Responsabilità del medico anche per la “causa incerta o ignota” e la prescrizione quinquennale per il risarcimento del danno dei prossimi congiunti

13 Gennaio 2016

In tema di responsabilità civile nell'attività medico - chirurgica, il danneggiato ha l'onere di provare di essersi sottoposto all'intervento presso la struttura e di aver riportato, in conseguenza di esso, un obiettivo peggioramento delle proprie condizioni di salute. Spetta invece al sanitario o all'ente ospedaliero dimostrare non soltanto che non siano stati compiuti errori nella esecuzione dell'operazione, ma anche che l'obiettivo aggravamento sia dovuto ad un fattore esterno individuato, a sé non imputabile. Ne deriva che qualora rimanga incerta la causa dell'esito infausto, la situazione processuale di sostanziale incertezza circa l'assenza di colpa del medico e circa le cause dell'aggravamento non può essere fatta ricadere sul paziente.
Massima

In tema di responsabilità civile nell'attività medico - chirurgica, il danneggiato ha l'onere di provare di essersi sottoposto all'intervento presso la struttura e di aver riportato, in conseguenza di esso, un obiettivo peggioramento delle proprie condizioni di salute. Spetta invece al sanitario o all'ente ospedaliero dimostrare non soltanto che non siano stati compiuti errori nella esecuzione dell'operazione, ma anche che l'obiettivo aggravamento sia dovuto ad un fattore esterno individuato, a sé non imputabile. Ne deriva che qualora rimanga incerta la causa dell'esito infausto, la situazione processuale di sostanziale incertezza circa l'assenza di colpa del medico e circa le cause dell'aggravamento non può essere fatta ricadere sul paziente.

Il diritto che i congiunti vantano, autonomamente sebbene in via riflessa, ad essere risarciti dalla medesima struttura dei danni direttamente subiti a causa dell'esito infausto dell'operazione cui è stato sottoposto il danneggiato principale si colloca nell'ambito della responsabilità extracontrattuale e pertanto è soggetto alla prescrizione quinquennale prevista dall'art. 2947 c.c., non potendo essi giovarsi del termine più lungo del quale gode la vittima primaria in virtù del diverso inquadramento, contrattuale, del rapporto tra la stessa ed il soggetto responsabile.

Il caso

Tizio si rivolge all'Ospedale Alfa per essere sottoposto ad un delicato intervento di decompressione sub-occipitale e laminectomia delle prime vertebre cervicali al fine di porre rimedio ad una pregressa patologia, che gli procura irrigidimenti muscolari e qualche difficoltà nella deambulazione (presenza di idrocefalo e di siringomielia da malformazione di Arnold-Chiari in soggetto che in passato aveva riportato importante trauma cranico in conseguenza di incidente stradale).

Tre giorni dopo l'operazione, il paziente, che ha problemi di incontrollata mobilità degli arti, cade dal letto – per essere questo privo di protezioni e sponde – e riporta trauma cranico ed emorragia cerebrale; si rende quindi necessario il trasferimento in rianimazione.

Alla dimissione, le condizioni di Tizio risultano decisamente peggiorate rispetto al momento del ricovero: è infatti comparso un deficit ai nervi cranici inferiori, prima inesistente, che causa strabismo nonché disturbi della parola e del gusto; si è altresì verificato un notevole aggravamento dal punto di vista sensitivo motorio, che rende di fatto del tutto impossibile la deambulazione. Successivamente, la situazione precipita: il paziente diviene tetraparetico, gravemente disartrico e bisognoso di assistenza continua perché non più in grado di compiere alcun gesto della vita quotidiana.

Tizio, i fratelli e la madre decidono quindi di promuovere l'azione contro l'ente ospedaliero (rectius la Gestione Liquidatoria della ex U.S.S.L.) al fine di ottenere il risarcimento dei danni per i gravi postumi invalidanti, (a loro dire) riconducibili alla erronea e negligente esecuzione dell'intervento chirurgico oltre che alla carente sorveglianza postoperatoria.

In corso di causa Tizio decede e il processo viene proseguito dai familiari anche come suoi successori.

