Il mobbing a danno di un lavoratore non costituisce una fattispecie di responsabilità oggettiva a carico del datore nel caso di condotte persecutorie perpetrate da colleghi
14 Giugno 2016
Massima
Il c.d. danno da mobbing appartiene alla categoria della responsabilità contrattuale. Infatti in base all'art. 2087 c.c. tra le obbligazioni contrattuali poste a carico del datore durante un rapporto di lavoro vi è anche quella di garantire l'integrità psicofisica del lavoratore. La natura contrattuale e non oggettiva di tale responsabilità comporta che il datore di lavoro non risponde delle condotte persecutorie perpetrate dai colleghi della vittima o dai suoi superiori qualora riesca a dimostrare la non imputabilità del danno. Il caso
La Corte D'Appello di Roma aveva condannato l'Asl a risarcire una propria dipendente dal danno da mobbing cagionato non solo da condotte direttamente imputabili all'ente nella gestione del rapporto di lavoro, ma anche per quelle compiute da un dirigente. Per quest'ultimo profilo di danno, la Corte aveva riconosciuto una responsabilità oggettiva a carico dell'Asl sull'assunto che quest'ultima non aveva adottato tutte le misure necessarie atte a prevenire il danno. La questione
Nel caso di danno da mobbing cagionato da condotte persecutorie compiute da colleghi o da diretti superiori il datore di lavoro è sempre considerato responsabile solidalmente in quanto l'art. 2087 c.c. comporta una responsabilità prossima a quella oggettiva assimilabile alla fattispecie prevista dall'art. 2049 c.c.? Le soluzioni giuridiche
La Suprema Corte accoglie i ricorsi presentati dall'Asl e dal superiore della presunta vittima da mobbing. In primo luogo la sentenza impugnata non distingue i comportamenti effettuati direttamente dall'Asl nell'esercizio dei poteri datoriali (trasferimenti di sede che, in alcuni casi, tra l'atro sembrerebbero stati avvallati dalla stessa persona offesa) da quelli ascrivibili al superiore, né valuta i relativi gradi di colpa, né l'incidenza causale sul danno cagionato alla vittima né, infine, analizza se tali condotte fossero accomunate da un intento persecutorio (sul punto si veda anche Cass., 5 novembre 2012, n. 18927). In secondo luogo la Corte di Cassazione stigmatizza che la Corte d'Appello ha acriticamente fatto proprio il dispositivo di una precedente sentenza penale che aveva condannato il medesimo dirigente per condotte moleste sul luogo di lavoro nei confronti non della lavoratrice in questione, ma di sue colleghe. Evidenzia, inoltre, come tale sentenza penale ha accertato la sola responsabilità del dirigente e l'Asl era rimasta estranea a quel procedimento. Per questi motivi la suprema Corte cassa con rinvio la sentenza della Corte d'appello di Roma annullando la condanna solidale comminata al dirigente e all'Asl evidenziando, per quanto riguarda la posizione di quest'ultima, che la responsabilità per mobbing non costituisce una responsabilità oggettiva ma di natura contrattuale che trova il suo fondamento negli obblighi di sicurezza stabiliti nell'art. 2087 c.c. Infatti la responsabilità del datore di lavoro è ravvisabile tutte le volte in cui non siano state adottate le misure e cautele idonee per prevenire condotte di mobbing. Osservazioni
A causa dell'assenza di una definizione normativa spetta alla giurisprudenza di merito e di legittimità delineare la fattispecie di mobbing. Secondo il pressoché unanime orientamento giurisprudenziale per mobbing (cfr. ex plurimis Cass., 6 agosto 2014, n. 17698) si intende una serie di condotte persecutorie ripetute nel tempo da parte del datore di lavoro (mobbing verticale o anche bossing) e/o dei colleghi (mobbing orizzontale) a danno di un singolo lavoratore allo scopo di isolarlo. Infatti il verbo to mob è stato acquisito dalla giurisprudenza giuslavoristica dall'etologia per descrivere il comportamento di un branco di animali volto ad emarginare un proprio