Responsabilità medica e liquidazione dei danni da perdita di chance di sopravvivenza iure hereditario e iure proprio

Alessandro Benni de Sena
26 Maggio 2017

In caso di responsabilità medica per errore diagnostico, nell'accertamento del danno da perdita di chance di sopravvivenza possono enuclearsi due distinti momenti: quello della verifica della sussistenza del nesso di causalità tra la condotta e il danno evento e quello della quantificazione del danno.
Massima

In caso di responsabilità medica per errore diagnostico, nell'accertamento del danno da perdita di chance di sopravvivenza possono enuclearsi due distinti momenti: quello della verifica della sussistenza del nesso di causalità tra la condotta e il danno evento e quello della quantificazione del danno.

L'esistenza di una maggiore possibilità di sopravvivenza va apprezzata con prognosi ex ante, senza che rilevi il sopraggiungere della frustrazione definitiva di tale aspettativa per una causa diversa ed autonoma. Tale circostanza può rilevare solo in sede di aestimatio: se la vittima è ceduta per una causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell'illecito alla valutazione probabilistica si sostituisce quella del concreto danno effettivamente prodottosi prima della liquidazione del risarcimento.

Agli eredi della vittima spetta iure successionionis il diritto al risarcimento del danno per perdita di chance e del danno biologico per sottoposizione ad un intervento chirurgico più invasivo ed invalidante rispetto a quello che si sarebbe pratica in assenza di illecito. Spetta, altresì, iure proprio il risarcimento del danno non patrimoniale da lesione del rapporto parentale, non quello da perdita di tale rapporto in difetto di nesso di causa tra illecito e decesso.

Il caso

Parte attrice evocava in giudizio il medico radiologo e la struttura medica presso cui lo specialista esercitava la professione, chiedendone l'accertamento della responsabilità per la morte del loro congiunto.

In particolare, addebitava al medico una condotta imperita, consistente nell'omessa diagnosi di una patologia tumorale del polmone, la quale avrebbe costituito una concausa, insieme a patologie aneuristiche, del decesso del familiare. La neoplasia sarebbe stata diagnosticabile fin dalla prima radiografia toracica e la mancata diagnosi avrebbe determinato una riduzione della possibilità di sopravvivenza, avrebbe concorso alla causazione del decesso prematuro del congiunto e addirittura avrebbe accelerato il processo patologico.

Parte convenuta evidenziava che il decesso doveva imputarsi non alle complicanze tumorali, ma ad una causa iniziale (la dissezione aortica-aneurisma sacciforme arco aortico), una intermedia (trombosi dell'arteria mesenterica e splenica), ed una terminale (infarto intestinale massivo).

Tramite CTU è emerso che vi fu un errore conoscitivo e che tale errore era idoneo a ridurre la possibilità di guarigione dalla neoplasia, ma non a provocare, quale concausa efficiente, l'evento letale verificatosi, ossia il decesso per infarto intestinale, quale complicanza insorta nel post operatorio di un intervento per il trattamento dell'aneurisma dell'aorta toracica.

Quindi, la CTU riconosceva “soltanto” che il ritardo diagnostico ha significativamente ridotto le chances di guarigione dalla patologia neoplastica: il paziente aveva perduto la possibilità di sopravvivenza a cinque anni del 37%, oltre al fatto che i chirurghi hanno dovuto optare per una scelta più demolitiva, comportante un'invalidità permanente del 55% maggiore di quella che sarebbe stata del 20% in caso di diagnosi tempestiva e di relativo intervento chirurgico meno invasivo.

Gli eredi agivano in giudizio per il ristoro dei danni non patrimoniali e patrimoniali sia iure successioni che iure proprio.

La questione

La questione primaria riguarda la risarcibilità del danno da perdita di chance di sopravvivenza, in presenza di un evento sopravvenuto, causalmente autonomo e determinante, che ha portato alla morte del paziente.

