Tempi duri per la prescrizione estintiva
28 Agosto 2015
Massima
Il dies a quo della decorrenza della prescrizione del diritto al risarcimento del danno alla salute non univocamente riconducibile, da un punto di vista soggettivo, ad un preciso comportamento colposo o doloso di un terzo — come nel caso di grave stato ansioso/depressivo —, deve essere individuato con riferimento al momento in cui tale danno viene esteriorizzato in modo oggettivo, non solo quale lesione alla propria integrità psicofisica, ma anche sotto il profilo della riferibilità causale al comportamento del terzo Il caso
Un dipendente della pubblica amministrazione subisce (nel 1984) una denuncia penale rivelatasi successivamente infondata. Egli assume di aver subito per questo un danno alla salute costituito dall'insorgenza di un grave stato ansioso-depressivo e, perciò, agisce nei confronti dell'amministrazione (nel 1999) per il risarcimento del danno. L'amministrazione eccepisce la prescrizione e l'eccezione è accolta in primo e secondo grado. La Corte di Cassazione conferma la decisione. La questione
In caso di malattia dovuta alla condotta aquiliana di un terzo, come si individua il «giorno in cui il diritto può essere fatto valere», cui si riferisce l'art. 2935 c.c., dettato in tema di decorrenza della prescrizione? Le soluzioni giuridiche
La Corte di Cassazione, nella sentenza in commento, richiamato il principio formulato dalle Sezioni Unite, di cui si parlerà tra breve, in tema di decorrenza del termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno per l'insorgenza di malattie lungo-latenti, ha affermato che la malattia ansioso-depressiva non sarebbe riconducibile, da un punto di vista soggettivo, ad un preciso comportamento colposo o doloso di un terzo, sicché occorrerebbe in proposito applicare, per l'appunto, la regola elaborata dalle Sezioni Unite secondo cui il termine a quo per la prescrizione «deve essere individuato con riferimento al momento in cui tale danno viene esteriorizzato in modo oggettivo, non solo quale lesione alla propria integrità psicofisica, ma anche sotto il profilo della riferibilità causale al comportamento del terzo». Dopodiché la Suprema Corte ha proseguito osservando che, nel caso di specie, a tutto voler concedere, il danneggiato aveva acquisito consapevolezza della rapportabilità causale della malattia alla precedente denuncia infondata al più tardi nella data in cui, nel 1992, si era attivato per chiedere all'amministrazione l'indennizzo previsto per l'infermità dipendente da causa di servizio e, con distinto atto, il risarcimento del danno. In seguito il danneggiato era rimasto inerte fino al 1999, sicché il diritto si era prescritto, senza che il corso della prescrizione potesse dirsi interrotto da una domanda, differente sia per causa petendi che per petitum, rivolta al Tar. Osservazioni
La disciplina della prescrizione deve comporre ed armonizzare due interessi di segno contrapposto. Per un verso, l'istituto della prescrizione risponde ad un'essenziale esigenza di certezza delle situazioni giuridiche: e risponde a tale esigenza, noi sappiamo, facendo sì che i diritti non esercitati per un certo tempo si estinguano. La prescrizione, cioè, opera sul piano del diritto sostanziale. Ma con ricadute ovvie anche sul processo, destinato a concludersi con una pronuncia sulla questione pregiudiziale, il che soddisfa altresì un'esigenza anch'essa di rilievo pubblicistico, quella di porre fine alle liti, che è riassunta in un antico brocardo sovente rammentato nelle pronunce di common law, ove il limitation law, ossia l'istituto assimilabile alla prescrizione, opera per l'appunto sul piano del processo: «Interest rei publicae ut sit finis litium». Dall'altro canto la prescrizione presenta un intrinseco tratto di ingiustizia: per l'ovvia ragione che cancella, travolge il diritto dal mondo giuridico. Di qui l'appellativo tradizionalmente riservato alla prescrizione quale impium praesidium o impium remedium. Il carattere empio del rimedio è riassunto nell'asciutta affermazione di un celebre canonista dell'11º secolo, che lo definisce «contra ius naturale et contra aequitatem» (Stefano Tornacense). E