Il Tribunale di Milano conferma la responsabilità aquiliana del medico ospedaliero e fa chiarezza sul danno iatrogeno “incrementativo”

13 Maggio 2015

Il tenore letterale dell'art. 3, comma 1, Legge Balduzzi e l'intenzione del legislatore conducono a ritenere che la responsabilità del medico (e quella degli altri esercenti professioni sanitarie) per condotte che non costituiscono inadempimento di un contratto d'opera (diverso da quello concluso con la struttura) sia stata ricondotta dal legislatore del 2012 alla responsabilità ex art. 2043 c.c. e che, dunque, l'obbligazione risarcitoria del medico possa scaturire solo in presenza di tutti gli elementi costitutivi dell'illecito aquiliano (che il danneggiato ha l'onere di provare).
Massima

Il tenore letterale dell'art. 3, comma 1, Legge Balduzzi e l'intenzione del legislatore conducono a ritenere che la responsabilità del medico (e quella degli altri esercenti professioni sanitarie) per condotte che non costituiscono inadempimento di un contratto d'opera (diverso da quello concluso con la struttura) sia stata ricondotta dal legislatore del 2012 alla responsabilità ex art. 2043 c.c. e che, dunque, l'obbligazione risarcitoria del medico possa scaturire solo in presenza di tutti gli elementi costitutivi dell'illecito aquiliano (che il danneggiato ha l'onere di provare).

Il danno incrementativo è quello risultante da una lesione causata su un soggetto con pregresso stato patologico, causativa di un aggravamento. In questi casi:

  • non può farsi gravare sul medico, in via automatica, una misura del danno da risarcirsi incrementata da fattori estranei alla sua condotta, così come verrebbe a determinarsi attraverso una pedissequa applicazione di tabelle con punto progressivo, computato a partire, in ogni caso, dal livello di invalidità preesistente;
  • la liquidazione va necessariamente rapportata ad una concreta verifica, secondo le allegazione delle parti, delle conseguenze negative “incrementative” subite dalla parte lesa.
Il caso

Durante una partita di calcetto un ragazzino di 14 anni, V.S., lamenta comparsa di cefalea e difficoltà di movimento agli arti di sinistra; accompagnato dai genitori presso la struttura ospedaliera X , viene ricoverato per accertamenti. Gli esami eseguiti rivelano la presenza di una malformazione di Chiari di tipo I. Dopo valutazione del neurochirurgo, il paziente viene sottoposto ad intervento di decompressione osteodurale del forame magno mediante craniectomia sottooccipitale mediana ed asportazione dell'arco posteriore dell'atlante. Il decorso post operatorio, inizialmente buono, si complica nei giorni successivi: viene dunque eseguita TAC di controllo – centrata esclusivamente sulla fossa posteriore -, che non evidenzia problemi articolari e di instabilità (nello studio non viene però compreso l'encefalo). Il 12 aprile 2007, al momento della presunta dimissione, V.S. diventa improvvisamente cianotico, non contattabile, in stato di coma: la TAC e la NMR eseguite nell'occorso evidenziano la presenza di un danno ipossico diffuso. Viene quindi eseguito un secondo intervento per una più ampia decompressione osteodurale. I controlli successivi confermano la assoluta gravità del quadro clinico, caratterizzato dalla sussistenza di lesioni ischemiche bifrontali, biparietali e cerebellari bilaterali, con esiti invalidanti pressochè totali.

I genitori del minore, in proprio e quali esercenti la potestà, ed i congiunti dello stesso citano in giudizio innanzi al Tribunale di Milano sia l'ente ospedaliero che i medici per ottenere il risarcimento dei danni patiti, allegando l'inadeguatezza dei trattamenti sanitari posti in essere. Il Giudice dispone CTU collegiale, il cui esito può essere così riassunto:

  • V.S. era affetto da malformazione di Chiari, che si sostanzia nella erniazione della parte più bassa del cervelletto attraverso il forame magno;
  • nel caso di specie l'intervento prescelto ed attuato dai sanitari era obiettivamente indicato e risultava correttamente eseguito;
  • la condotta tenuta nel post operatorio doveva tuttavia considerarsi negligente e non conforme alle leges artis: anziché limitare l'indagine alla sola fossa cranica posteriore, i medici avrebbero dovuto effettuare una TAC di controllo dell'encefalo, che avrebbe consentito di riscontrare la complicanza in atto (trombosi dei seni venosi); tale patologia avrebbe potuto – in termini di «più probabile che non» – essere adeguatamente trattata e risolta, e ciò avrebbe evitato l'insorgenza del danno cerebrale;
  • V. S. era affetto da una pregressa patologia (che comportava, di per sé, una IP del 20%) ; lo stato di invalidità permanente in cui il paziente si era venuto a trovare dopo i fatti di cui è causa era stimabile nel 95% di I.P; i Periti hanno quindi individuato un aggravamento della situazione preesistent

    e nella misura del 75%.

La questione

La pronuncia in commento porta all'attenzione dell'interprete questioni particolarmente vive ed attuali, oggetto di ampio dibattito e crescente interesse sui palchi del danno alla persona e delle tutele risarcitorie.

