Quando le omesse informazioni ledono il diritto alla salute ed il diritto di autodeterminazione
16 Ottobre 2014
Massima
Trib. Napoli, sez. X, 22 luglio 2014, n. 11004 Per potere configurare un responsabilità del medico connessa alla mancata informazione è necessario che tale omissione sia in rapporto di causalità con il danno sofferto dal paziente all'esito dell'operazione, mentre è irrilevante che l'intervento sia stato eseguito o meno correttamente. Sintesi del fatto
Tizia era sottoposta ad un intervento di tiroidectmia totale per ritenuta neoplasia follicolare della tiroide, poi accertata inesistente. Il ctu nominato dal Tribunale osservava che se i sanitari avessero proceduto ad ulteriori esami (quali scintigrafia tiroidea con mibi) avrebbero potuto pervenire ad una più corretta diagnosi, escludendo l'intervento chirurgico poi realizzato. Il Tribunale partenopeo riconosceva la responsabilità sanitaria per non essersi conformata alle leges artis, rigettando però la domanda di risarcimento del danno per lesione del consenso informato.
In motivazione “La mancanza di adeguata informazione prodromica alla formulazione del consenso alla prestazione terapeutica può comportare, in caso di mancanza di colpa medica, una responsabilità risarcitoria connessa al peggioramento delle condizioni di salute del paziente, solo ove lo stesso dimostri – pur in forza di elementi di natura presuntiva – che, se adeguatamente informato, avrebbe deciso di non sottoporsi alla terapia (…) l'attrice ha omesso ogni pertinente allegazione difensiva in merito allo specifico punto del presunto pregiudizio consistente, in via autonoma, nelle lesone del proprio diritto di poter esprimere una scelta in ordine al trattamento terapeutico propostole, sulla base di una informazione precisa ed adeguata (…) in conclusione, ritiene questo tribunale, che mancano le specifiche e concrete deduzioni in ordine al lamentato danno alla sfera personale della libertà di determinazione”.
La questione
La questione in esame è la seguente: in caso di lesione del consenso informato, a prescindere dalle ricadute in termini di pregiudizio alla salute, quando potrà essere ristorata la lesione del diritto di autodeterminazione? La soluzione giuridica
La sentenza della Corte Suprema Cass. n. 2847/2010 rappresenta un importante contributo alla dottrina del consenso informato sotto un profilo finora trascurato generalmente dalla giurisprudenza (qualche cenno alla questione si trova in alcune sentenze di merito: Trib. Genova 10 gennaio 2006; Trib. Milano 29 marzo 2005), che attiene ad uno degli elementi costitutivi del diritto di un danneggiato al risarcimento del danno: quello del rapporto di causalità tra fatto ed evento dannoso. La sentenza della Corte Suprema riporta invece, con rigore, la questione del consenso informato a quello che è il suo corretto inquadramento giuridico e contribuisce ad evitare che l'assunto del paziente di non essere stato adeguatamente informato possa servire, come non di rado accade, come pretesto per tentare di conseguire un risarcimento che altrimenti non potrebbe essere ottenuto avendo il sanitario agito secondo le regole dell'arte. Già nel 2006 la Corte di cassazione aveva attribuito autonomo rilievo alla violazione dell'obbligo di informazione, a prescindere dall'esito, favorevole o non favorevole, dell'intervento (Cass. 14 marzo 2006, n. 5444). Pertanto, la mancata richiesta del consenso costituisce autonoma fonte di responsabilità là dove dall'intervento scaturiscano effetti lesivi per il paziente, senza che rilevi il fatto che l'intervento medesimo sia stato eseguito in modo corretto (tra le tante cfr. Cass. 24 settembre 1997 n. 9374, la quale ha precisato che in assenza del consenso informato da parte del paziente l'intervento terapeutico costituisce pur sempre un illecito), ma critica tale impostazione sul rilievo che il diritto all'autodeterminazione e quello alla salute sono diversi. In sostanza, si ritiene che la violazione del diritto all'autodeterminazione comporti un danno in sé, a prescindere dalla ricorrenza di un effetto dannoso sulla salute. L'analisi deve muovere, come è ovvio, dal fatto che il paziente non ha ricevuto dal sanitario alcuna informazione, o ha ricevuto un'informazione generica o lacunosa, circa il suo quadro clinico, i vantaggi del trattamento che il sanitario si propone di effettuare, i rischi di esso, il rapporto tra vantaggi e rischi, l'esistenza di alternativi trattamenti terapeutici, e ogni altra informazione utile per mettere il paziente in grado di valutare se sottoporsi al trattamento stesso oppure no, magari rivolgendosi ad altri sanitari per acquisire anche altri parere tecnici da porre a confronto. Il fatto di