proprio l'ordinamento canonico continua a testimoniare il tratto di disvalore che avvolge la prescrizione, giacché in esso la prescrizione non opera se non c'è buona fede «Nulla valet praescriptio, nisi bona fide nitatur» (canone 198). Ma la stessa indicazione può trarsi dall'art. 2940 c.c., il quale stabilisce che: «non è ammessa la ripetizione di ciò che è stato spontaneamente pagato in adempimento di un debito prescritto»; in questa ipotesi, infatti, la posizione del creditore è preferita perché sarebbe palesemente ingiusto consentire al debitore di ottenere la restituzione di quanto pagato attraverso l'azione di ripetizione di indebito di cui all'art. 2033 c.c.. Dunque l'art. 2940 c.c. ci dice, in fondo, che non è giusto che il debitore non paghi solo perché il tempo è passato. Perciò la disciplina del prescrizione deve saper trovare il giusto punto di equilibrio tra le due contrapposte esigenze menzionate: quella alla certezza; quella al contenimento del carattere di iniquità che l'applicazione della prescrizione può comportare. L'ago della bilancia che segnala la posizione di equilibrio tra le esigenze di certezza e di equità ha soprattutto a che vedere con l'art. 2935 c.c., il quale stabilisce che: «La prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere». Anche qui c'è un vecchio noto brocardo da ricordare: «contra non valentem agere non currit praescriptio». Ma qual è il «giorno in cui il diritto può essere fatto valere»? La nostra giurisprudenza è (apparentemente) monolitica nel ripetere che il corso della prescrizione è precluso esclusivamente da impedimenti di diritto e non da meri impedimenti di fatto (da ult. Cass. civ., sez. VI-L, ord., 7 marzo 2012, n. 3584; Cass. civ., sez. III, sent., 6 ottobre 2014, n. 21026). Il culmine di quest'indirizzo, in particolare, si manifesta in quelle molte massime secondo cui anche la non ancora intervenuta dichiarazione di incostituzionalità di una norma è un mero impedimento di fatto (Cass. civ., Sez. III, sent., 19 maggio 2000 n. 6486; Cass. civ., Sez. III, sent.,15 marzo 2001 n. 3796; Cass. civ., Sez. III, sent.,16 luglio 2003 n. 11113; Cass. civ., Sez. III, sent., 16 luglio 2004 n. 13168). È possibile una soluzione diversa? Qui vorrei ricordare Lord Denning, forse il più celebre giudice del novecento. In un caso che aveva per oggetto l'azione risarcitoria intentata da un gruppo di minatori che soffrivano di malattie polmonari (silicosi) dovute all'inalazione di polveri si trova contenuto questo passaggio: «si presume che una persona abbia l'effettiva conoscenza nel momento in cui sarebbe ragionevole attendersi che essa esponga i fatti ad un legale, venendo da questi informato di avere una worthwhile cause of action. Da questo momento comincia a decorrere il termine di prescrizione. Ma, se qualche valida circostanza gli impedisca di recarsi da un legale, il termine prescrizionale va esteso fino a quando questa circostanza non venga rimossa» (Court of Appeal 20 dicembre 1973, in Foro it., 1975, IV, 130). Ora, per alcuni aspetti il diritto inglese è incredibilmente rudimentale, basti pensare che il common law non ha (e non potrebbe avere) una disciplina generale del contratto; ma per altri aspetti è difficile negare che il pragmatismo della giurisprudenza inglese appaia sovente di gran lunga preferibile all'impermeabile formalismo di certe nostre soluzioni. Anche presso di noi la regola secondo cui il corso della prescrizione è impedito esclusivamente da impedimenti di diritto sembra in qualche caso vacillare. Si allude, evidentemente, alla regola affermata dalla Suprema Corte secondo cui il termine di prescrizione del diritto al risarcimento di chi assume di aver contratto per contagio a seguito di trasfusione una malattia per fatto doloso o colposo o di un terzo decorre, a norma degli artt. 2935 e 2947, comma 1, c.c., non dal giorno in cui il terzo determina la modificazione che produce il danno altrui (il giorno dell'eseguita trasfusione) né dal momento in cui la malattia si manifesta all'esterno (il giorno in cui si sono rilevati i primi sintomi della malattia), ma dal momento in cui viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l'ordinaria