La causalità civile applicata all’attività del medico dentista

Renato Fedeli
30 Novembre 2015

In tema di causalità commissiva tra atto medico e danno al paziente i principi sono i seguenti: a) il nesso eziologico va accertato col criterio della “causalità adeguata”; b) causalità adeguata vi è ogni volta che sia «ragionevole ritenere che la condotta del medico abbia causato il danno»; c) è ragionevole ritenere che la condotta del medico abbia causato il danno quando vi sia in tal senso anche solo una mera probabilità scientifica, corroborata però da ulteriori elementi oggettivi.
Massima

In tema di causalità commissiva tra atto medico e danno al paziente i principi sono i seguenti:

  • il nesso eziologico va accertato col criterio della “causalità adeguata”;
  • causalità adeguata vi è ogni volta che sia «ragionevole ritenere che la condotta del medico abbia causato il danno»;
  • è ragionevole ritenere che la condotta del medico abbia causato il danno quando vi sia in tal senso anche solo una mera probabilità scientifica, corroborata però da ulteriori elementi oggettivi.

In difetto di prova sulla rilevanza causale dell'intervento rispetto alla lesione lamentata, sulla riconducibilità dal punto di vista causale della lesione alla non congruità dell'intervento (rectius, se la stessa sia una complicazione normale e probabile anche nel caso di intervento eseguito secondo diligenza prudenza e perizia del settore di riferimento) deve escludersi qualsivoglia risarcimento del danno a favore di parte attrice.

Il caso

Una donna cita in giudizio due dentisti ai quali si era rivolta nel 2007-2008 per ottenere il risarcimento dei danni subiti in conseguenza di una serie composita di interventi odontoiatrici, eseguiti, appunto, in detto periodo da due dentisti che operano nella medesima struttura.

La domanda ha per oggetto l'accertamento della responsabilità dei due medici, la risoluzione del contratto con conseguente restituzione del corrispettivo e il risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali.

La prestazione sanitaria nasce a seguito di semplice controllo eseguito dalla paziente, che si reca presso il suo dentista di fiducia per eseguire un trattamento di pulizia dei denti.

Secondo le allegazioni contenute in citazione, uno dei professionisti convenuti suggerisce alla paziente di procedere alla sostituzione di vecchi ponti dentari, con applicazione di impianti all'avanguardia mediante innesto di osso artificiale, ma poi, a seguito di errato inserimento di una vite nel seno mascellare, fa sorgere una comunicazione oro-antrale nella arcata superiore destra, ossia una cavità che collegava direttamente naso e bocca.

I successivi interventi peggiorano la situazione, nonostante vengano posti in essere per rimediare alle lesioni procurate all'attrice dai due medici, ciascuno intervenuto in diverse fasi delle cure.

Entrambi i medici si costituiscono: il primo negando di essere materialmente intervenuto sulla paziente, il secondo deducendo che la paziente si era presentata totalmente priva di denti nell'arcata superiore destra, non per la sostituzione di vecchi ponti.

Entrambi i professionisti chiamano in garanzia le proprie Compagnie assicuratrici.

Le questioni

La sentenza affronta il tema della responsabilità del professionista medico, alla luce degli ormai acquisiti arresti giurisprudenziali in argomento, aggiornati con la Legge Balduzzi, con particolare riferimento alla questione del nesso causale in materia di condotte mediche.

In particolare, sotto il profilo della Legge Balduzzi, il Tribunale prende posizione sul noto dibattito relativo al ritorno, con il predetto intervento legislativo, alla natura extracontrattuale della responsabilità del professionista sanitario, con riferimento a una fattispecie in cui viene allegato e provato un rapporto contrattuale diretto tra professionisti e paziente.

Anche la questione dell'onere probatorio in tema di responsabilità medica viene affrontata con richiamo dell'ampia giurisprudenza in argomento.

Elemento centrale della sentenza appare senza dubbio la disamina dei principi in tema di causalità commissiva medica, applicati ad una fattispecie nella quale, sulla base della c.t.u. espletata in corso di causa, l'ausiliario non ravvisa alcuna incongruenza nell'atto medico e quindi alcun pregiudizio risarcibile in capo alla paziente.