Così, da un lato, ponendosi nel solco tracciato dalla nota sentenza n. 9693/2014 (Trib. Milano, 23 luglio 2014 in Ri.Da.Re con nota di F. Martini, Se non c'è contratto con il paziente, la responsabilità civile del medico ex L. Balduzzi si individua nella responsabilità da fatto illecito ex art. 2043 c.c.), conferma l'orientamento che vede nel rinvio all'art. 2043 c.c. contenuto nell'art. 3 della Legge Balduzzi un ritorno al passato (nel senso che il rapporto con il paziente non è più governato dal “contatto sociale”, ma dalla disciplina del fatto illecito); dall'altro, si occupa della valutazione del quantum debeatur in presenza di lesioni incidenti su un pregresso stato patologico, affrontando il problema – molto discusso – del «concorso tra cause naturali ed umane».

Lo spazio di queste pagine non consente di toccare tutti i punti che segnano il percorso argomentativo del Giudice; la geografia della sentenza è molto articolata, e riflette la complessità, le asperità e l'estrema delicatezza di una materia (la “colpa medica”) nella quale si intrecciano i “grandi temi” della responsabilità. Sia allora consentito soffermare l'attenzione su alcuni aspetti soltanto, formulando qualche breve nota.

Le soluzioni giuridiche

a) Il rinvio all'art. 2043 c.c. contenuto nell'art. 3 della L. n.189/2012 segna un ritorno alla responsabilità aquiliana

La sentenza in esame richiama le argomentazioni già svolte dalla nota pronuncia del Tribunale di Milano n. 9693/2014 e si spinge oltre, soffermandosi sul dibattito che ha caratterizzato l'evoluzione della responsabilità del medico dipendente: l'orientamento che nega qualsiasi portata innovativa alla L. n. 189/2012 - osserva - dà per scontato che il cd. “contatto sociale” sia una figura unanimemente riconosciuta e rappresenti una pietra miliare nelle acquisizioni dogmatiche della cultura giuridica.

A parere del Giudicante, tuttavia, una simile convinzione è errata perché quella teoria (che chiama appunto il sanitario a risarcire il danno ai sensi dell'art. 1218 c.c.) «è stata oggetto di riesame e di approfondimenti che sono rimasti privi di un sicuro esito».

In particolare, il Tribunale pone bene in luce la permanente difficoltà di ricondurre il “contatto” nell'ambito delle fonti dell'obbligazione ex art. 1173 c.c. posto che tale disposizione richiede pur sempre che quell' «atto o fatto idoneo a produrle» sia riconducibile ad una previsione ordinamentale «che – nel nostro sistema – non può non essere di diritto positivo»; e rileva come gli sforzi profusi per cercare tale referente normativo (individuato, di volta in volta, o nell'art. 28 Cost., o nell'art. 1411 c.c. o nella legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale) abbiano mostrato i propri limiti (teorici e strutturali), con la conseguenza che «da quanto può constatarsi dalla lettura della dottrina e della stessa giurisprudenza di legittimità, non emerge una soluzione evidente o condivisa».

La sentenza annotata non manca poi di richiamare la recentissima pronuncia con cui la Cassazione (Cass. n. 7909/2014) si è espressa in merito alla possibilità di qualificare come «derivante dalla applicazione di un contratto» (ai sensi dell'art. 8, par. 5 della Convenzione di Londra del 19 giugno 1951) una domanda risarcitoria da errato trattamento sanitario fondata sul contatto sociale.

Ebbene, in quell'ambito (governato peraltro dalle regole di interpretazione dei trattati) la Suprema Corte ha escluso qualsiasi configurazione “contrattuale” del rapporto tra medico “strutturato” e paziente, osservando che il “contatto sociale” è frutto esclusivo della elaborazione giurisprudenziale italiana (che non ha “corrispondenti” negli altri stati aderenti, ove la responsabilità del professionista ospedaliero è ricondotta nell'ambito extracontrattuale). Questa considerazione dimostra dunque come la costruzione teorica su cui si fonda la tesi “tradizionale” (difesa da quanti negano portata innovativa della Legge Balduzzi) sia tutt'altro che un “dogma”.

Del resto, a parere di chi scrive, se si muove dal rilievo per cui l'obbligazione “da contatto” è una sorta di “brebis noir” che non trova riscontro nel contesto degli altri ordinamenti, ed è per di più frutto (non di una specifica disposizione di diritto positivo ma) della elaborazione giurisprudenziale, pare davvero una forzatura sostenere che il rinvio all'art. 2043 c.c. sia solo un crasso errore. Tenuto conto della ratio dichiarata e del dato letterale, sembra invece più plausibile sostenere che il Legislatore del 2012 abbia voluto dettare egli stesso le nuove (ed al tempo stesso antiche) regole che dovrebbero governare la materia, superando l'orientamento delle Corti e riallineando, per così dire, la disciplina della responsabilità sanitaria ad uno standard omogeneo, tenuto conto altresì della situazione oltre confine.

b) Il problema del concorso tra cause umane e naturali.