In generale, si pone il problema della configurazione di questo danno in relazione alla regola generale di responsabilità e ai suoi elementi, nonché alle sue regole di riparto dell'onere probatorio.

Ulteriore questione, una volta riconosciuta la risarcibilità, è costituita dai criterî di liquidazione di questo danno.

Le questioni giuridiche

Innanzitutto, il danno da perdita di chance non ha un significato univoco ed assume connotati e natura eterogenei o trasversali a seconda della fattispecie in considerazione, potendo essere inteso:

a) come specifico danno patrimoniale, specialmente nei casi di perdita di un'opportunità economica in ambito giuslavoristico e/o contrattuale, sia in termini di danno emergente (come perdita dell'opportunità di conseguire un'utilità: Cass. civ., sez. I, 30 settembre 2016, n. 19604) sia in termini di lucro cessante (non come utilità in sé, ma quando si realizza, per cui il danno si identifica con la perdita del risultato/bene sperato; la chance è un criterio di accertamento del nesso di causa tra condotta lesiva ed evento inteso come mancata realizzazione del risultato: Cass. civ., sez. lav., 2 settembre 2016, n. 17539; Cass. civ, sez. III, 10 dicembre 2012, n. 22376; Cass. civ., sez. II, 13 luglio 2011, n. 15385).

La differenza ha conseguenze rilevanti sull'impostazione della struttura del risarcimento: la chance, come danno emergente, è un bene già presente nel patrimonio del danneggiato con la conseguenza che la prova della perdita opera sul danno e non sul nesso di causalità; diversamente se intesa come lucro cessante;

b) come danno non patrimoniale ove venga in considerazione la lesione del diritto alla salute;

c) anche con particolare riferimento alla perdita di chance di sopravvivenza, tuttavia, non mancano soluzioni “intermedie” piuttosto ardite, che pure inquadrano tale perdita nel danno patrimoniale, salvo operare poi un liquidazione alla stregua dei criterî del danno non patrimoniale per la dolorosa consapevolezza di aver perduto delle possibilità di sopravvivenza o di programmare il proprio essere persona (Trib. Como, 23 giugno 2016, in Ridare.it).

Ad ogni modo, con riferimento alla perdita di chance di sopravvivenza, la Suprema Corte si riferisce ad un danno non patrimoniale, inteso come lesione di un bene intermedio, ossia di un diritto autonomo e diverso da quella delle vita e della salute (Cass. civ., sez. III, 16 ottobre 2007, n. 21619; Cass. civ., sez. III, 27 marzo 2014, n. 7195).

Sul piano dell'onere probatorio e della ricostruzione sistematica, pare sufficiente dimostrare in via di calcolo probabilistico l'esistenza della chance. Rileva, dunque, la probabilità o anche solo la possibilità di conseguire quel risultato. Questo deriva dalla ricostruzione, cui si è fatto cenno, della perdita de quo in termini di danno emergente, per cui il danneggiato dovrà provare l'esistenza di una seria possibilità di conseguire il risultato sperato e la relativa percentuale statistica rileva, pertanto, ai fini della determinazione del quantum del risarcimento e mai ai fini dell'an.

Spesso la questione è ricondotta al profilo causale, poiché l'errore diagnostico è con-causa dell'esito nefasto, che è stato accelerato o che comunque ha privato il paziente della possibilità di vivere per un tempo maggiore, fattore questo ritenuto co-essenziale nel bene vita, dunque leso e risarcibile (Cass. civ., sez. III, 18 settembre 2008, n. 23846; Cass. civ., 10 maggio 2000, n. 5962).

Diverso è il caso concreto affrontato nella sentenza annotata, in quanto il decesso è stato causato da un fattore successivo, diverso ed autonomo dall'errore diagnostico. Si può dire che vi è stata una perdita di chance “pura”. Così in caso di intervento chirurgico eseguito in modo errato, che avrebbe solo rallentato il processo morboso, si è ritenuto che il paziente abbia perduto la possibilità di vivere per un periodo di tempo maggiore di quello effettivamente goduto e che si tratta di danno risarcibile: nella liquazione del danno si dovrà tener conto della differenza temporale tra la durata della sopravvivenza effettiva e quella possibile in caso di intervento chirurgico corretto (Cass. civ., sez. III, 27 marzo 2014, n. 7195).

