Esecuzione di tatuaggi: né attività pericolosa né di natura sanitaria. In attesa di una normativa adeguata
26 Aprile 2016
Massima
Non è applicabile l'art. 2050 c.c. con quanto ne consegue sul piano dell'inversione dell'onere probatorio, poiché l'esecuzione di un tatuaggio, pur caratterizzata dall'uso sottocutaneo di aghi, non presenta di per sé una notevole potenzialità dannosa. Va altresì esclusa la responsabilità di chi materialmente esegue il tatuaggio nonché quella del centro estetico a cui il medesimo si “appoggi”, non essendo configurabile condotta negligente od imprudente dei medesimi ove risultino rispettate le condizioni igieniche ed organizzative imposte dalla normativa secondaria, inclusa la dazione al cliente di una informativa, anche orale, circa i rischi connessi all'attività in questione, obbligazione ben diversa dal rilascio di consenso informato scritto, indispensabile per i trattamenti sanitari e psicologici ex art. 32 Cost.. Il caso
L'attrice ha convenuto in giudizio l'esecutrice materiale del tatuaggio nonché il centro estetico presso cui esso era stato effettuato, al fine di chiedere il risarcimento dei danni biologico e patrimoniale subìti a causa dell'infezione sviluppatasi sul collo del piede, che aveva imposto la rimozione presso un altro Istituto del tatuaggio stesso. Veniva in prima battuta chiesta l'applicazione della disciplina dettata dall'art. 2050 c.c. in tema di attività pericolosa, con ogni conseguenza in tema di presunzione di colpa a carico del danneggiante. In ogni caso, si affermava che non erano state probabilmente rispettate condizioni igienico-sanitarie adeguate né era stata fornita alcuna informazione sulle possibili conseguenze della procedura cui la cliente andava a sottoporsi; a tal fine la medesima richiamava le linee guida del Ministero della Sanità del 1996 e 1998 in materia di attività connessa all'esecuzione di tatuaggi e piercing, nonché la legge della Regione Toscana n. 28 del 31 maggio 2004. Le soluzioni giuridiche
Nella fattispecie in esame il Tribunale di Roma ha ritenuto che l'utilizzo sottocutaneo di aghi per eseguire un tatuaggio, per quanto invasivo, non possa essere considerato avere una spiccata potenzialità lesiva, né tale caratteristica presenta l'attività in sé considerata; tale valutazione deve essere considerata insindacabile alla luce del fatto che è espressamente motivata non solo attraverso la menzione del mezzo usato, ma anche della normativa regolamentare (in assenza di quella primaria), la quale non fa alcun riferimento alla pericolosità intrinseca dell'operazione. Passando, dunque, alla verifica della sussistenza della responsabilità ai sensi della clausola generale ex art. 2043 c.c., il giudice ha escluso che l'esecuzione di un tatuaggio sia qualificabile come attività sanitaria, in assenza di una normativa espressa sul punto ed anzi alla luce delle linee guida del Ministero della Sanità, che si limitano a menzionare “le possibili implicazioni sanitarie” dell'esecuzione di tatuaggi e piercing, facendo ad esse conseguire solo un controllo sulle condizioni igieniche ed organizzative in cui la stessa si svolge. La conseguenza è che non si può applicare al caso in esame la disciplina del consenso informato scritto, indispensabile solo per i trattamenti sanitari. È utile, a questo punto, richiamare brevemente la giurisprudenza della Suprema Corte sul punto (Cass. civ., sez. III, sent., 6 giugno 2014, n. 12830 sul caso della rimozione di un tatuaggio a cui sono seguivano seri esiti cicatriziali), laddove essa distingue tra atto medico necessario (richiamando Cass. civ., sez. III, sent., 9 febbraio 2010, n. 2847) e non necessario. La distinzione serve a delineare l'ampiezza dell'obbligo informativo del medico: «…in presenza di un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito in base alle regole dell'arte, dal quale siano tuttavia derivate conseguenze dannose per la salute, ove tale intervento non sia stato preceduto da un'adeguata informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili, il medico può essere chiamato a risarcire il danno alla salute solo se il paziente dimostri, anche tramite presunzioni, che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l'intervento, non potendo altrimenti ricondursi all'inadempimento dell'obbligo di informazione alcuna rilevanza causale sul danno alla salute» (Cass. n. 2847/2010). Infatti, in tale ipotesi è la necessità dell'intervento chirurgico a precludere la possibilità di qualificare il medesimo contra ius. Nel caso, invece, di un atto medico non necessario come è normalmente la chirurgia estetica, «…un intervento compiuto senza valido consenso perde qualsiasi fonte di legittimazione. Diventa un intervento contra ius, che espone chi lo compie a tutte le conseguenze della sua condotta. Anche se l'intervento fosse compiuto secondo i migliori protocolli terapeutici”(Cass. civ. n. 12830/2014 in motivazione). Proprio per tale motivo il «dovere di informazione è particolarmente pregnante nella chirurgia estetica, perché il medico è tenuto a prospettare in termini di probabilità logica e statistica al paziente la possibilità di conseguire un effettivo miglioramento dell'aspetto fisico, che si ripercuota anche favorevolmente nella vita professionale e in quella di relazione…anche perché soltanto in questo modo il paziente è messo in grado di valutare l'opportunità o meno di sottoporsi all'intervento di chirurgia estetica». Non viene ripetuta la distinzione tra chirurgia plastica estetica e “ricostruttiva” o “ricostitutiva”, nella quale anteriormente si inquadrava la rimozione di un tatuaggio, che comportava un affievolimento dell'obbligo informativo, poiché nel primo caso il sanitario avrebbe dovuto informare il paziente non soltanto sulle cause potenziali di invalidità o di inefficacia delle prestazioni professionali, ma anche sull'inutilità in rapporto al risultato migliorativo sperato, mentre nel secondo caso l'obbligo veniva limitato alla difficoltà di porre rimedio ad uno stato, voluto e provocato dallo stesso cliente ma successivamente ritenuto dallo stesso intollerabile (Cass. civ., sez. III, sent., 8 aprile 1997, n. 3046). Ebbene, poiché l'esecuzione di un tatuaggio non viene qualificata dalla normativa come attività sanitaria, l'obbligo informativo si riduce in sostanza a quello, adempiuto anche in via orale, sulla generica gestione del decorso.
Osservazioni
La pronuncia in commento dimostra l'importanza della valutazione degli elementi concreti da parte del giudice di merito, spettando al medesimo (in assenza di espressa norma di legge) l'accertamento sulla pericolosità dell'attività o dei mezzi usati secondo il criterio della prognosi postuma in base alle circostanze esistenti al momento dell'esercizio dell' attività. Nel caso in esame, tale valutazione è stata compiuta all'esito di istruttoria orale e di consulenza medica. Non risultano pronunce, almeno di legittimità, relative alla responsabilità del tatuatore o del centro presso il quale il tatuaggio venga eseguito, a differenza di quelle in tema di escissione epidermica volta alla sua rimozione con seri esiti cicatriziali (e, dunque, peggiorativi della situazione che si voleva eliminare), qualificata come intervento sanitario estetico. Orbene, se il criterio utilizzato dalla Suprema Corte in quest'ultimo caso è quello del risultato migliorativo (altrimenti il paziente non si sottoporrebbe all'intervento estetico caratterizzato da non necessità), non si comprende perché esso non potrebbe valere anche per l'intervento di tatuaggio e piercing, con quanto ne dovrebbe conseguire in termini di consenso informato scritto di contenuto ben definito. In altre parole, se unico scopo di chi si faccia tatuare un disegno è quello di ricevere un beneficio estetico, non si vede perché si dovrebbe escludere che, messo a conoscenza di una possibile infezione o altra seria conseguenza, decida di rinunciarvi. Occorre tuttavia una normativa espressa al riguardo. |