oggettiva diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche (Cass. civ., S.U., sent., 11 gennaio 2008, n. 583, ed altre pronunciate in pari data). Il danneggiato, insomma, deve essere messo in condizione di percepire l'ingiustizia del danno, il nesso di causalità, la riconducibilità alla responsabilità di un terzo: solo quando sia in possesso di questa piena consapevolezza egli può effettivamente decidere di far valere in giudizio il proprio diritto al risarcimento del danno. Diviene così decisivo il parametro della «rapportabilità causale»: quest'oggi è l'espressione chiave attraverso cui individuare il «giorno in cui il diritto può essere fatto valere». Ai fini del decorso del termine di prescrizione, quindi, non basta la conoscenza o conoscibilità del danno, ma occorre la conoscenza o conoscibilità della causa del danno: per questa via (sulla scia della dottrina: Monateri, La prescrizione e la sua decorrenza dal fatto: una sentenza da elogiare, in Danno e responsabilità, 2004, 389) si finisce per dare rilievo alla condizione soggettiva del danneggiato, per quanto questi non fosse in grado di cogliere l'evento lesivo in tutti gli aspetti della fattispecie. Non sembra dunque potersi dubitare che, con questa decisione la Cassazione, pur senza prendere espressamente posizione sulla questione generale del rilievo degli impedimenti di fatto, abbia in definitiva riconosciuto che un impedimento di fatto, qual è l'ignoranza delle cause della malattia, impedisce il corso della prescrizione: impedisce, cioè, che il diritto, per gli effetti dell'articolo 2935 c.c., possa essere fatto valere. Certo, il carattere di impium remedium sembra infine qui prevalere, sebbene l'esigenza di porre fine alle liti non sembrerebbe essere propriamente una bazzecola. Ma tant'è: e, nello scrutinare la posizione di chi abbia contratto l'AIDS o l'epatite C a causa di una trasfusione, è difficile se non impossibile non stare con il danneggiato: che, d'altro canto, all'epoca in cui il fenomeno ha avuto la sua massima diffusione, effettivamente non aveva modo, in mancanza di adeguate conoscenze scientifiche in materia, di avvedersi della rapportabilità causale della malattia alla trasfusione. Dunque l'indirizzo delle Sezioni Unite è giusto e lungimirante. Il caso esaminato dalla Suprema Corte nella sentenza in commento è però profondamente diverso. Qui si discorre di un grave stato ansioso-depressivo provocato da una denuncia penale infondata. La cosa è allora per la verità alquanto sorprendente. Abbiamo in questo caso un soggetto, il pubblico dipendente, che subisce, a suo dire, una prava denuncia penale, che — è da credere — egli vive come una brutale ingiustizia, di modo che subentra in lui depressione ed ansia. Ma davvero si può allora credere che in un frangente del genere la consapevolezza della rapportabilità causale subentri, giù di lì, soltanto quando lo psichiatra o lo psicologo abbia spiegato al danneggiato che il suo stato ansioso-depressivo è una conseguenza dell'ingiustizia subita? Il pover'uomo afflitto dalla sindrome ansioso-depressiva che cosa aveva supposto, fino a quel momento, che la malattia fosse stata provocata dal malocchio di una fattucchiera o dall'influenza dei raggi gamma al largo dei bastioni di Orione? L'applicazione del giusto principio formatosi in materia di malattie lungo-latenti alla vicenda in esame non ha infine prodotto conseguenze sull'esito della domanda proposta, che, del resto, superato lo scoglio della prescrizione, avrebbe presumibilmente avuto esito negativo, avuto riguardo al rilievo che, secondo il pressoché granitico orientamento della Suprema Corte, la denuncia di un reato perseguibile d'ufficio non è fonte di responsabilità per danni a carico del denunciante, ai sensi dell'art. 2043 c.c., anche in caso di proscioglimento o di assoluzione, se non quando essa possa considerarsi calunniosa (tra le tante di recente Cass. civ., sez. III, Sent., 26 gennaio 2010, n. 1542). E tuttavia non mancherà in futuro chi invocherà il principio per reclamare il risarcimento del danno cagionato dall'insorgenza di una malattia ansioso-depressiva, quantunque ormai prescritto. |