cui sopra ha leso un diritto del paziente all'autodeterminazione tutelato a livello costituzionale (in particolare dagli artt. 2, 13 e 32 Cost.) e qualifica come illecita l'opera del sanitario, indipendentemente dal fatto che questa sia stata eseguita secondo le regole dell'arte. La Corte Costituzionale ha osservato che il consenso informato trova il suo fondamento direttamente nella Carta Costituzionale e, segnatamente, negli artt. 2, 13 e 32 Cost., con la conseguenza che siamo in presenza di due distinti diritti fondamentali della persona: quello all'autodeterminazione e quello alla salute. Infatti, ogni individuo, da un lato, ha il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura ed ai possibili sviluppi del percorso terapeutico, dall'altro, ha il diritto alle cure necessarie (C. cost. 23 dicembre 2008 n. 438). Ma si può affermare che vi è un rapporto di causalità materiale tra l'omessa informazione da parte del sanitario e il verificarsi del danno alla salute subito dal paziente? La risposta non può che essere negativa: sia che si segua la teoria della conditio sine qua non, sia che si segua la teoria della causalità adeguata, il danno alla salute subito dal paziente è conseguenza, in fatto, del trattamento medico (in ipotesi, posto in essere in modo del tutto corretto), non dell'omissione della dovuta informazione imputabile al sanitario. Si può immaginare un'obiezione: se non vi fosse stata omessa o lacunosa informazione, il paziente non avrebbe subito alcun danno alla salute (l' App. Milano 2 maggio 1995, ha affermato l'esistenza di un nesso di causalità tra lesione del diritto all'autodeterminazione e lesione al diritto alla salute con la seguente motivazione: la lesione del diritto all'autodeterminazione si pone come termine iniziale di una sequenza causale che vede, come termine finale, la lesione del diritto alla salute, come può dedursi dal fatto che, rispettato quel diritto, o non si sarebbe verificata la grave e irreversibile lesione, ovvero se ne sarebbe trasferito il relativo rischio contrattuale in capo al paziente. È palese la illogicità di una simile argomentazione: la grave e irreversibile lesione si è materialmente verificata come conseguenza dell'intervento sanitario e la lesione del diritto all'autodeterminazione comporta, sotto il profilo della causalità, unicamente l'indagine se il paziente adeguatamente informato avrebbe o non avrebbe deciso di sottoporsi al trattamento terapeutico). Attribuire automaticamente al sanitario colpevole dell'omessa o lacunosa informazione il danno alla salute subito dal paziente andrebbe anche oltre una responsabilità oggettiva del sanitario, perché la responsabilità oggettiva prescinde dalla colpa, ma non prescinde dall'esistenza di un rapporto di causalità tra fatto ed evento dannoso. Questo automatismo rappresenterebbe anche una soluzione ingiusta laddove a fronte di una minima percentuale di rischio (ad esempio, inferiore all'1%) d'insuccesso dell'intervento per eventi non imputabili al sanitario vi sarebbe una elevata probabilità di un danno grave alla salute nel caso di mancato intervento. Al riguardo la Corte Suprema osserva: “la riduzione del problema al rilievo che, essendo illecita l'attività medica espletata senza consenso, per ciò stesso il medico debba rispondere delle conseguenze negative subite dal paziente che quel consenso informato non abbia prestato, costituirebbe una semplificazione priva del necessario riguardo all'unitarietà del rapporto ed al reale atteggiarsi della questione, la quale non attiene tanto alla liceità dell'intervento del medico (che è solo una qualificazione successiva), ma che nasce dalla violazione del diritto all'autodeterminazione del paziente” (Cass. 9 febbraio 2010 n. 2847, cit.). Tutto quello che si può affermare sotto il profilo del rapporto di causalità è che l'omessa o lacunosa informazione imputabile al sanitario ha impedito al paziente di esercitare consapevolmente la sua facoltà di scelta in ordine al sottoporsi o meno al trattamento e di conseguenza ha leso il suo diritto all'autodeterminazione. Pertanto l'opera del sanitario deve qualificarsi come illecita, ma da ciò non si può spingersi ad imputargli automaticamente sotto il profilo della causalità in fatto il danno alla salute subito dal paziente, perché tale imputazione dipende da come il paziente avrebbe esercitato la sua facoltà di scelta. Negli illeciti omissivi, di natura contrattuale o extracontrattuale, è principio fondamentale sotto il profilo della causalità materiale che occorre procedere ad una indagine controfattuale, e chiedersi quale sarebbe stato presumibilmente il corso degli eventi se fosse stato posto in essere il comportamento della cui omissione