Il Consulente Tecnico d'Ufficio all'uopo nominato non ravvisa errori addebitabili ai sanitari nella esecuzione dell'intervento. Dichiara altresì di non essere in grado di verificare l'esistenza di un nesso eziologico tra la caduta dal letto e la successiva emorragia cerebrale (cui è ricollegato il peggioramento delle condizioni cliniche del paziente), e ciò a motivo della incompletezza dei dati riportati in cartella clinica.

Il Tribunale dichiara prescritti i diritti degli attori azionati iure proprio e rigetta per il resto le domande risarcitorie proposte iure successionis.

La Corte d'Appello conferma la decisione.

In particolare, nel ritenere la pretesa infondata, il Giudice del gravame afferma che, conformemente alle risultanze della esperita Ctu:

  • l'intervento di decompressione eseguito presso l'ente ospedaliero era di elevata difficoltà;
  • non sono stati accertati errori nella esecuzione dello stesso;
  • comunque, in applicazione dell'art. 2236 c.c., trattandosi di operazione che implicava la soluzione di problemi particolarmente complessi, spettava al paziente dimostrare la configurabilità, nel comportamento dei sanitari, di dolo o colpa grave;
  • nessun rilievo può attribuirsi alla incompletezza della cartella clinica (in punto nesso tra la caduta dal letto e la successiva emorragia cerebrale) perché tale profilo è stato dedotto tardivamente dal danneggiato (che ha stigmatizzato tale lacunosità quando i termini di cui agli artt. 183 e 184 c.p.c. erano oramai spirati, avendone preso contezza solo all'esito della Ctu).

Gli attori ricorrono dunque in Cassazione censurando la sentenza sotto più profili (tra cui anche quello relativo al “consenso informato”; argomento, questo, che avendo – nell'economia della pronuncia – rilievo meno centrale, non verrà trattato in queste brevi note).

Le questioni

La prima questione che viene affrontata dalla Cassazione attiene al riparto della prova ed al contenuto della stessa. In altri termini, i quesiti ai quali gli Ermellini danno risposta possono essere così sintetizzati: per i fini di cui all'art. 2697 c.c., rileva la distinzione tra interventi di facile e difficile esecuzione? Cosa devono dimostrare il medico/la struttura per andare esenti da responsabilità? fino a dove si estende l'onere ad essi imposto?

Altro tema che merita qualche riflessione è quello che attiene alla incompletezza della cartella clinica: nel caso di specie la Corte esclude di poter esaminare le critiche mosse dai ricorrenti circa la lacunosità della documentazione redatta dai sanitari perché – sostiene – trattasi di «fatti costitutivi della pretesa» che sono stati tardivamente dedotti.

Da ultimo – ma forse si dovrebbe cominciare proprio da qui dato l'effetto dirompente e per certi aspetti “rivoluzionario” dell'assunto – la Cassazione si occupa, quasi per inciso, del profilo della prescrizione del diritto vantato iure proprio dai congiunti della vittima primaria: e pur liquidando la questione in poche righe, afferma un principio che si pone in chiara, netta ed indiscutibile controtendenza rispetto all'orientamento tradizionale. La pronuncia in parte qua meriterebbe, da sola, una trattazione “privilegiata” ed elitaria (nel senso latino di “prescegliere”); per maggiore linearità, pare peraltro opportuno rispettare l'ordine dei motivi presentati dai ricorrenti e decisi dal Collegio; è quindi solo per questa ragione che l'argomento, seppur “scottante”, non verrà affrontato in exordium.

Le soluzioni giuridiche

a)Il riparto degli oneri ed il contenuto della prova liberatoria

La Cassazione ritiene di dover subito sgomberare il campo da vecchi retaggi e risalenti orientamenti: così, senza mezzi termini, afferma che la Corte d'Appello ha errato quando ha preteso di regolare il riparto dell'onere della prova in funzione della natura (complessa) dell'intervento. La Corte osserva che – come chiarito da numerose altre pronunce dello stesso Collegio – la distinzione tra prestazione facile e difficile posta dall'art. 2236 c.c. «non può valere come criterio di distribuzione dell'onere della prova, bensì solamente ai fini della valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa riferibile al sanitario» (Cass.,13 aprile 2007, n. 8827).

Di più; una volta stabilito che il paziente deve solo allegare un inadempimento astrattamente qualificato (da qui il richiamo a Cass., Sez. Un., n. 577/2008), la sentenza in esame precisa quale debba essere il contenuto della prova liberatoria che grava sulla struttura e/o sul medico convenuto: non basta dimostrare di aver correttamente eseguito la prestazione, ma occorre altresì individuare la causa esterna, imprevedibile e non evitabile, che ha concretamente determinato il peggioramento.