Una delle altre questioni che il Tribunale ha dovuto affrontare attiene alla valutazione e stima del danno nell'ipotesi in cui le lesioni incidano su una pregressa patologia. Nella fattispecie, il paziente era già affetto da una “malattia” (malformazione di Chiari) che, secondo i CTU, comportava, di per sé, una invalidità del 20%. All'esito dell'intervento chirurgico e delle insorte complicanze (evitabili con l'uso della normale diligenza), tuttavia, il minore si è ritrovato in una condizione di IP al 95%. Ecco dunque porsi il problema: come si deve quantificare, in questo ed i consimili casi, il danno? Di cosa (e in che misura) deve rispondere l'autore della condotta colposa?

Il Giudice richiama sul punto alcune tra le più recenti sentenze della Suprema Corte che si sono occupate del “concorso tra cause umane e naturali” (Cass. n. 975/2009 in Danno e Resp.2010, 372 e Cass. civ., sez. III, 21 luglio 2011, n. 15991 in Resp. Civ. 2012,1,16) e, dato atto delle «oscillazioni della giurisprudenza» (si veda Il problema del concorso tra cause umane e naturali ed il danno “incrementativo” in Ri.Da.Re), pare prendere le distanze dalle astratte diatribe teoriche («qualunque impostazione e soluzione voglia darsi alle problematiche proprie del danno iatrogeno incrementativo (..)»), per distillare una soluzione – ad avviso di chi scrive - “illuminata”, per equilibrio, coerenza e ponderazione.

Secondo il Giudice meneghino, il dato fattuale deve essere opportunamente e sapientemente vagliato al fine di evitare automatismi di sorta; se, da un lato, parrebbe ingiusto accollare ai sanitari tutto il danno (95% di Ip, comprensivo di un “pregresso” 20%), dall'altro occorre anche considerare cosa è cambiato - in peius - rispetto a prima, qual è, insomma, la cifra, il peso di quella modifica peggiorativa tenuto conto di tutte le circostanze del caso (che devono essere allegate e provate dalla parte lesa); ed il metro per tale valutazione non può che essere quello equitativo ex art. 1226 c.c..

In tale contesto, dunque, le infinite sfumature della fattispecie concreta passano al setaccio della personalizzazione, vera e propria “valvola” che consente di calibrare e stimare il “gap” di disfunzionalità, ossia il pregiudizio “differenziale”, sulla base delle risultanze istruttorie (in termini di «cosa la vittima poteva fare prima, pur essendo affetta da una certa patologia, e cosa invece le è ora definitivamente precluso»).

Osservazioni

Per quanto concerne, nello specifico, la quantificazione, pur non potendo trarsi indicazioni dettagliate circa le modalità del conteggio, parrebbe che il Giudice abbia dapprima calcolato il valore “base” di una IP al 95% (corrispondente allo stato di salute “finale” del paziente); abbia poi sottratto da tale importo la somma corrispondente – secondo le tabelle – alla preesistenza (Ip del 20%) ed abbia infine “personalizzato” il risultato, incrementandolo in considerazione delle peculiarità del caso concreto.

Ed è probabile che tale ulteriore modulazione (che, di fatto, ha condotto ad un compendio non di molto inferiore a quello massimo liquidabile con IP del 95%) sia stata “guidata” dalla considerazione della estrema gravità delle condizioni “attuali” della vittima (le cui capacità sono state praticamente azzerate). L'entità del “peggioramento” (in raffronto con la pregressa menomazione del 20% che comunque lasciava pur sempre un certo spazio alla estrinsecazione delle potenzialità e delle funzionalità di un giovane di soli 14 anni) è stata così “soppesata” attraverso una valutazione essenzialmente equitativa: «L'influenza che deve essere comunque riconosciuta alla pregressa situazione invalidante nella misura del 20% è – rispetto al complesso della situazione esistenziale dell'attore – di relativa marginalità, giacché l'aggravamento del 75% ha eliso ogni possibilità di espressione della personalità e della vita di relazione».

Sul fronte della natura della responsabilità del medico “strutturato”, il Tribunale procede deciso lungo la strada già aperta dal proprio precedente, non senza offrire ulteriori e convincenti argomenti a sostegno della tesi del “ritorno alla colpa aquiliana”.

Per quanto concerne la questione del “danno incrementativo” , la sentenza in commento sceglie la via più razionale e lineare: rimanendo fedele al principio generale di causalità, chiama a rispondere l'agente del solo evento che questi ha cagionato (l'aggravamento); dipoi, in sede di valutazione del quantum debeatur, precisa, giustamente, come la dimensione, l'estensione, la profondità di questo “danno incrementativo” sfugga, di necessità, «ad uno schema rigido liquidatorio» per restare affidata ad una attenta ponderazione delle circostanze della singola fattispecie. La liquidazione deve quindi passare attraverso le risultanze del caso “concreto”, adeguatamente “soppesato” e vagliato al filtro della equità sostanziale e del criterio della personalizzazione.

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