componente. L'isolamento nell'ambito lavorativo crea un disagio psichico al lavoratore che in molti casi cagiona stati patologici. Quindi le condotte mobbizzanti comportano una violazione dell'obbligo di preservare la personalità morale del lavoratore. Dal punto di vista dogmatico il mobbing è stato ricondotto dalla giurisprudenza di legittimità e di merito nella fattispecie della responsabilità contrattuale per violazione degli obblighi previsti dall'art. 2087 c.c.. Infatti, l'art. 2087 c.c. (norma di chiusura del sistema antinfortunistico) è stata utilizzato, in forza del richiamo alla “personalità morale” del lavoratore, per fornire una copertura normativa al fenomeno mobbing (cfr., ex plurimis, Cass., sez. lav., 6 marzo 2006, n. 4774). Se, come rilevato, non risultano contrasti in giurisprudenza nel delineare la fattispecie di mobbing, tuttavia non vi è altrettanta univocità di vedute sulla ripartizione dell'onere probatorio. La sentenza in esame permette appunto di analizzare questa problematica. Il lavoratore deve allegare le condotte poste in essere, dimostrare che sono teleologicamente orientate alla propria emarginazione dal contesto lavorativo, provare il danno cagionato e indicare la violazione delle norme di sicurezza generiche o specifiche che sarebbero state violate. Per la maggior parte delle voci sopra descritte si sono evidenziati orientamenti contrastanti in giurisprudenza eccezion fatta per la dimostrazione dell'intento persecutorio. In quest'ultimo caso la giurisprudenza (cfr. Cass., Sez. Un., 22 febbraio 2010, n. 4063; Corte Cass., sez. lav., 19 settembre 2014, n. 19782) è pressoché unanime nel ritenere che spetti al lavoratore provare la specifica volontà di isolarlo nel contesto lavorativo. La volontà persecutoria deve accumunare tutte le condotte, quindi, mutuando un termine penalistico deve essere dimostrato dal lavoratore il “medesimo disegno criminoso”. La mancata dimostrazione del comune intento persecutorio esclude il danno da mobbing, ma, a parere di chi scrive, non sussiste alcun ostacolo dal punto di vista giuridico affinché possa essere riconosciuto a favore del lavoratore un danno ex art. 2043 c.c. qualora venga comunque dimostrato che le singole condotte dei colleghi possano aver cagionato un danno ingiusto. D'altra parte lo stesso art. 2087 c.c. permette al lavoratore di ottenere un risarcimento per lesione dell'integrità morale anche in assenza di condotte ripetute con un comune intento discriminatorio purché la singola azione sia connotata da illegittimità. Tuttavia in questi casi il danno non potrà essere sussumibile nelle fattispecie mobbing ma inquadrato come cagionato da una condotta illecita generica (cfr. Cass., 5 novembre 2012, n. 18927). In relazione alla dimostrazione dell'assenza di sicurezza sul luogo di lavoro si registrano opinioni differenti. Vi sono, infatti, pronunce (Cass., sez. lav., 18. febbraio 2000, n. 1886; Cass., sez. lav., 22 settembre 2008, n. 21590) che sostengono, sulla scorta della natura contrattuale dell'obbligo di sicurezza, che il lavoratore deve dimostrare solamente l'esistenza del rapporto di lavoro, il nesso causale tra l'attività lavorativa e l'evento dannoso. In altre si richiede che il lavoratore debba dimostrare altresì il fatto costituente inadempimento (cfr. ex plurimis Cass., sez. lav., 19 luglio 2007 n. 16003). Quest'ultima soluzione, a sommesso avviso dello scrivente, appare in contrasto con la ripartizione dell'onere della prova tra creditore e debitore nella responsabilità da inadempimento contrattuale stabilita dalla Cass., Sez.Un., 30 ottobre 2001 n.13533. Per quanto riguarda l'accertamento del danno derivante da mobbing è ormai consolidato l'orientamento secondo cui tale danno possa essere dimostrato tramite qualsiasi mezzo, ivi incluse le presunzioni e anche tramite dati statistici che attestino le conseguenze negative di condotte vessatorie sulla psiche del