contro gli agenti chimici scatta pur quando le concentrazioni atmosferiche non superino predeterminati parametri quantitativi, ma risultino comunque tecnologicamente passibili di ulteriori abbattimenti (cfr. Cass. pen., sez. IV, 20 marzo 2000, n. 3567, nonché le recenti Cass. civ., sez. lav., 6 novembre 2015, n. 22710; Cass. civ., sez. lav., 14 maggio 2014, n. 10425. Nella giurisprudenza di merito, cfr. la dettagliata ricostruzione operata da Trib. Milano 30 aprile 2015, n. 4988).

Infine, per ciò che attiene alle regole operazionali relative all'azione risarcitoria promossa dal lavoratore, esse vanno ricostruite a partire dal sinallagma contrattuale e, in particolare, da combinato disposto degli artt. 2087 e 1218 c.c., per il tramite dell'integrazione del contratto di lavoro ex art. 1374 c.c. Ne deriva che il riparto degli oneri probatori nella domanda di risarcimento del danno si pone negli stessi termini dell'inadempimento delle obbligazioni contrattuali, da ciò discendendo che il lavoratore deve allegare e provare l'esistenza dell'obbligazione lavorativa, la nocività dell'ambiente di lavoro e l'esposizione al fattore di rischio, il danno e il nesso causale tra questi elementi, mentre il datore di lavoro deve provare la dipendenza del danno da causa a lui non imputabile, ovvero l'assenza di colpa, che, nel caso di patologie asbesto correlate deve appunto valutarsi alla luce delle norme generiche e specifiche menzionate (cfr., con riferimento alla ripartizione degli oneri probatori in tema, in generale, di violazione dell'obbligo di sicurezza gravante sul datore di lavoro, Cass. civ., sez. lav., 24 gennaio 2014, n. 1477; Cass. civ., sez. lav., 18 luglio 2013, n. 17585; Cass. civ., sez. lav., 1 luglio 2013, n. 16452; Cass. civ., sez. lav., 11 aprile 2013, n. 8855).

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