Quanto al profilo della liquidazione del danno da perdita di chance di sopravvivenza, la questione si presenta multiforme: si va dall'equità pura al ricorso alle tabelle milanesi con interventi correttivi sempre in via equitativa.

In via generale, ricostruita la perdita di cui si discute in termini di danno emergente, la liquidazione del danno avviene sulla base di un criterio prognostico, valutando le concrete e ragionevoli probabilità che il danneggiato avrebbe avuto di conseguire il risultato utile. In tal modo si individua il vantaggio globale che il danneggiato avrebbe potuto raggiungere e poi lo si riduce proporzionalmente in base alle concrete chance di conseguirlo (c.d. tecnica del coefficiente di riduzione). Solo ove tale criterio non sia applicabile, perché ad esempio non sia possibile stabilire con sufficiente certezza la percentuale di chance perduta, si può ricorrere alla liquidazione equitativa ex art. 1226 c.c. (Cass. civ., sez. III, 18 settembre 2008, n. 23846).

Anche il riferimento alle tabelle milanesi nel coefficiente di riduzione, tuttavia, non è univoco: la diminuzione della chance di sopravvivenza viene parametrata all'invalidità temporanea totale liquidando una certa somma pero ogni giorno di vita persa (presupponendo di poter calcolare la perdita in termini di giorni, mesi ed anni), altre volte all'invalidità permanente, riducendo poi la somma in ragione della chance perduta e in entrambi i casi applicando talvolta un aumento o una riduzione del grado di invalidità o del valore monetario del punto di invalidità (diffusamente, Guidi – Serani, infra).

Sulla scorta dell'osservazione che vita e salute sono beni non sovrapponibili, talvolta il parametro di base dell'invalidità viene, poi, incrementato del 100%, di modo che un giorno di vita perduto viene considerato di più di un giorno passato nell'invalidità.

Diverso ancora è il caso di perdita di chance di cura e guarigione, quando una corretta diagnosi avrebbe portato ad una terapia adeguata, dunque una migliore qualità della vita: l'evento nefasto si sarebbe comunque verificato e l'errore medico ha anticipato tale evento privando il danneggiato di “vivere meglio”.

La sentenza annotata fa proprio l'orientamento espresso dalla Suprema Corte.

La chance consiste in una mera possibilità, la cui esistenza va comunque provata sia pure in base a dati scientifici o statistici.

Il nesso di causa tra questa perdita e la condotta va accertato prescindendo dalla maggiore o minore idoneità della chance stessa a realizzare il risultato sperato, ma va considerata come un bene oggetto di un diritto attuale autonomo e diverso dal diritto alla salute.

Nell'accertamento di tale danno si individuano due momenti distinti: quello della verifica della sussistenza del nesso eziologico tra condotta ed evento e quello della quantificazione del danno.

Il primo (e solo questo) va accertato in termini probabilistici con applicazione della regola “del più probabile che non”. Tale regola è stata fatta propria da Cass. civ., sez. III, 16 ottobre 2007, n. 21619, abbandonando quella precedentemente utilizzata “dell'elevato grado di credibilità” o della “certezza morale” (ad esempio, Cass. civ., sez. III, 28 aprile 1994, n. 4040).

Nel secondo momento può rilevare la prossimità o la sufficienza del comportamento fattuale al conseguimento del risultato sperato, ovvero la maggiore o minore idoneità a garantire quest'ultimo.

Il sopraggiungere dell'evento nefasto per una causa estranea all'errore diagnostico non elide la perdita di chance di sopravvivenza, che va valutata con prognosi ex ante in considerazione delle condizioni del paziente al momento della condotta colposa, essendo in questo momento che si è prodotta la lesione del diritto alla fruizione della possibilità di ottenere un risultato di sopravvivenza maggiore. Il sopraggiungere dell'evento mortale rileva solo per il quantum.

