Il danno catastrofico: la rivincita della personalizzazione del danno non patrimoniale sul metodo tabellare

16 Settembre 2015

In caso di incidente stradale che conduce alla morte non immediata della vittima, i Giudici, nella liquidazione del danno “catastrofico”, non possono rifarsi a meri criteri tabellari, ma devono prendere in considerazione “l'enormità” del pregiudizio subito dalla vittima deceduta, giacché tale danno, sebbene temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità, tanto da esitare nella morte.
Massima

In caso di incidente stradale che conduce alla morte non immediata della vittima, i Giudici, nella liquidazione del danno “catastrofico”, non possono rifarsi a meri criteri tabellari, ma devono prendere in considerazione “l'enormità” del pregiudizio subito dalla vittima deceduta, giacché tale danno, sebbene temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità, tanto da esitare nella morte.

Il caso

La presente pronuncia trae il proprio principio di diritto dal seguente caso concreto: il Sig. D.R.G. provocava alla guida dell'autovettura assicurata con una assicurazione, un sinistro stradale, nel quale C.E. riportava lesioni personali gravissime alle quali, a distanza di tre giorni, seguiva la morte.

Il C.A. e D.V.I. in qualità di genitori del defunto C.E. e le di lui nonne, convenivano in giudizio D.R.G. e l'assicurazione, al fine di ottenerne la condanna solidale al risarcimento dei danni, patrimoniali e non.

La corte di Appello di Milano, quale giudice del rinvio chiamato a liquidare il danno biologico terminale maturato dalla vittima nei tre giorni di agonia precedenti al decesso, determinava il quantum in una somma “meramente simbolica”, ovvero, nella cifra di Euro 1.000 in luogo dei 100.000 richiesti dai ricorrenti a titolo di danno biologico terminale subito dal loro congiunto.

A fronte dell'esiguità della somma liquidata, gli eredi della vittima proponevano ricorso per Cassazione.

La Suprema Corte, chiamata ad esprimersi sul punto, ribadiva in primis il principio di diritto portato dalla sentenza Cass. civ., sez. III, sent., 17 gennaio 2008, n. 870 a tenore della quale: «la lesione dell'integrità fisica con esito letale, intervenuta immediatamente o a breve distanza dall'evento lesivo, non è configurabile come danno biologico, giacché la morte non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute, ma incide su diverso bene giuridico della vita, a meno che non intercorra un apprezzabile lasso di tempo tra le lesioni subite dalla vittima del danno e la morte causata dalle stesse, nel qual caso, essendovi un'effettiva compromissione dell'integrità psico-fisica del soggetto che si protrae per la durata della vita, è configurabile un danno biologico risarcibile in capo al danneggiato, che si trasferisce agli eredi, i quali potranno agire in giudizio nei confronti del danneggiante “iure hereditatis”».

In altre parole, ove la morte segua immediatamente o quasi all'evento lesivo, la Corte esclude la configurabilità del danno biologico mancando il vulnus al bene giuridico salute, viceversa, ove intercorra un apprezzabile lasso di tempo, andandosi così a concretizzare la compromissione dell'integrità psico-fisica della vittima, è ammesso il diritto al risarcimento del danno e la conseguente trasmissibilità agli eredi (ex plurimis Cass. civ., sez. III, 8 gennaio 2010, n. 79; Cass. civ., sez. III, 20 aprile 2012, n. 6273).

A fondamento di tale ragionamento si pone la considerazione, oramai consolidata in giurisprudenza, per la quale la salute e la vita rappresentano due beni giuridici distinti (cfr. Cass., 13 gennaio 2006, n. 517).

Queste le premesse alla questione giuridica oggetto della pronuncia.

In motivazione, la sentenza oggetto della presente disamina stabilisce che:

«in caso di sinistro mortale, che abbia determinato il decesso non immediato della vittima, al danno biologico terminale, consistente in un danno biologico da invalidità temporanea totale (sempre presente e che si protrae dalla data dell'evento lesivo fino a quella del decesso), può sommarsi il danno catastrofico, ovvero una componente di sofferenza psichica, sicché, mentre nel primo caso la liquidazione può essere effettuata sulla base delle tabelle relative all'invalidità temporanea, nel secondo la natura peculiare del giudizio comporta la necessità di una liquidazione che si affidi ad un criterio equitativo puro, che tenga conto della “enormità” del pregiudizio, giacché tale danno, sebbene temporaneo, è massimo nella sua entità ed intensità, tanto da esitare nella morte (Cass. n. 23183/2014; Cass.n. 18163/2007; Cass. n. 1877/2006)».