Le soluzioni giuridiche

La responsabilità del medico con il quale il paziente conclude un contratto di prestazioni professionali deve essere valutata ai sensi dell'art. 1218 c.c. e ha, pertanto, natura contrattuale, potendo naturalmente sempre concorrere con quella extracontrattuale.

La Legge Balduzzi non ha innovato la consolidata teoria, di fonte giurisprudenziale, della responsabilità “da contatto sociale”, a maggior ragione nelle fattispecie, come quella esaminata dal giudice bustocco, in cui il paziente si rivolge direttamente al professionista, concludendo, pertanto, un contratto d'opera professionale.

Quanto sopra, in piena sintonia con il noto precedente del Tribunale di Milano, richiamato dalla sentenza in commento (Trib. Milano, sez. I civ., 17 luglio 2014), secondo il quale la responsabilità del medico che conclude con un paziente un contratto di prestazione d'opera resta pacificamente di natura contrattuale.

Quanto all'onere della prova, la sentenza ribadisce gli arresti delle Sezioni Unite (Cass., 10 gennaio 2008, n. 577), secondo i quali il paziente non è tenuto a provare la colpa del medico e la relativa gravità, essendo invece quest'ultimo a dover dimostrare che inadempimento non vi è stato o che, se vi è stato, non è eziologicamente rilevante.

Pertanto, provati dal paziente danneggiato esistenza e contenuto del contratto, se alla prestazione dell'attività non segua il risultato normalmente ottenibile in relazione alle circostanze concrete del caso, incombe al medico dare la prova del verificarsi di un evento imprevedibile e non superabile con l'adeguata diligenza.

Il giudice bustocco, inoltre, ribadisce il superamento della tradizionale distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato.

Con una importante precisazione, il Tribunale ricorda che, come corollario ai principi sopra menzionati, è in re ipsa che, se la condotta del medico è professionalmente adeguata, non può essere dannosa, vale a dire non può comportare, di per sé, l'aggravamento della patologia o l'insorgenza di una patologia ulteriore.

Venendo, infine, al profilo più rilevante della sentenza, il Tribunale menziona il principio, applicabile in sede civile, del «più probabile che non» (Cass. civ., sez. III, 15 settembre 2008, n. 23676), secondo cui il nesso causale in ambito civilistico consiste nella relazione probabilistica concreta tra comportamento ed evento dannoso, secondo il predetto criterio, diverso da quello dell'alto grado di probabilità logica e di credenza razionale.

Opportunamente, la sentenza in commento distingue tra causalità materiale e causalità giuridica, con indicazione di quest'ultima come il criterio che il giudice deve utilizzare nell'accertamento della responsabilità.

Infatti, sussiste il nesso causale tra condotta umana ed evento, rilevanti ai fini dell'accertamento della responsabilità, quando:

  1. la condotta abbia costituito antecedente necessario dell'evento, nel senso che questo rientri tra le condizioni “normali” del fatto;
  2. l'antecedente non sia escluso dalla sopravvenienza di un fatto idoneo a determinare l'evento.

Per tale accertamento, quindi, non è necessaria la dimostrazione di un rapporto di consequenzialità necessaria tra la condotta e l'evento di danno, ma è sufficiente un rapporto di probabilità scientifica.

Vi è quindi causalità adeguata, criterio con il quale va accertato il nesso causale tra condotta del medico ed evento dannoso, quando vi sia un rapporto di probabilità scientifica tra la condotta e l'evento di danno, purché supportata da elementi oggettivi.

Per calare i predetti principi nella fattispecie oggetto della controversia portata all'esame dell'autorità giudiziaria, la sentenza in commento si avvale naturalmente delle risultanze delle indagini peritali, dalle quali non era emerso che l'intervento dei medici avesse, secondo criteri di probabilità scientifica, causato le lesioni dedotte da parte attrice.

