L'obbligo di informare il paziente dell'esistenza di strutture più all'avanguardia
15 Giugno 2016
Massima
L'obbligo gravante su una struttura sanitaria e sui medici operanti nella stessa di informare la paziente in ordine alla possibilità di ricorrere a centri di più elevata specializzazione sorge solo allorquando la struttura abbia assunto la prestazione diagnostica pur non disponendo di attrezzature all'uopo adeguate, in tal guisa ingenerando nella gestante l'affidamento incolpevole che il risultato diagnostico ottenuto sia definitivo e precludendole di fatto la scelta di interrompere o meno la gravidanza. Il caso
Con atto di citazione notificato nel dicembre del 1992, due coniugi convennero in giudizio alcuni medici, nonché la struttura sanitaria presso la quale gli stessi svolgevano attività lavorativa, al fine di sentirli condannare in solido al risarcimento dei datti patiti in conseguenza della negligente ed imperita assistenza medica ad essa prestata durante la gravidanza e della omessa informazione circa l'esistenza di gravissime malformazioni fetali in capo al nascituro, rilevate, a suo dire colpevolmente, solo nel corso della 32a settimana, allorquando alla gestante era ormai precluso il ricorso all'interruzione volontaria della gravidanza. Il tribunale, all'esito della consulenza medico-legale espletata, rigettò, con sentenza del gennaio del 2010, la domanda risarcitoria. La corte d'appello, nel decidere sul gravame proposto dalla originaria attrice, lo respinse. Quest'ultima propose, allora, ricorso per cassazione sulla base di tre motivi. La sola struttura sanitaria, tra le parti resistenti, propose, a sua volta, ricorso incidentale condizionato fondato su un unico motivo. La terza sezione, con la pronuncia qui commentata, pur interpretando in modo parzialmente difforme un precedente menzionato nella sentenza impugnata, condivide la decisione adottata dai giudici di merito, reputando inammissibili il primo ed il terzo motivo ed infondato il secondo. La questione
La questione, in punto di fatto, analizzata dalla Suprema Corte consisteva nello stabilire se la struttura ospedaliera ed i medici che avevano avuto in cura la gestante fossero obbligati ad informarla della possibilità di ripetere l'esame ecografico presso strutture più avanzate, anche al fine di potersi autodeterminare alla eventuale interruzione volontaria della gravidanza. Occorreva, nella sostanza, porsi i seguenti quesiti:
Le soluzioni giuridiche
I giudici di legittimità ritengono che l'obbligo di informare la gestante sulla presenza di altri centri specializzati e più idonei a rendere una determinata diagnosi è configurabile solo in presenza di un inadempimento imputabile alla struttura sanitaria (con la quale viene concluso il contratto cd. di spedalità), da identificarsi nell'aver assunto la prestazione diagnostica nonostante la mancata disponibilità di attrezzature all'uopo adeguate. Tale inadempimento, precisa il Collegio, ingenera nella paziente un incolpevole affidamento in merito alla sicura bontà dell'esame strumentale cui si è sottoposta, ripercuotendosi di riflesso sulla sua possibilità di interrompere, se del caso, la gravidanza in corso. La Corte coglie l'occasione per chiarire la portata dell'unico precedente edìto che si è occupato funditus di un'analoga vicenda (Cass., 13 luglio 2011, n. 15386), alla stregua del quale il sanitario che formuli una diagnosi di normalità morfologica del feto, pur non essendo in grado di visualizzarlo per intero, avrebbe l'obbligo d'informare la paziente della possibilità di ricorrere ad un centro di più elevato livello di specializzazione, anche al fine di porla nelle condizioni di, ricorrendone i presupposti, abortire. Invero, si precisa che l'obbligo protettivo di informazione, essendo strettamente connesso e nascendo con l'inadempimento dell'obbligo di adeguatezza organizzativa, è ipotizzabile soltanto al cospetto di deficit di tal fatta. Siffatto obbligo è, pertanto, strettamente collegato a quello, a sua volta derivante dal citato contratto di spedalità, di mettere a disposizione del paziente, oltre che il personale sanitario, le necessarie attrezzature idonee ed efficienti. Nel caso di specie è stato escluso che si vertesse in un'ipotesi di inadeguatezza organizzativa, dovendosi semmai ritenere che gli strumenti diagnostici dell'epoca dei fatti (risalenti al 1986) fossero in via generalizzata intrinsecamente limitati dal punto di vista tecnico. Osservazioni