La sentenza, poi, individua due fattispecie distinte:

a) la condotta colposa del medico riduce con certezza o con ragionevole probabilità la speranza di vita futura del paziente; qui vi è un danno certo, sia pure futuro, in termini di impedita o ritardata guarigione.

b) la condotta priva il paziente non della salute o della vita, ma della mera possibilità di guarire. Questo è una perdita di chance in senso proprio, intesa come privazione di una pura opportunità di guarigione a prescindere dalla probabilità di verificazione del risultato.

Il caso affrontato rientra nella prima ipotesi.

La liquidazione del danno da perdita di chance deve avvenire in via equitativa valorizzando il grado delle probabilità di realizzazione del risultato sperato effettivamente perdute. Tra i diversi metodi proposti la sentenza ritiene più adeguato al tipo di danno quello che parte dal risarcimento che si sarebbe liquidato per una invalidità del 100% con una riduzione in proporzione alla percentuale di possibilità di sopravvivenza perduta. In concreto:

a) si determina la somma che sarebbe spettata alla vittima in caso di invalidità permanente pari al 100%;

b) si divide tale somma per il numero di anni della vittima;

c) si moltiplica il risultato per cinque (il numero di anni in cui viene proiettata la possibilità di sopravvivenza);

d) su questo importo si calcola la percentuale di possibilità di guarigione perduta.

L'incidenza della riduzione della probabile durata della vita sulla quantificazione del danno può essere, poi, diversa a seconda che il danneggiato sia ancora in vita o meno al momento dell'aestimatio: nel caso in cui il danneggiato sia ancora in vita la riduzione della speranza di vita può tradursi in un aumento del grado di invalidità permanente ovvero un in incremento del valore monetario del punto di invalidità.

Spetta anche il risarcimento del danno biologico differenziale che per la sottoposizione ad un intervento chirurgico più invasivo di quello che si sarebbe profilato in caso di corretta diagnosi.

Essendo la persona offesa deceduta per una causa non ricollegabile alla menomazione risentita in conseguenza dell'errore diagnostico, alla valutazione probabilistica va sostituita quella del concreto danno effettivamente cagionato e richiesto dagli eredi iure successionis. La morte sopravvenuta rende misurabile e rapportabile alla durata della vita successiva alla menomazione l'incidenza negativa arrecata.

Riconosciuto il danno non patrimoniale iure successionis (per perdita di chance e per danno biologico differenziale), per completezza è da ricordare che parte attrice aveva chiesto il ristoro dei danni non patrimoniali anche iure proprio:

- per lesione dell'integrità psichica (in concreto negata, non avendo la CTU medico-legale riscontrato l'insorgenza di un pregiudizio psichico quale conseguenza dei fatti di causa);

- per perdita del rapporto parentale (pure negata, perché il decesso del congiunto non era causalmente riconducibile all'errore diagnostico, come detto);

- per lesione del rapporto parentale (qui riconosciuta con liquidazione equitativa, essendo stata compromessa la relazione affettiva tra vittima e congiunti).

Osservazioni

Indubbiamente si tratta di una decisione interessante, anche se la corposità del testo e l'intreccio di passaggi logici ed argomentativi non consentono una lettura troppo disinvolta.

È noto che attraverso il concetto di “perdita di chance” (e l'individuazione di un bene giuridico distinto da quello che rappresenta l'obiettivo finale del soggetto leso – possibilità di sopravvivenza diverso dalla salute, nel caso che ci interessa –) si è superata l'idea tradizionale secondo cui tale situazione giuridica non era tutelabile in difetto di una posizione di diritto soggettivo o comunque tutelata dall'ordinamento. Con particolare riferimento al tema della responsabilità medica, poi, è da tempo riconosciuta la risarcibilità di questa perdita, fondata sull'esigenza di tutelare il danneggiato/paziente: a fronte di un conclamato errore medico appariva ingiusto lasciare senza tutela quella situazione che, senza l'errore, avrebbe visto un corretto trattamento della patologia e una possibilità di sopravvivenza o di guarigione. Sul piano eziologico, l'assenza di una certezza logica e credibilità razionale avrebbe impedito, comunque, di riconoscere la risarcibilità del danno.