lavoratore (cfr. Corte di Cass., sez. lav., 3 aprile 2014, n. 7816; Corte di Cass., sez. lav., 11 giugno 2013, n. 17174). È opportuno precisare come vi siano pronunce che evidenziano che, nel caso in cui il lavoratore non riesca a dimostrare pienamente tutti gli elementi necessari per ottenere un risarcimento danno derivante da mobbing, tale carenza probatoria non comporta l'automatico rigetto della domanda. Infatti il Giudice può utilizzare gli ampi poteri istruttori previsti dall'art. 421 c.p.c. affinché la verità processuale e quella sostanziale non viaggino su binari paralleli (Cass., sez. lav., 10 dicembre 2008, n. 29006). Ovviamente il lavoratore deve avere fornito nel ricorso introduttivo elementi tali da costituire una semiplena probatio di quanto dallo stesso sostenuto in modo da circoscrivere il campo d'indagine del giudice. Una volta che il lavoratore abbia assolto l'onere sullo stesso gravante, il datore di lavoro, in coerenza con il principio di cui all'art. 1218 c.c., deve provare la non imputabilità del fatto e, soprattutto, nel caso di mobbing cagionato da condotte persecutorie di colleghi, di avere adottato le necessarie misure preventive e vigilato sulla loro applicazione. E' opportuno precisare che il fatto che il datore di lavoro abbia adottato misure repressive a seguito del verificarsi di condotte mobbizzanti tra colleghi non costituisca un esimente dal risarcimento del danno richiesto dal lavoratore in quanto il principale compito del datore di lavoro consiste proprio nell'adozione di idonee misure preventive (Cass., 20 luglio 2007, n. 16148) In relazione all'adozione delle misure idonee a prevenire il danno la giurisprudenza è divisa. Infatti per quanto riguarda le cosiddette misure di sicurezza innominate o generiche si oscilla tra la più severa impostazione che richiede che il datore di lavoro ha l'onere di dimostrare di aver adottato qualsiasi misura idonea a prevenire l'evento (Cass.,sez. lav., 6 settembre 1995, n. 9401) all'impostazione meno rigida secondo la quale è sufficiente che il datore di lavoro abbia adottato comportamenti specifici derivanti dalle conoscenze tecniche del momento e o basati su standard di sicurezza adottati nella norma (Cass., sez. lav., 29 ottobre 2003, n. 16250). Infine, se per quanto riguarda il mobbing orizzontale l'orientamento pressoché unanime della giurisprudenza si attesta sulla natura contrattuale della responsabilità del datore di lavoro, alcune recenti pronunce (Cass. pen., sez. VI, 12 luglio 2012 n. 27706; Trib. Milano, 3 marzo 2015, n. 455) sono giunte a conclusioni diverse in merito ad una specifica condotta persecutoria, ovvero le molestie sessuali sul luogo di lavoro perpetrate da un collega. Facendo leva sul concetto di occasionalità necessaria del luogo di lavoro, in questa specifica ipotesi di condotta persecutoria, la responsabilità del datore di lavoro sembra essere stata inquadrata in quella oggettiva. Il semplice fatto che la violenza sessuale si sia verificata sul luogo di lavoro e favorita dallo svolgimento delle mansioni assegnate, comporta la responsabilità civile del datore di lavoro. Dunque secondo questa impostazione il datore di lavoro ha l'arduo compito di dimostrare che non sussiste alcun nesso di causalità tra le molestie di carattere sessuale e il rapporto di lavoro, ovvero che il luogo di lavoro solo per caso sia stato anche il luogo del fatto illecito. Non è sufficiente, quindi, per il datore, accertare la condotta dolosa del lavoratore che ha posto in essere il fatto illecito poiché l'elemento soggettivo non inficia il nesso di causalità tra le mansioni affidate, il luogo di lavoro e il verificarsi dell'evento lesivo. In definitiva, per questa specifica condotta persecutoria, la responsabilità civile deriverebbe dall'art. 2049 c.c. e pertanto l'unico modo per il datore di lavoro di non essere dichiarato responsabile rimane la dimostrazione del caso fortuito. |