si tratta. Non si vede la ragione per la quale tale regola non dovrebbe valere anche in relazione all'omissione dell'informazione dovuta dal sanitario al paziente per metterlo in grado di esprimere un consenso informato al trattamento medico ovvero di rifiutarlo. Appare pertanto pienamente condivisibile l'impostazione data al problema in esame dalla sentenza della Corte Suprema (Cass. n. 2847/2010): “poiché l'intervento chirurgico non sarebbe stato eseguito solo se il paziente lo avesse rifiutato, per ravvisare la sussistenza di nesso causale tra lesione del diritto all'autodeterminazione del paziente (realizzatosi mediante l'omessa informazione da parte del medico) e la lesione della salute per le, pure incolpevoli, conseguenze negative dell'intervento ..., deve potersi affermare che il paziente avrebbe rifiutato l'intervento ove fosse stato compiutamente informato, giacché altrimenti la condotta positiva omessa dal medico (informazione, ai fini dell'acquisizione di un consapevole consenso) non avrebbe comunque evitato l'evento (lesione della salute)”. In altri termini, deve potersi affermare che il paziente, se adeguatamente informato, avrebbe impedito che venisse in essere quella che è stata la causa materiale del danno (cioè l'intervento del sanitario). Del resto, tale principio è stato più volte affermato dalla Corte Suprema in relazione al diritto della donna di scegliere l'interruzione della gravidanza per le malformazioni del feto: in caso di omessa informazione del sanitario circa le malformazioni del feto, occorre stabilire se la donna, convenientemente informata, avrebbe esercitato il suo diritto di interrompere la gravidanza (Cass. 10 maggio 2002 n. 6735; Cass. 21 giugno 2004 n. 11488). Nell'indagine controfattuale che occorre compiere nel caso in cui il diritto di scelta del paziente sia stato pregiudicato dall'omessa informazione imputabile al medico i giudici di legittimità addossano al paziente l'onere di provare che avrebbe rifiutato il trattamento se adeguatamente informato adducendo una pluralità di ragioni: la prova del nesso causale tra inadempimento e danno spetta al creditore, cioè al paziente; il fatto positivo da provare consiste nel rifiuto che sarebbe stato opposto al medico; trattandosi di una scelta soggettiva del paziente, vale anche qui il criterio di distribuzione dell'onere della prova in funzione della “vicinanza” al fatto da provare; la scelta del paziente di non seguire l'indicazione del medico non corrisponde all'id quod plerumque accidit (Cass., 9 febbraio 2010, n. 2847, cit.). Per i giudici di legittimità, quindi, la sola violazione del diritto all'autodeterminazione non accompagnata da un danno alla salute per l'esito fausto dell'intervento può comportare un danno non patrimoniale per il paziente (risarcibile ove ne sia data la prova e superi quella soglia di tollerabilità per come precisato dal giudice della nomofilachia nella sentenza Cass. 11 novembre 2008, n. 26972), qualora l'intervento abbia procurato al paziente sofferenze e turbamenti che egli, secondo il suo insindacabile bilanciamento degli interessi in gioco, avrebbe scelto di non accettare se adeguatamente informato. Nell'indagine controfattuale in cui si devono ricostruire le conseguenze che non sono derivate da un fatto concreto della vita, ma che sarebbero derivate da un fatto puramente ipotetico (qui: da quella che sarebbe stata la corretta e completa informazione dovuta dal medico al paziente) assume particolare rilevanza il ricorso alle presunzioni da parte del paziente, come rileva la sentenza che si considera. Un primo elemento da tenere presente è quello che riguarda le finalità del trattamento medico, secondo che esse mirino ad un miglioramento estetico della persona ovvero ad eliminare o prevenire un danno alla salute. È presumibile che nel primo caso il paziente, messo di fronte al rischio pur piccolo che il trattamento estetico portasse a risultati del tutto opposti a quelli sperati peggiorando l'estetica, avrebbe scelto di non sottoporsi al trattamento stesso qualora fosse stato adeguatamente informato dal sanitario. Più complessa si presenta la situazione quando il trattamento medico riguarda la salute del paziente. Sotto questo aspetto conviene distinguere secondo che il trattamento eseguito dal sanitario fosse diretto a conservare la salute del paziente evitando probabili peggioramenti, o semplicemente a migliorarla. Nel caso in cui l'intervento fosse diretto a conservare la salute del paziente evitando l'insorgere di probabili peggioramenti le variabili da considerare ai fini del ricorso alle presunzioni sono quattro, o per meglio dire due coppie. Invero, da un lato sarà necessario confrontare la percentuale