Fermo che la chance deve presentare i caratteri della serietà e concretezza e che sul danneggiato incombe l'onere probatorio dell'acquisizione nel suo patrimonio di tale consistente possibilità, la natura di tale danno, come detto, è assolutamente cangiante ed incerta, ora venendo configurata come danno emergente, ora come lucro cessante e, di conseguenza, si è sviluppata anche una riflessione sul nesso causale.

Nella distinzione tra causalità materiale (che lega condotta ad evento lesivo) e causalità giuridica (che lega evento a danno), la prima è retta dal principio della certezza logica, mentre il criterio probabilistico diviene rilevante nella determinazione del danno e nell'eventuale riparto della responsabilità risarcitoria in presenza di con-cause (causalità giuridica).

Con particolare riguardo alla responsabilità medica, poi, la Suprema Corte ha evidenziato come, a differenza del versante penale ove opera la presunzione di innocenza, in materia civile il nesso di causa va verificato applicando non il criterio probatorio della “certezza logica”, ma quello del “più probabile che non”. Consegue che in sede civile vi è una bipartizione probatoria in tema di nesso di causa: sul piano della causalità materiale vale la regola del “più probabile che non”; sul piano della verifica della risarcibilità della chance e sulla sua liquidazione vige una regola fondata sulla mera possibilità (in generale, Cass. civ., sez. III, 4 marzo 2004, n. 4400; Cass. civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 576; Cass. civ., sez. III, 6 maggio 2015, n. 8995; Cass. civ., sez. III, 29 febbraio 2016, n. 3893). Probabilità e possibilità sono due concetti diversi, aventi anche diversi ambiti di rilevanza.

In questo modo, poi, si supera il problema del riconoscimento del diritto al risarcimento del danno in relazione alla rilevanza o soglia percentuale della probabilità (inferiore o superare, ad esempio, al 50%): un'eventuale percentuale inferiore al 50% non esclude la causalità materiale (dunque l'an della domanda) inquadrata nella privazione di chance, ma potrà rilevare ai fini della quantificazione del danno nella sua entità.

Si comprende, allora, la grande attenzione della sentenza annotata nel riprendere più volte l'idea che il nesso di causa tra condotta ed evento va accertato in termini probabilistici ai soli fini del riconoscimento del nesso di causa, mentre nella quantificazione del danno assume rilevanza il controllo delle probabilità di verificazione del risultato sperato. Detto diversamente, attraverso il concetto di perdita di chance seria e concreta, che di per sè non sarebbe sufficiente a far ritenere provato il nesso di causa, si riconosce che l'errore medico ha comportato comunque una perdita risarcibile.

Emerge anche come l'intima evanescenza del concetto stesso di danno da perdita di chance (unita all'orientamento a riconoscere il diritto al risarcimento di tale danno sulla base della mera possibilità o speranza) giustifica i timori di chi evidenzia come si vada allargando l'estensione della tutela risarcitoria del danneggiato (Guidi – Serani, infra, 505 ss.; Viazzi, infra, 581 ss.; Lisi, infra, 1092 ss.) oppure di chi proprio mette in discussione il concetto stesso di perdita di chance (per i primi riferimenti, almeno, Pellegrino, infra, 13 ss.). Sotto quest'ultimo profilo si nega che la chance possa essere essa stessa un bene sé stante, posto che viene ad esistenza solo nel momento in cui viene leso e, quindi, non è un bene che “circola”, ponendosi così in contrasto la funzione riparatoria del risarcimento del danno (prima della lesione, il bene non c'era, anche la se la giurisprudenza, come visto, ritiene che invece il bene vi sia); ed ancora, si ritiene che la speranza non costituisca un bene distinto dall'oggetto di essa e non è possibile astrarla.