La questione

Nel caso in cui al danno biologico terminale si possa sommare una componente di sofferenza psichica (ovvero il c.d. danno catastrofico), è possibile la sola meccanica applicazione dei criteri tabellari o è necessario fare una personalizzazione di tale danno vista l'enormità del pregiudizio che sebbene temporaneo, è massino nella sua entità ed intensità tanto da esitare nella morte?

Le soluzioni giuridiche

Prima di affrontare la tematica che ha costituito il fulcro della pronuncia oggetto della presente disamina è necessario, per completezza espositiva e alla luce del richiamo, in incipit, della sentenza Cassazione Civile del 17 gennaio 2008, n. 870, dare contezza del vivace e corposo dibattito che si è consumato attorno alla risarcibilità del danno da perdita della vita.

Orbene, ad oggi, anche a seguito della recentissima sentenza a Sezioni Unite della Corte di Cassazione del 22 luglio 2015, n. 15350 sembra ormai granitico l'orientamento giurisprudenziale che nega la risarcibilità del c.d. danno tanatologico o da morte immediata, che proprio per l'istantaneità del decesso e il bene giuridico tutelato, ovvero la vita, ha comportato i necessari distinguo da tipologie che, prima facie affini, venivano diversamente tutelate dalla Suprema Corte e delle quali si ammette, oggi, la tutela risarcitoria: il danno biologico terminale e il danno catastrofico.

Ebbene, per danno biologico terminale s'intende il pregiudizio alla salute patito dalla vittima di un illecito nel periodo che separa il momento della lesione da quello del decesso ponendo a fondamento della richiesta di ristoro per i danni subiti che la vittima sopravviva per un considerevole lasso si tempo, ad un evento poi rilevatosi mortale, in quanto poche ore o persino mezzora sono tempistiche talmente brevi da ritenersi inidonee a consentire una scissione logica tra il momento della lesione alla salute e il vulnus inferto al bene vita.

In tale lasso “considerevole” di tempo, la vittima deve aver sofferto una lesione della propria integrità psicofisica medicalmente accertabile e pertanto liquidabile alla stregua dei criteri adottati per la liquidazione del danno biologico vero e proprio (in tal senso Cass.,sez. III, 13 dicembre 2012, n. 22896).

La risarcibilità di tale pregiudizio, ormai pacificamente ammessa fa sorgere in capo al soggetto leso, poi defunto, un diritto al risarcimento trasmissibile agli eredi che, consistendo in un danno biologico da invalidità temporanea totale, è liquidabile sulla base delle relative tabelle. Tali parametri tabellari, essendo prefissati in astratto, hanno il vantaggio di garantire, da un lato, la prevedibilità della liquidazione del danno, mentre dall'altro il difetto di fornire solo un'uguaglianza apparente in spregio al principio di diritto che fissa la necessaria tendenza ad una quantificazione del danno non patrimoniale che tenda al ristoro integrale del nocumento patito.

Ciò detto, per evitare il vuoto di tutela determinato dalla giurisprudenza di legittimità che nega (come sopra evidenziato mediante la recentissima sentenza della Suprema Corte a Sezioni Unite del 22 luglio 2015) la risarcibilità del danno tanatologico, ovvero, del pregiudizio al diritto alla vita sofferto dalla vittima nel caso di morte immediata, si ammette il ristoro del c.d. danno catastrofico, intendendosi tale il danno che, per via della peculiare intensità, è detto catastrofico, in quanto posto a carico della psiche della vittima che lucidamente attende in agonia la propria fine.

In altre parole viene in rilievo ai fini risarcitori una sofferenza di elevata intensità, forza e drammaticità da involgere ed impattare sulla psiche della vittima.

Ciò detto, entriamo nel cuore della questione avendo presente due considerazioni, ovvero, l'impianto teorico elaborato in giurisprudenza in tema di danno biologico e l'impianto di tutela risarcitoria civile come accolto dal nostro ordinamento, consistente nella finalità prettamente riparatoria di un vulnus ingiusto, subito e non invece un portata punitiva-sanzionatoria di un comportamento colpevole.