di rischio di un esito infausto dell'intervento con la percentuale di rischio di un danno alla salute in mancanza dell'intervento stesso. Da un altro lato, sarà necessario confrontare la gravità per la salute delle eventuali conseguenze negative dell'intervento con la gravità per la salute delle conseguenze alle quali il paziente sarebbe esposto in mancanza dell'intervento stesso. Dalla combinazione di queste variabili il giudice potrà desumere elementi per il ricorso alle presunzioni. Si faccia il caso in cui un intervento chirurgico al cervello presenti lo 0,50% di rischio di complicanze tali da condurre ad una infermità permanente, mentre in mancanza dell'intervento stesso vi sarebbe il 60% di rischio di una infermità permanente ancora maggiore o perfino della morte: se il paziente non adduce prove per cui egli avrebbe scelto l'alternativa più rischiosa, è da presumere che una persona sensata avrebbe scelto, se adeguatamente informata del rischio del 60%, di sottoporsi all'intervento. Nel caso in cui l'intervento fosse invece diretto solo a migliorare la salute del paziente (ad esempio: migliorare la funzionalità di qualche organo), è da presumere che il paziente, messo di fronte ad una informazione del sanitario che gli prospetta i rischi dell'intervento, terrebbe di più a conservare lo stato fisico attuale e considererebbe come un optional il miglioramento sperato con l'intervento stesso. In questo caso egli si limiterà a prendere in considerazione solo la percentuale di rischio di complicanze, nonché l'entità dei conseguenti possibili danni alla salute, tralasciando un bilanciamento di essi con gli sperati ma non essenziali miglioramenti. Perciò il giudice potrà desumere elementi per il ricorso alle presunzioni semplicemente dalla percentuale di rischio e dall'entità delle possibili conseguenze negative per la salute. In linea di principio non bisogna quindi sovrapporre salute ed autodeterminazione: il danno subito dal paziente per non essere stato informato è autonomo rispetto al danno alla salute, però perché questa autonomia si traduca sul piano risarcitorio è necessario distinguere secondo che l'intervento non consentito fosse indispensabile per la salute del paziente oppure avesse avuto un esito favorevole. Ritenuto indispensabile l'intervento, si bisogna distinguere seconda che sia stato eseguito correttamente oppure no. La conseguenza è che deve escludersi un obbligo risarcitorio ove l'intervento necessario per il paziente e difettante del suo consenso informato sia stato eseguito correttamente ed a ritenere il danno assorbito dall'imperizia, nell'altro caso.
Come precisato in precedenza il consenso informato è espressione non solo del diritto alla salute ma anche di quello relativo alla libera autodeterminazione. In considerazione di ciò, la stessa giurisprudenza ha affermato che pur non potendo esserci risarcimento del danno alla salute ove il paziente non dimostri il nesso causale tra l'omessa informazione e il pregiudizio a detto bene, il medico ben può essere chiamato a risarcire il danno (non patrimoniale) da lesione della libertà di autodeterminazione. Il che, a ben vedere, finisce per rendere il danno non patrimoniale in discorso un danno in re ipsa rispetto all'evento della omessa informazione. Così opinando potrebbe giungersi alla conclusione che per ottenere il risarcimento di tale tipo di danno, al paziente basterebbe allegare l'omessa informazione (ossia l'inadempimento) senza dover dar prova delle effettive conseguenze lesive che da essa sono derivate. Tuttavia, deve ribadirsi che la volontà di non sottoporsi al trattamento medico ove l'informazione sanitaria fosse stata correttamente formulata non può essere oggetto di mera allegazione, ma di dimostrazione. D'altra parte, neppure potrebbe essere diversamente: infatti, se la responsabilità sanitaria ampiamente intesa conosce un nesso eziologico suscettibile di valutazione oggettiva e scientificamente rilevante (di cui il medico deve dimostrare l'insussistenza), l'importanza della disinformazione nella produzione del danno è connessa ad una scelta del tutto soggettiva e personale, che risiede nel libero svolgimento dell'individuale autodeterminazione. In altri termini, l'inadempimento non rileva di per sé: è imprescindibile verificare se ne è conseguita una lesione della libertà di scelta (il paziente non si sarebbe sottoposto ad intervento: nesso eziologico), dalla quale discende il danno da nascita indesiderata. In conclusione, la prova grava sul paziente perché indiscutibilmente a lui più “vicina”, senza contare che il “mancato diniego” si discosta dalla valutazione operata dal personale sanitario e anche – forse – dall'id quod plerumque accidit. |