Intervento medico, aggravamento delle condizioni di salute, riparto dell’onere della prova: nulla di nuovo all’orizzonte
18 Dicembre 2015
Massima
In tema di responsabilità civile derivante da attività medico-chirurgica, il paziente che agisce in giudizio deducendo l'inesatto adempimento dell'obbligazione sanitaria deve provare il contratto ed allegare l'inadempimento del professionista, restando a carico dell'obbligato l'onere di provare l'esatto adempimento, con la conseguenza che la distinzione fra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà non vale come criterio di ripartizione dell'onere della prova, ma rileva soltanto ai fini della valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa, spettando, al sanitario la prova della particolare difficoltà della prestazione, in conformità con il principio di generale favor per il creditore danneggiato cui l'ordinamento è informato. Il caso
Tizia si sottoponeva a cure odontoiatriche di tipo implantologico in esito al quale si manifestava una sinusite mascellare iatrogena oltre che una fistola oro-antrale. La Corte di Cassazione cassa la sentenza di secondo grado – che aveva a sua volta annullato la sentenza di prime cure con la quale il medico era stato condannato al risarcimento dei danni nei confronti del paziente – sul rilievo che il medico non aveva offerto la prova liberatoria in merito alla assenza di profili di responsabilità allo stesso ascrivibili in relazione alla presenza della fistola oro-antrale, la cui esistenza era oggettivamente sussistente.
In motivazione «Ai fini del riparto dell'onere probatorio l'attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l'esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l'insorgenza o l'aggravamento della patologia ed allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non sia stato causa del danno». La questione
La questione in esame è la seguente: in caso di interventi chirurgici di carattere routinario come si atteggia l'onere della prova tra paziente e medico? Le soluzioni giuridiche
La questione della ripartizione dell' onus probandi in tema di responsabilità del sanitario coinvolge inevitabilmente profili di policy. Ciò emerge soprattutto nella ricostruzione del problema operata dal formante giurisprudenziale. Le pronunce in materia tendono infatti ad abbandonare il piano declamatorio dei principi e delle regole per trascorrere verso gli assetti pratico-processuali sì che il tema dell'onere probatorio viene piuttosto analizzato sul piano pragmatico che non su quello delle solenni costruzioni dogmatiche. Emerge un tendenziale sfavore verso la posizione del medico che, se da un lato è volto a tutelare le ragioni del paziente quale parte più debole del rapporto, dall'altro, in vero, rischia di introdurre una sorta di automatismo risarcitorio, su cui si fonda, il più delle volte, una responsabilità del sanitario più «sentita» in base al senso comune che realmente «accertata» e «provata» in giudizio (Cass. n. 13953/2007). L'indagine è influenzata da tre ordini di fattori relativi al settore della responsabilità medica. A venire in rilievo è, anzitutto, la contrattualizzazione forzata del rapporto medico-paziente e i profili connessi alla teorica degli obblighi di protezione e del contatto sociale; emerge, poi, il tema della configurazione del contratto atipico di spedalità in caso di accettazione del ricovero in struttura ospedaliera pubblica o privata e quello del ruolo assunto dell'art. 1327 c.c. nella stipulazione del contratto di cura. Per altro verso, risulta costante il riferimento all'abbandono della distinzione tra obbligazioni di mezzi — alle quali ci si riferisce normalmente per gli interventi particolarmente complessi — e obbligazioni di risultato — sulle quali si fa leva per gli interventi di routine —, con l'effetto che l'obbligazione del medico tende sempre più ad essere ritenuta un'obbligazione di risultato. Il che discende dalla particolare attività del sanitario riconducibile in ultima analisi all'obiettivo della tutela degli interessi del paziente. Accanto all'obbligo di curare (che è di mezzi), il medico assume, nella specie, una serie di obblighi (di risultato), autonomi rispetto al primo, che tendono quanto meno a realizzare le condizioni per il soddisfacimento di interessi, la molteplicità dei quali dipende dalla complessità della persona umana, più esposta, specie se malata e in quanto contraente debole, a possibili violazioni di diritti (V. Zambrano, Interesse del paziente e responsabilità medica nel diritto civile italiano