Ebbene, in sede di liquidazione del danno, nell'ipotesi in cui al danno biologico terminale si sommi una componente di sofferenza psichica di massima intensità ed entità per sua natura idonea ad integrare il danno c.d. catastrofico, la Suprema Corte sconfessa la meccanica applicazione dei criteri tabellari, poiché gli stessi, per quanto dettagliati, vengono predisposti per la liquidazione del danno biologico o delle invalidità, temporanee o permanenti, con esclusivo riferimento a soggetti che sopravvivono all'evento dannoso (Cass. Civ., Sez. III, 31 ottobre 2014, n. 23183).

Una siffatta peculiare sofferenza psichica, pertanto, impone, a parere della Suprema Corte, l'utilizzo di modalità di liquidazione del danno impossibili da ricondurre a dati ripetibili e costanti proprio in quanto il danno catastrofico investendo con massima entità ed intensità la psiche della vittima risulterebbe inidoneo ad essere imbrigliato in soli sistemi tabellari.

Tale considerazione si allinea e consolida il sistema di identificazione e di liquidazione dei pregiudizi non patrimoniali come scardinato e ricostruito dalle famose Sentenze San Martino del 2008, che si posero come “faro” ad illuminare il prudente apprezzamento del giudice nella quantificazione del danno non patrimoniale.

Ebbene, alla luce di quanto testè riportato, la Suprema Corte, nella pronuncia oggetto della disamina, ritiene necessario liquidare l'ulteriore danno catastrofico, per le sue peculiarità e soggettività, sulla base di un criterio equitativo puro la cui applicazione sia volta a cogliere e risarcire a dovere l'”enormità” del nocumento patito dalla vittima che consapevole attende in agonia la propria morte.

Osservazioni

Per una corretta liquidazione del danno catastrofico, ove accertato, la Suprema Corte individua, nella sentenza in commento, il c.d. criterio equitativo puro intendendosi tale un “non criterio”, in quanto, il giudice nel liquidare il danno sarà chiamato ad affidarsi al suo buon senso, in relazione alla valutazione delle peculiarità del caso concreto senza essere vincolato a parametri predeterminati.

Siffatta metodologia, però, se da un lato presenta certamente dei lati positivi quali: a) la personalizzazione del danno nel modo più appropriato; b) la valutazione di tutte le particolarità del caso concreto non costringendo a calcoli o complesse operazioni; dall'altro, però, siffatta discrezionalità dell'organo giudicante potrebbe far temere in un arbitrio del giudice e nella mancanza di uniformità di trattamento.

A bilanciare i pro e i contro di tale criterio si sottolinea però il potere-dovere del giudice di fornire in sentenza un'attenta e dettagliata motivazione in ordine ai criteri della scelta, ai criteri di personalizzazione, dell'iter logico seguito ai fini della determinazione del quantum.

L'importanza di fornire da parte dell'organo giudicante un'attenta e congrua motivazione in sede di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da sinistro stradale, è tematica assai cara alla giurisprudenza recente. Tale è da intendersi la pronuncia che fornisca un criterio di riscontro e di verifica del ragionamento che ha condotto l'Organo giudicante alla quantificazione del danno su parametri, quali le Tabelle di Milano che nel tempo sono andati via via consolidandosi; pertanto, ove l'Organo giudicante intenda discostarsene non può esimersi dal dare conto delle ragioni della preferenza circa l'adozione di modalità di calcolo diverse, pena la censurabilità della sentenza in sede di legittimità

La ratio della pronuncia è, pertanto, ravvisabile nella particolare soggettività e personalità del danno subito dalla vittima, nonché, nella precisa volontà di garantire alla stessa (e ai suoi eredi), un risarcimento dell'effettivo nocumento patito che, se accertato, deve essere tutt'altro che irrisorio o meramente simbolico, esito quest'ultimo che certamente si verificherebbe ove ad essere applicato fosse esclusivamente il metodo tabellare. Orbene, la liquidazione del danno catastrofico che deve necessariamente tenere conto della “enormità” del pregiudizio subito dalla vittima con applicazione di un criterio cd “equitativo puro” che determini un giusto ed integrale ristoro dei panni patiti.

Guida all'approfondimento

Marco Rossetti, Il Danno non patrimoniale, Giuffrè, 2010, 244 ss.

Enrico Pedoja, Francesco Pravato, La sofferenza “psicofisica” nel danno alla persona, 2013, 73 ss.

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