Per il vero, il giudice richiama anche la categoria, dai contorni incerti, della complicanza, affermando che le lesioni procurate rientrerebbero in tale categoria, posto che dai documenti clinici risultava che i medici avessero seguito il “protocollo classico” e che le conseguenze riscontrate sull'attrice potessero conseguire anche a un intervento correttamente eseguito.

In tema di “complicanze”, merita di essere qui ricordato un recentissimo arresto della giurisprudenza di legittimità, secondo il quale al medico convenuto in un giudizio di responsabilità non basta, per superare la presunzione posta a suo carico dall'art. 1218 c.c., dimostrare che l'evento dannoso per il paziente rientri astrattamente nel novero di quelle che nel lessico clinico vengono chiamate "complicanze", rilevate dalla statistica sanitaria (Cass. civ., sez. III, 30 giugno 2015, n. 13328).

Secondo la predetta pronuncia il concetto di complicanza nel campo giuridico è «inutile».

Infatti, «quando, infatti, nel corso dell'esecuzione di un intervento o dopo la conclusione di esso si verifichi un peggioramento delle condizioni del paziente, delle due l'una:

  • o tale peggioramento era prevedibile ed evitabile, ed in tal caso esso va ascritto a colpa del medico, a nulla rilevando che la statistica clinica lo annoveri in linea teorica tra le complicanze;
  • ovvero tale peggioramento non era prevedibile oppure non era evitabile: ed in tal caso esso integra gli estremi della "causa non imputabile" di cui all'art. 1218 c.c., a nulla rilevando che la statistica clinica non lo annoveri in linea teorica tra le complicanze» (Cass. civ., sez. III, 30 giugno 2015, n. 13328).

Al diritto interessa se l'evento dannoso non voluto dal medico integri gli estremi della “causa non imputabile”, ma tale accertamento va compiuto in concreto e non in astratto.

Questi gli insegnamenti della Suprema Corte, addirittura successivi alla sentenza in commento, che il giudice bustocco ha correttamente applicato, posto che la disamina del caso concreto ha portato il giudice ad affermare che in difetto di prova sulla rilevanza causale dell'intervento rispetto alla lesione lamentata, se la lesione è complicanza normale e probabile, anche nel caso di intervento eseguito secondo diligenza, prudenza e perizia, si deve escludere qualsivoglia risarcimento a favore del paziente.

Nel caso esaminato, il Tribunale di Busto esclude anche in astratto la possibilità di un giudizio di condanna sulla base di un nesso causale presunto, posto che non risulta accertato se il professionista ha posto in essere un antecedente causalmente rilevante.

Osservazioni

La sentenza costituisce la summa theologica dei principi in tema di responsabilità medica, tutti approfonditamente valutati e applicati al caso concreto.

Ancora una volta si deve osservare che la responsabilità medica è materia in cui appare centrale il ruolo dell'ausiliario del giudice, che necessariamente condiziona il giudizio sulla esistenza di profili colposi in capo ai sanitari.

Tale particolarità consente di rendere più sfumata la distinzione tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, quanto meno sotto il profilo della prova.

Come ricorda il Tribunale, è in re ipsa che, se la condotta del medico è professionalmente adeguata, non può essere dannosa, vale a dire non può comportare, di per sé, l'aggravamento della patologia o l'insorgenza di una patologia ulteriore.

Nessun automatismo, quindi, tra le condizioni del paziente che si sottopone alle cure mediche e il peggioramento oggettivamente rilevabile a seguito del predetto trattamento: il giudice è sempre tenuto, ferma la distribuzione degli oneri probatori come ben delineati dal giudice bustocco, a carico del paziente e del medico, ad entrare nel merito del nesso causale tra le condotte e le lesioni lamentate e valutare la condotta del medico o della struttura.

Nel sottosistema della responsabilità medica, pertanto, l'inadempimento del professionista o della struttura alle obbligazioni nascenti dal contatto sociale o dal contratto di prestazione d'opera professionale coincide inevitabilmente con l'accertamento della colpa, omissiva o commissiva, mentre, specularmente, l'accertamento positivo dell'adempimento corrisponde all'insussistenza di profili colposi.

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