e comparato, Camerino-Napoli, 1993). Non va sottovalutata, tra l'altro, la presa d'atto della capacità integrativa della buona fede e della diligenza, con la conseguenza che rilevano anche di fatto, nel rapporto di assistenza medica, obblighi di comportamento posti al di là della semplice normativa per fattispecie: alle fonti integrative di natura collettiva si affiancano, infatti, i protocolli tecnici e i codici deontologici, i quali tipizzano le condotte professionali secondo percorsi sperimentati dall'efficacia dei risultati, prevengono negligenze professionali sensibilmente nocive per l'assistito e normalizzano i costi delle prestazioni. Da ultimo, non può non farsi cenno alla diffusa interpretazione restrittiva dell'art. 2236 c.c. (Cass. n. 20790/2009). Mentre in passato, infatti, venivano garantiti ampi esoneri di responsabilità, confinando l'ipotesi risarcitoria all'esecuzione di prestazioni tecniche e soltanto in caso di dolo o colpa grave, predomina oggi un'interpretazione fortemente contenitiva delle ipotesi di speciale difficoltà alle quali l'art. 2236 c.c. — applicato in ambito sia contrattuale sia aquiliano — si riferisce. Lo stesso apparente conflitto tra l'art. 2236 c.c. e l'art. 1176, comma 2, c.c., porta a concludere il più delle volte — con l'avallo della Corte costituzionale (Corte Cost. n. 116 del 1973) — che l'art. 2236 c.c. attiene esclusivamente al profilo della perizia nei casi nei quali è richiesta la soluzione di problemi nuovi o di speciale complessità caratterizzati da un largo margine di rischi, ma non invece a quello dell'eventuale imprudenza o negligenza dell'operatore. Esiste pertanto, sempre e comunque, una diligenza professionale media esigibile dal medico in qualunque tipo di intervento. Da ciò consegue che la natura contrattuale della responsabilità medica ha delle ricadute dirette sul riparto degli oneri probatori. In applicazione, infatti, della normativa sui rapporti contrattuali e dei principi elaborati in tema di adempimento del credito, il paziente, quale creditore della prestazione sanitaria, è tenuto a dimostrare l'esistenza del rapporto contrattuale, del danno patito e del nesso di causalità tra danno e condotta del personale sanitario, limitandosi a dedurre l'inadempimento del debitore (struttura sanitaria o medico) (Cass. n. 577/2008; Cass. n. 975/2009, cit.). La Suprema Corte ha ritenuto che, pur gravando sull'attore l'onere di allegare i profili concreti di colpa medica posti a fondamento della proposta azione risarcitoria, tale onere non si spinge fino alla necessità di enucleazione e indicazione di specifici e peculiari aspetti tecnici di responsabilità professionale, perché «conosciuti e conoscibili soltanto agli esperti del settore, essendo sufficiente la contestazione dell'aspetto colposo dell'attività medica secondo quelle che si ritengono essere, in un dato momento storico, le cognizioni ordinarie di un non professionista che, espletando la professione di avvocato, conosca comunque (o debba conoscere) l'attuale stato dei profili di responsabilità del sanitario» (Cass. n. 9471/2004). Sarà, invece, il debitore della prestazione, cioè, nel caso di specie, la struttura sanitaria ed i medici, a dover provare, per andare esenti da responsabilità, che inadempimento non v'è stato o che è dipeso da fatto non imputabile (Cass. n. 13066/2004) ovvero che, pur esistendo, non è stato causa del danno (Cass., Sez. Un., n. 577/2008, cit.). Si tratta dell'applicazione al campo della responsabilità medica dei principi enunciati dalla sentenza Cass., Sez. Un. 30 ottobre 2001, n. 13533 ove il Collegio ha affermato che, in materia di responsabilità contrattuale, poiché il presupposto fattuale (l'inadempimento) è il medesimo, identico sarà il criterio di riparto dell'onere della prova sia che il creditore agisca per la risoluzione contrattuale, che per il risarcimento del danno, che per l'adempimento. In tutti e tre i casi, il creditore sarà tenuto solo a provare la fonte negoziale o legale del suo diritto (e il relativo termine di scadenza, se previsto), limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte; mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo, costituito dall'avvenuto adempimento o dall'impossibilità sopravvenuta della prestazione. Ad analoga conclusione, le Sezioni Unite del 2001 giungono in tema di inesatto adempimento: ove il creditore abbia dedotto non già l'inadempimento della prestazione della controparte, ma semplicemente il suo inesatto inadempimento, sarà onere del debitore convenuto dimostrare di aver esattamente adempiuto alla sua prestazione. Così, ricapitolando: sarà onere del paziente danneggiato:
Sarà onere della struttura medica e/o del medico:
Tali oneri probatori, come chiarito dalla più recente giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 24791/2008), restano fermi anche ove l'intervento sia stato di speciale difficoltà, in quanto l'esonero di responsabilità di cui all'art. 2236 c.c. (secondo cui «se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d'opera non risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave») non incide sui criteri di riparto dell'onere della prova ma costituisce soltanto parametro della valutazione della diligenza tenuta dal medico o dalla struttura sanitaria nell'adempimento, in forza del combinato disposto con l'art. 1176, comma 2, c.c.. Costituisce, quindi, onere del medico, per evitare la condanna in sede risarcitoria, provare che l'insuccesso dell'intervento è dipeso da fattori indipendenti dalla propria volontà, avendo egli osservato, nell'esecuzione della prestazione sanitaria, la diligenza normalmente esigibile da un medico in possesso del medesimo grado di specializzazione. Osservazioni
La prestazione del medico dovrebbe consistere l'obbligo di curare il malato con la dovuta diligenza, nel pieno rispetto delle leges artis della scienza medica. Ora, il problema della distinzione obbligazione di mezzi/obbligazione di risultato con riferimento alla prestazione del medico (alla quale sembra alludere la presente pronuncia che rinvia agli interventi di non difficile esecuzione) è determinato, in un certo qual modo, dalla evoluzione della scienza medica. Infatti, la scienza medica ha raggiunto progressi tali per cui, con riferimento a determinate patologie, la corretta applicazione delle leges artis garantisce la guarigione del malato. Se la guarigione del malato non sopravviene vuol dire che le leges artis non sono state rispettate e quindi c'è stato inadempimento da parte del medico. Ma il contenuto dell'obbligazione del medico resta sempre lo stesso: curare il malato, nel modo migliore, con le tecniche mediche più aggiornate, più adeguate al caso concreto. Da ciò consegue che la prova liberatoria gravante sul medico si sostanzia in una prova di tipo "causale", ovvero nella dimostrazione che l'evento dannoso si è verificato per l'intervento di un fattore estraneo alla sua sfera soggettiva e non ricollegabile causalmente al suo operato. Tale posizione, se certamente dettata da (parzialmente) condivisibili riflessioni sulla vicinanza della prova del nesso di causalità al medico piuttosto che al paziente - riflessioni intersecantesi poi con la natura dell'obbligazione del medico, se di mezzi o di risultato - potrebbe risultare forse eccessivamente gravosa per il medico, il quale, in definitiva, andrebbe incontro a responsabilità civile sulla base della sua mera incolpazione da parte del paziente, dovendo quest'ultimo solo provare il danno patito, poiché, in genere, il contatto sociale o il contratto di spedalità sono dati non contestati, dovendo poi il medico provare "tutto" il resto, e cioè che ha operato bene, nel rispetto delle leges artis ovvero che la patologia lamentata non è eziologicamente riconducibile alle cure prestate. Sembrerebbe allora più equilibrata la posizione espressa da Cass., 16 gennaio 2009 n. 975 la quale ha affermato che: a) in tema di responsabilità civile nell'attività medico-chirurgica, ove sia dedotta una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e/o del medico per l'inesatto adempimento della prestazione sanitaria, il danneggiato deve fornire la prova del contratto (o del "contatto") e dell'aggravamento della situazione patologica (o dell'insorgenza di nuove patologie per effetto dell'intervento) e del relativo nesso di causalità con l'azione o l'omissione dei sanitari; b) resta a carico dell'obbligato - sia esso il sanitario o la struttura - la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile; c) l'insuccesso o il parziale successo di un intervento di routine, o, comunque, con alte probabilità di esito favorevole, implica di per sé la prova dell'anzidetto nesso di causalità, giacché tale nesso, in ambito civilistico, consiste anche nella relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso, secondo il criterio, ispirato alla regola della normalità causale, del "più probabile che non". Il nesso causale, dunque, può essere facilmente provato a mezzo di presunzioni, come nel caso appena visto di interventi routinari o con altre probabilità di esito favorevole. |