E dunque, calando il principio entro le coordinate del caso di specie, la soluzione appare lineare: il giudice del gravame, muovendo dalla considerazione per cui la Ctu non aveva rilevato profili di colpa nell'esecuzione dell'intervento, ha ritenuto di poter escludere qualsivoglia condanna; ciò sul presupposto (censurato dai ricorrenti) che fossero gli attori a dover dimostrare la colpa grave dei sanitari.

Respinta, dunque, ogni indebita commistione tra le regole di riparto degli oneri e la “complessità” o meno dell'operazione (ex art. 2236 c.c.), gli Ermellini bocciano la soluzione adottata dalla Corte d'Appello e sottolineano che, per essere sollevati dalla responsabilità, i convenuti avrebbero dovuto dimostrare non solo la conformità a leges artis del proprio agire, ma anche che l'aggravamento delle condizioni del paziente era dipeso da uno specifico fattore ad essi non imputabile (es. complicanza sopravvenuta non scongiurabile né risolvibile pur adottando ogni necessaria cautela/terapia).

b) L'incompletezza della cartella clinica

Secondo la Corte d'Appello, il tema relativo alle lacune della cartella clinica non poteva essere esaminato perché gli attori lo avevano sollevato tardivamente. I danneggiati censurano la sentenza sostenendo che la questione avrebbe dovuto essere valutata sotto il profilo del ricorso alle presunzioni, di per sé non soggetto a preclusioni. A fondamento del motivo essi invocano l'orientamento consolidato secondo cui (Cass., 21 luglio 2003, n. 11316; Cass., 23 settembre 2004, n. 19133; Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008 n. 577; Cass., 26 gennaio 2010 n. 1538; Cass., 30 settembre 2014 n. 20547), «la difettosa tenuta della cartella clinica naturalmente non vale ad escludere la sussistenza del nesso eziologico tra la colposa condotta dei medici e la patologia accertata, ove risulti provata la idoneità di tale condotta a provocarla, ma consente anzi il ricorso alle presunzioni, come avviene in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato, nel quadro dei principi in ordine alla distribuzione dell'onere della prova ed al rilievo che assume a tal fine la "vicinanza alla prova", e cioè la effettiva possibilità per l'una o per l'altra parte di offrirla».

Nell'economia del caso, la questione assumeva rilievo con riguardo alla caduta dal letto del paziente (fatto storico che, da quanto par di capire, è dato per pacifico): proprio a causa delle lacune in cartella clinica (in cui non si descriveva l'episodio né si indicavano le conseguenze), il Ctu non era stato in grado di dire se l'emorragia cerebrale verificatasi fosse o meno eziologicamente riconducibile a tale evento (e, quindi, alla negligenza degli operatori, che non avevano installato sponde e protezioni per impedire che il malato rovinasse sul pavimento). La Corte liquida la questione osservando che la incompletezza della cartella clinica si atteggerebbe come fatto costitutivo della pretesa risarcitoria; in quanto tale, esso avrebbe dovuto essere tempestivamente introdotto dagli attori; l'allegazione tardiva ne precludeva, quindi, l'esame.

c) Il diritto iure proprio dei congiunti della vittima primaria ha fonte extracontrattuale e, dunque, si prescrive in cinque anni.

Nella parte finale della sentenza, la Cassazione affronta uno degli ultimi motivi proposti dai ricorrenti; e lo fa quasi per inciso, quasi come se la questione non meritasse alcuna approfondita, dettagliata ed articolata argomentazione; come, insomma, se si trattasse di una soluzione “ovvia”. Il punto , invece, è di straordinario impatto , perché “rompe” con la tradizione e contribuisce ad allargare una “breccia” che, forse seppur timidamente, un'altra precedente pronuncia aveva aperto (Cass., 8 maggio 2012, n. 6914) .

La motivazione è talmente lineare e piana da apparire quasi scarna: il diritto al risarcimento dei danni vantato iure proprio dai congiunti della vittima “primaria” di malpractice «si colloca nell'ambito della responsabilità extracontrattuale» ed è pertanto soggetto alla prescrizione quinquennale prevista dall'art. 2947 c.c..