Insomma, questo danno pone delle questioni delicate, testimoniate proprio dalla difficoltà e dall'attenzione che la giurisprudenza avverte, ad esempio, nella fase della liquidazione, necessariamente equitativa, per evitare l'arbitrarietà.

In effetti, anche riconosciuto ed ammesso tale danno, non si può negare che, rispetto alle regole tradizionali e “rigide” del nesso di causa che sono state “attenuate” per ammettere la risarcibilità di tale danno, sono evidenti i possibili contraccolpi di sistema derivanti dal riconoscimento di un danno ancora evanescente e non pienamente delineato: minor certezza delle posizioni giuridiche; aumento del contenzioso infondata; appesantimento delle regole di accertamento del nesso causale; aumento del rischio di arbitrarietà.

In estrema sintesi, non si può negare che il danno da perdita di chance si riferisce contemporaneamente a due piani concettuali nettamente distinti, ma naturalmente connessi: è criterio di accertamento del nesso causale, ma anche categoria di danno (Foglia, infra, 10466 ss.).

Sul piano metodologico, quindi, un punto sensibile della questione è che si parte dall'incertezza del danno anche a conclusioni “elastiche” sul piano causale, finendo, a ben vedere, per attribuire rilevanza assorbente ai fini dell'an alla sola condotta del medico, erodendo gli altri elementi costitutivi dell'illecito (Viazzi, infra, 583 ss.).

Non dimentichiamo, poi, che sul piano processuale dell'onere della prova, la prova liberatoria del medico, in forza della sussunzione del rapporto paziente-medico-struttura nell'art. 1218 c.c., diventerebbe impossibile, non potendosi dimostrare l'impossibilità di una mera possibilità.

In questo senso vi è una fortissima relazione tra colpa, onere probatorio e nesso di causa, partendo dalla considerazione che in caso di inadempimento il creditore, come noto, ha, l'onere di allegare la colpa e il debitore di dimostrare che adempimento vi fu o che l'inadempimento è dovuto ad impossibilità della prestazione riferibile a cause a lui estranee e non imputabili (in tema di responsabilità della struttura sanitaria per inesatta esecuzione della prestazione medica, il paziente che agisce in giudizio - deducendo l'inesatto adempimento dell'obbligazione sanitaria - deve provare il contratto e allegare l'inadempimento del professionista, che consiste nell'aggravamento della situazione patologica del paziente o nell'insorgenza di nuove patologie per effetto dell'intervento, restando a carico dell'obbligato - sia esso il sanitario o la struttura - la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile: Cass. civ., sez. III, 28 maggio 2004, n. 10297; Cass. civ., 12. settembre 2013, n. 20904).

Tale profilo è ribadito con il ricorso al c.d. inadempimento qualificato, ossia con l'onere per il danneggiato, nell'azione di responsabilità nelle obbligazioni di comportamento, non di qualsivoglia inadempimento, ma di quello che costituisce causa o con-causa efficiente del danno. Si noti, incidentalmente, che la sentenza annotata ha fatto applicazione di tale regola, nella parte in cui ha escluso di poter imputare al convenuto anche la responsabilità per la mancata diagnosi di un aneurisma, pure accertato in c.t.u., perché gli attori non avevano formulato una specifica allegazione.

Al di là di questa ultima osservazione, la dimostrazione processuale della colpa, come allegazione di una condotta colposa idonea a cagionare un danno come quello verificatosi, pare assorbire anche l'ulteriore aspetto della dimostrazione del nesso causale (Pucella, infra, 821 ss.).

Ciò nonostante, rimane un dato certo l'errore medico, che può produrre delle conseguenze negative, rilevanti vuoi a mente dell'art. 2 Cost., vuoi in base al nuovo corso della responsabilità civile sancito dalla famose sentenza di San Martino della Suprema Corte.