La decisione condivisa dalla Corte ha inevitabilmente risentito delle leges artis esistenti nel momento in cui l'esame diagnostico venne eseguito, tali da non consentire comunque una risposta completa in ordine alle condizioni morfologiche del feto. Non è da escludere che, qualora la diagnosi di morfologia fetale fosse avvenuta in epoca più recente, la soluzione sarebbe stata differente. Invero, i progressi tecnologici avrebbero probabilmente posto in rilievo l'esistenza di anomalie, sia pure in assenza di qualsivoglia rischio elettivo, che avrebbero dovuto indurre i medici cui la gestante si era affidata a rivolgersi a centri di analisi, anche privati, maggiormente all'avanguardia. Tant'è vero che di recente la stessa terza sezione ha avuto modo di ribadire l'obbligo dell'ecografista d'informare la paziente della possibilità di ricorrere ad un centro di più elevato livello di specializzazione, nella prospettiva della determinazione della gestante ad interrompere la gravidanza, ancorché gli accertamenti diagnostici più completi siano invasivi e implicanti maggiori fattori di rischio per il feto. Del resto, il primario ospedaliero risponde del danno derivato da una inadeguatezza della struttura sanitaria da lui diretta, ove non dimostri di aver adempiuto a tutti gli obblighi che gli impone l'art. 7, d.P.R. 27 marzo 1969, n. 128, tra i quali rientra quello di informazione sulle condizioni dei malati e di predisposizione di adeguate istruzioni al personale per le emergenze. In quest'ottica, posto che l'esecuzione della prestazione professionale implica una diligenza qualificata ai sensi del secondo comma dell'art. 1176 c.c., è in colpa il medico che, in presenza di un paziente che non possa essere adeguatamente curato nella struttura ospedaliera in cui si trova, ometta di attivarsi per tentare di disporne il trasferimento in altra più idonea struttura. E' opportuno evidenziare che le disposizioni di cui all'articolo 7 avevano cessato di avere efficacia per effetto di quanto stabilito al comma 10 dell'art. 4, d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502; tuttavia, successivamente, l'art. 1, comma 1, d.lgs. 1 dicembre 2009, n. 179, ha dichiarato indispensabile la permanenza in vigore della norma. Parimenti, rappresenta una espressa prerogativa delle strutture sanitarie (Centri regionali di riferimento ed Asl) indirizzare, se del caso, il paziente verso centri situati all'estero, fermo restando che è compito delle medesime strutture fornire adeguata informazione al cittadino in ordine ai centri di alta o altissima specializzazione esistenti in Italia idonei a fornire le stesse prestazioni richieste all'estero, non essendo ammissibile che sia lasciato all'assistito il compito di attivarsi per individuare dette strutture. Pur tuttavia, nel ricordare che gli artt. 6 e 7 l. 22 maggio 1978 n. 194 consentono la interruzione della gravidanza dopo i primi novanta giorni solo in caso di malformazioni del nascituro che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, sempreché non sussista la possibilità di vita autonoma del feto, ancora oggi nei primi tre mesi dopo il concepimento potrebbero sussistere difficoltà diagnostiche del tutto sganciate da deficit organizzativi ascrivibili alla struttura sanitaria. Senza tralasciare che, alla luce del recente intervento chiarificatore delle Sezioni Unite (Cass., Sez. Un., sent., 22 dicembre 2015, n. 25767), la madre sarebbe, in ogni caso, onerata dalla prova controfattuale della volontà abortiva, sebbene possa assolvere l'onere mediante il ricorso alle presunzioni semplici. |