Altra e diversa questione, peraltro non sollevata dai ricorrenti, precisa la Corte, è il dies a quo del termine (che potrebbe non coincidere con l'esito infausto della operazione, essendo per esempio correlato al successivo aggravarsi delle condizioni del paziente, all'aumento degli impegni legati alla necessità di assistere il congiunto, all'instaurarsi di una sindrome depressiva ecc.).

Osservazioni

Mi pare si possano formulare alcune osservazioni critiche che, per maggiore comodità di lettura, possono essere tratteggiate in brevi paragrafi:

a) Il rischio della causa ignota

Dietro le pieghe della motivazione che sorregge il decisum si profila quello che , a mio avviso, rappresenta oggi il punctum dolens della responsabilità “sanitaria” (almeno con riguardo all' inquadramento “contrattuale” che di essa fa la giurisprudenza, e lasciando per ora da parte le “novità” introdotte, nel rapporto medico “strutturato” – paziente dalla cd. Legge Balduzzi e i recentissimi sviluppi del disegno di legge in discussione in Parlamento). Nella sentenza in esame la Cassazione mostra di aderire a quell'orientamento assai rigoroso che, interpretando l'art. 1218 c.c. in chiave oggettiva, finisce col richiedere al debitore una prova quasi diabolica, pretende cioè la dimostrazione (non solo dell'aver correttamente eseguito la prestazione), ma anche della “causa non imputabile”, cioè di quello specifico fattore esterno, non prevedibile né evitabile, che ha condotto al peggioramento delle condizioni del paziente - creditore.

Questo significa, in altri termini, che quando non sia possibile dare una spiegazione dell'aggravamento, individuare cioè un «altro evento indipendente dalla propria volontà e sfera di controllo» che abbia in concreto determinato l'esito infausto (il che accade non di rado, dovendo la medicina fare i conti con le incerte leggi della biologia), la condanna è scontata. In simili casi, la responsabilità finisce con l'assomigliare ad una garanzia (di risultato) posto che la casa di cura ed il singolo esercente finiscono col dover risarcire il danno anche se hanno agito nel rispetto delle leges artis (in sostanza, il rischio della “causa ignota” grava sulla struttura e sugli operatori; per approfondimenti sia consentito rinviare a M. Hazan, D. Zorzit, Assicurazione obbligatoria del medico e responsabilità sanitaria, Giuffrè, 490 ss).

Vi è da chiedersi, peraltro, se l'art. 1218 c.c. autorizzi davvero una lettura così severa o se invece non colga nel segno quell'altro orientamento (parimenti sostenuto dalla giurisprudenza di merito e di legittimità) che, interpretando la norma in una ottica soggettiva, ritiene sufficiente, ai fini liberatori, la prova di aver tenuto un «comportamento diligente» (Cass. n. 1538/2010; Cass. n. 24791/2008; nello stesso senso: Cass. n. 19133/2004; Cass. n. 11488/2004; Cass. n. 2044/2002; Cass. n. 5005/1996).

In tale solco, deve essere segnalata, per il percorso logico cristallino e la lucidità dell'argomentazione, la sentenza del Trib. Milano 22 aprile 2008, n. 5305/2008 ove si afferma che «allorquando il medico (o la struttura ospedaliera) ha provato di aver esattamente adempiuto la propria obbligazione, e cioè di aver rispettato tutte le norme di prudenza, diligenza e perizia, i protocolli e le linee guida più accreditate nel proprio settore di competenza, il paziente non può invocare l'art. 1218 c.c., neppure in presenza di un acclarato peggioramento delle proprie condizioni di salute in rapporto di causalità con la prestazione sanitaria. L'art. 1218 c.c. infatti presuppone l'inadempimento dell'obbligazione assunta, inadempimento che non sussiste quando vi è in concreto la prova positiva dell'adoperata diligenza. Consegue altresì che il medico diligente, cioè adempiente, non è neppure gravato dall'onere della prova del caso fortuito, vale a dire dell'evento imprevisto ed imprevedibile che abbia determinato l'insuccesso o l'inutilità della prestazione sanitaria; tale onere presuppone, infatti, in applicazione dell'art. 1218 c.c., non il mero insuccesso, ma l'insuccesso determinato da inadempimento dell'obbligazione assunta».

b) L'incompletezza della cartella clinica come «fatto costitutivo della pretesa risarcitoria»

Nella sentenza annotata il Collegio ritiene di non poter esaminare le critiche attinenti alla carente compilazione della documentazione sanitaria trattandosi di profilo allegato dagli attori tardivamente. A parer di chi scrive, la decisione desta qualche perplessità.