Si avverte, così, l'esigenza di sistema di accertare l'esistenza e la risarcibilità del danno da perdita di chance evitando i concetti di mera possibilità a favore di un criterio “più rigoroso” quale quello della probabilità concreta e ragionevole.

La sentenza annotata riprende, quindi, la distinzione tra perdita di chance in senso proprio (ove la condotta colposa del medico ha ridotto con certezza o con ragionevole probabilità la speranza di vita futura del paziente) e danno da mancato raggiungimento del risultato sperato (ove la condotta ha privato il paziente della “mera” possibilità di guarire), collocando il caso concreto nella prima fattispecie. Il danno da mancato raggiungimento del risultato utile deve essere interamente risarcito e il danneggiato deve provare che lo avrebbe conseguito (in base alla regola causale vista); il danno da perdita della mera possibilità può solo commisurarsi alla perdita del vantaggio senza in essa identificarsi, in ragione del grado di probabilità di conseguimento del risultato sperato.

In un'ottica ricostruttiva, a fronte di una discussa ricostruzione della perdita in esame come ”bene giuridico autonomo” si avverte l'esigenza di ricondurre la perdita di chance, nell'ambito della responsabilità medica, ad una nozione di lesione della salute in senso lato, intesa come stato di benessere o qualità della vita non identificabile come danno biologico permanente, ma pur sempre verificabile dal punto di vista medico-legale. La condotta colposa (presupposto indefettibile) incide su una malattia in corso e ne determina un peggioramento, ma è necessario che tale condotta si fondi su un accertamento probabilistico per essere ritenuta “causa” dell'evento finale e foriera di responsabilità risarcitoria (Viazzi, infra, passim).

Ancor di più si è osservato che, in generale in caso di danno tanatologico, i congiunti potrebbero ricevere iure ereditario il risarcimento del danno patito dal danneggiato per perdita di chance (negato quelle tanatologico) e iure proprio quello da lesione del rapporto parentale.

Tuttavia una diversa ricostruzione preferisce porre al centro della questione proprio la lesione del rapporto parentale, considerando gli ulteriori aspetti, nei quali si concretizza la chance, ai fini della personalizzazione della liquidazione del danno in via equitativa (Franzoni, Danno tanatologico, infra, 991 ss.).

L'osservazione (inserendosi nello specifico aspetto della negazione del danno tanatologico espresso da Cass. civ., Sez. Un., 22 luglio 2015, n. 15350) ha il vantaggio di attenuare quelle criticità di sistema che il concetto e la natura di chance portano con sé, sussumendo il problema in un contenitore giuridico più “collaudato”. Tuttavia, il concetto stesso di perdita di chance di sopravvivenza è più ampio di quello della lesione parentale, non lo esaurisce ed, anzi, ne potrebbe prescindere (per assenza di parenti, vuoi fisicamente, vuoi in termini di rapporto affettivo concreto) e la soluzione proposta male si adatterebbe quando non si tratta di danno tanatologico, ma, come nel nostro caso, di perdita della possibilità di guarire o curarsi meglio.

Il rischio di duplicazione risarcitoria rimane comunque presente (Franzoni, La chance, infra, 7 ss), se, a livello descrittivo, non si coordina la liquidazione del danno biologico differenziale e il danno non patrimoniale (da perdita di chance – quale posta diversa dalla salute – e quello morale). Per questa via non si può escludere di operare sul danno biologico operando un'adeguata personalizzazione che tenga conto della concreta perdita subita anche in termini di chance e di quello che comporta, ossia non solo “dell'afflizione” per la sottoposizione ad un intervento più invasivo ed invalidante, ma anche “dell'afflizione” per il tempo tra l'errata diagnosi e l'operazione.

In questo modo si potrebbe giungere ad un compromesso, ricorrendo a figure i cui contorni costitutivi e di liquidazione sono più definiti e condivisi, dunque tranquillizzanti per l'interprete, riconoscendo al contempo al danneggiato la tutela cui ha diritto.

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