E questo dubbio (sulla effettiva condivisibilità dell'assunto) sembrerebbe corroborato - se non altro sul piano della mera constatazione empirica - dal fatto che quando la Suprema Corte, per la prima volta, ebbe ad enunciare (Cass., n.12103/2000) la già ricordata regola della “presunzione del nesso”( di cui supra) lo fece senza che gli attori/danneggiati avessero mai allegato (o comunque specificamente lamentato e censurato) le lacune della cartella clinica (così almeno si evince dal testo della sentenza).

In quella pronuncia, nell'esaminare la censura dei ricorrenti (i quali avevano denunciato la contraddittorietà della motivazione nella parte in cui il giudice d'appello aveva ritenuto di non poter considerare accertato il nesso nonostante il dichiarato “pesante dubbio che un più sollecito intervento medico avrebbe potuto evitare l'evento infausto”), la Cassazione stessa si sofferma sui passi della decisione gravata in cui si dà atto della insufficiente compilazione della documentazione sanitaria; e muovendo da lì, afferma il noto principio per cui la omessa/irregolare annotazione dei dati clinici (ascrivibile a negligenza degli operatori) non può mai ridonare in danno del paziente.

Per altro verso, si potrebbe forse sostenere che l'incompletezza della cartella non si atteggia (come invece ritiene la sentenza qui annotata) come “elemento costitutivo di un diritto”, ma rileva (solo) sul piano processuale: la insufficienza degli elementi, del “materiale probatorio” versato in atti è un dato che dovrebbe essere valutato ed apprezzato dal Giudice autonomamente, senza che occorra alcuna specifica “allegazione”. Allo stesso modo, il Magistrato dovrebbe poter far uso – sulla base del suo prudente apprezzamento e sulla scorta delle risultanze– delle presunzioni, allorquando ne sussistano le condizioni (Cass., 12 agosto 2010 n. 18647; Cass. 21 luglio 2010, n. 17097; Cass. 11 maggio 2007, n. 10847; Cass. 18 aprile 2007, n. 2945).

Così nella fattispecie, sarebbe stato forse possibile concludere che l'emorragia doveva ritenersi eziologicamente correlata al trauma da caduta dal letto (trattandosi di comportamento negligente degli operatori astrattamente idoneo a cagionare il peggioramento e sussistendo incertezza del nesso proprio a causa della lacunosa e negligente tenuta della documentazione sanitaria).

Parrebbe, in definitiva (e sia pure con i dubbi del caso), una forzatura sostenere che quello “strappo” nel tessuto probatorio rappresentato dalla «mancanza di elementi ed annotazioni», quel “vuoto” processuale, si atteggi esso stesso come fatto costitutivo di una pretesa “sostanziale. Del resto, la sola circostanza che la cartella clinica sia lacunosa non costituisce “titolo” per fondare, per ciò solo, un diritto al risarcimento (essendo semmai necessaria la prova di un inadempimento che abbia materialmente cagionato un pregiudizio alla salute o al patrimonio).

Per altro verso, ci si potrebbe chiedere se sia conforme al principio di vicinanza alla prova esigere che il danneggiato individui, alleghi e deduca specificamente le lacune della cartella clinica (non essendo il paziente, normalmente, neppure in grado di comprenderne il contenuto, né a fortiori di capire se i dati annotati siano “sufficienti” o meno).

Va peraltro aggiunto che la questione parrebbe potersi risolvere – a monte – già in base a quell'altro principio richiamato dalla pronuncia in esame, secondo cui spetta comunque alla struttura l'onere di provare che la prestazione è stata eseguita diligentemente e che il peggioramento è dipeso da una specifica causa esterna non imputabile. E allora nella fattispecie l'ente convenuto avrebbe dovuto dimostrare (a prescindere dalla incompletezza della cartella) che la caduta dal letto non aveva avuto efficacia causale (con tutte le difficoltà di una prova praticamente diabolica proprio in ragione della mancanza di quei dati che avrebbero dovuto essere diligentemente annotati).

c) I congiunti della vittima primaria sono “terzi” danneggiati

La Cassazione dichiara in modo quasi lapidario che il diritto al risarcimento vantato iure proprio dai congiunti della vittima “primaria” di malpractice «si colloca nell'ambito della responsabilità extracontrattuale». Dunque: tra i famigliari del paziente e la struttura non c'è nessun contratto; da ciò discende – si direbbe in modo lapalissiano - che il termine di prescrizione è quello previsto per i fatti illeciti, ossia cinque anni (art. 2947 c.c.). Si diceva più sopra che questa affermazione è dirompente perché si pone in antitesi con l'orientamento “maggioritario”; vi sono infatti numerose altre pronunzie della stessa Corte che affermano l'esatto opposto (si vedano anche le sentenze gemelle del Novembre 2008, nonché, Cass. 30 marzo 2011, n. 7256 , Cass. 2 ottobre 2012, n. 16754) e cioè che la responsabilità dell'ente verso i “parenti stretti” del malato trova pur sempre titolo nel contratto di “spedalità”, che avrebbe “effetti protettivi nei confronti dei terzi”. Lo spazio di queste note non consente ulteriori approfondimenti (per i quali sia consentito rinviare a D. Zorzit, Il contratto con effetti protettivi a favore del terzo, in questa stessa rivista) : basti qui accennare al fatto che la decisione in commento, pur nella sua portata “rivoluzionaria”, non è isolata ma si affianca ad altra precedente sentenza, Cass., 8 maggio 2012, n. 6914, che pochi anni prima aveva ritenuto di inquadrare entro il paradigma aquiliano la domanda proposta dalla figlia che aveva chiesto iure proprio il risarcimento del danno per la morte della anziana madre, deceduta presso la casa di riposo in cui era ricoverata a causa (in tesi) della omissione dei doveri di “custodia” gravanti sul personale.

Ciò che peraltro va qui evidenziato è che entrambe le pronunzie (quella ora annotata e Cass. n. 6914/2012) non prendono posizione sul diverso orientamento che fa leva sul contratto con effetti protettivi, non spiegano per quale motivo detta figura dovrebbe essere (come credo) sottoposta ad un attento vaglio critico; semplicemente la ignorano. Con ciò perdendo, a mio avviso, una proficua occasione per fare chiarezza (definitiva) sul punto.

Ci si potrebbe chiedere, in una prospettiva che guarda ai lavori in corso in Parlamento (DDL - Testo unificato, Disposizioni in materia di responsabilità professionale del personale sanitario) quali potranno essere gli scenari futuri ove, come sembra, risulterà confermata l'impostazione che riconduce la colpa del singolo medico entro le maglie dell'art. 2043 c.c.. In linea puramente teorica ciò dovrebbe tradursi in un alleggerimento della posizione dell'operatore della sanità; sorge peraltro il dubbio che tale qualificazione formale rischi, in concreto, di essere poco alla volta svilita e “svuotata” dalla giurisprudenza, in nome di quel principio di “favor verso il paziente” che la stessa sentenza qui annotata richiama . Del resto, credo non si debba dimenticare che, almeno fin verso la fine degli anni duemila (ante Cass., Sez. Un., n. 13533 /2001 e ante Cass. n. 589/1999) era pacifico (almeno in tesi) che spettasse pur sempre al paziente provare la colpa del medico (obbligato in via aquiliana) e della stessa struttura (quando ancora si sosteneva che il creditore dovesse dimostrare l'inadempimento del debitore). Peccato però che, nei fatti, attraverso il gioco delle presunzioni (res ipsa loquitur negli interventi di facile esecuzione; o in caso di lacune della cartella clinica..) la giurisprudenza abbia progressivamente cercato di erodere quella regola (invertendo l'onere); e vi è da chiedersi se a tanto essa non ritornerà - pur a fronte di un (futuro) chiaro ed esplicito inquadramento della responsabilità entro l'art. 2043 c.c. - recuperando per esempio , ai fini del riparto ex art. 2697 c.c., la distinzione posta dall'art. 2236 c.c. (sul presupposto che il risultato positivo deve oggi ritenersi “normale” tenuto conto dei progressi della scienza, Cass. n. 8826/2007) o quell'altro principio della “vicinanza alla prova” (su cui Cass. Sez. Un., 13533/2001).

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