Imposta di registro: non è possibile riqualificare come cessione di ramo il conferimento di azienda

Fabio Gallio
02 Febbraio 2017

Ai fini dell'imposta di registro, non è possibile per l'Ufficio riqualificare come cessione di ramo d'azienda un'operazione che prevede il conferimento di azienda e la successiva cessione delle partecipazioni detenute nella conferitaria.
Massima

L'Agenzia delle Entrate non può richiedere ai contribuenti un'imposta di registro diversa da quella applicata agli atti, facendo riferimento agli effetti economici delle operazioni, anziché alla loro natura giuridica.

Infatti, l'art. 20 del d.P.R. n. 131/1986 può essere esclusivamente inteso come norma di interpretazione, secondo le regole ermeneutiche ordinarie, degli atti in base ai loro effetti giuridici e, dunque, come norma che di per sè non consente di effettuare analisi e valutazioni tipiche della disciplina antiabuso. In altri termini, la sua funzione di norma sarebbe volta esclusivamente a cogliere l'effettiva natura giuridica degli atti al di là del “nomen iuris” utilizzato dalle parti.

Il caso

La CTR Toscana, con sentenza dell'8 novembre 2016, n. 1950, ha esaminato l'appello presentato dall'Agenzia delle Entrate di Firenze, la quale ha contestato ai fini dell'imposta di registro un'operazione di conferimento di ramo d'azienda in una società di nuova costituzione con successiva cessione totalitaria delle partecipazioni detenute nella conferitaria.

In particolare, l'Ufficio ha tassato delle operazioni, considerate unitarie, di costituzione della nuova società, di conferimento di ramo di azienda e di cessione dell'intero capitale, come un atto di cessione di ramo d'azienda, con conseguente liquidazione dell'imposta di registro su base proporzionale, anziché fissa. Alla base della rettifica, l'Agenzia delle Entrate ha eccepito di dover tener conto, ai sensi dell'art. 20 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (in base al quale occorre avere riguardo alla intrinseca natura e agli effetti giuridici degli atti, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente), della natura intrinseca dell'operazione, consistente in una cessione d'azienda, come tale tassabile con imposta proporzionale.

A seguito di ricorso proposto dalla parte contribuente, la CTP di Firenze, ha dichiarato nullo l'avviso di liquidazione, sostenendo che il potere di riqualificazione consentito dall'art. 20 citato deve intendersi come limitato all'individuazione della sostanza giuridica dell'atto sottoposto a registrazione e non consente "la riqualificazione unitaria degli effetti economici di una serie concatenata di atti, poiché l'imposta di registro si applica atto per atto, senza che possano assumere rilievo elementi estranei e, tanto meno, la volontà delle parti".

L'Agenzia delle Entrate di Firenze ha proposto appello contro tale pronuncia, lamentando, in sintesi, che il primo giudice avesse disatteso la giurisprudenza della Corte di Cassazione, secondo la quale l'Amministrazione ha il potere, ai fini dell'applicazione dell'imposta di registro, "di dare rilievo preminente alla causa reale e alla regolazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti, anche se mediante una pluralità di pattuizioni non contestuali".

Costituitesi in giudizio, parte contribuente ha contrastato la tesi avversaria, sostenendo, fra l'altro, che l'art. 20, di cui si tratta, consente, in armonia con tutto il sistema impositivo del registro, di dare rilevanza agli effetti giuridici finali degli atti, non già a quelli economici finali: sulla base della norma di cui all'art. 20 l'Amministrazione dovrebbe limitarsi alla riqualificazione giuridica dell'atto senza poter attribuire rilievo alle vicende economiche eventualmente sottese al medesimo o a qualunque altro elemento che sia esterno rispetto all'atto registrato.

In ogni caso, secondo la difesa della parte convenuta in appello, non è possibile, in alcun modo, ravvisare nella cessione totalitaria di quote un atto avente l'effetto giuridico finale del trasferimento oneroso di azienda, considerato che la relativa disciplina civilistica e fiscale delle due operazioni è completamente diversa. Conseguentemente, la scelta delle parti di optare per una delle possibili fattispecie negoziali, invece che per un'altra, non può dipendere solo da una valutazione (del tutto legittima, in via di principio) del possibile risparmio fiscale, ma anche dalla profonda diversità degli effetti giuridici civilistici delle due fattispecie (ciò che naturalmente dà corpo a quelle che, nell'ambito della normativa antielusiva, vengono denominare "valide ragioni economiche"). Ciò troverebbe conferma nel fatto che lo stesso legislatore non abbia previsto, per le cessioni totalitarie di quote sociali, un trattamento, in sede di registro, diverso rispetto all'ipotesi di negoziazione di quote sociali non totalitarie; inoltre il regime fiscale delle imposte dirette prevede addirittura una preferenza fiscale per l'ipotesi di conferimento d'azienda - cessione di quote rispetto a quella della cessione d'azienda (artt. 176 e 87 del TUIR).

I giudici di secondo grado toscani hanno respinto l'appello dell'Agenzia delle Entrate, sostenendo che le conseguenze giuridiche dell'atto di cessione delle quote sono ben diverse da quelle di un'ipotetica cessione di azienda, in quanto il soggetto cessionario non è divenuto, per effetto dell'atto in questione, titolare dell'azienda stessa, ma solo socio del soggetto titolare, con profondissime differenze giuridiche rispetto all'atra ipotesi.

Pertanto, non è possibile riqualificare l'operazione come cessione di azienda, dal momento che la disposizione dettata dall'art. 20 in esame si riferisce espressamente agli effetti giuridici degli atti e non a quelli economici.

La questione

L'Agenzia delle Entrate, anche a causa di alcuni arresti giurisprudenziali da parte della Corte di Cassazione, è solita effettuare degli accertamenti per l'imposta di registro, eccependo che il conferimento di un'azienda in una società e la successiva cessione delle partecipazioni può essere qualificabile come una semplice cessione di azienda. Tale eccezione, che presuppone evidentemente che lo strumento societario venga considerato come totalmente inesistente ai fini dell'inquadramento tributario dell'operazione, viene effettuata in forza della nota disposizione (art. 20 del TUIR) che consentirebbe agli Uffici tributari di “reinterpretare” gli atti dei contribuenti tassandoli in base alla loro “intrinseca natura” ed agli “effetti giuridici”, al di là della loro “forma apparente”.

Ciò è accaduto anche nel caso esaminato dalla Commissione Tributaria Regionale della Toscana, in commento. Infatti, nell'esposizione dei fatti, viene evidenziato come l'Ufficio, per giustificare le sue contestazioni, si sia appellato a quanto sancito dalla Corte di Cassazione.

A questo punto, va ricordato che, secondo alcune recenti sentenze dei giudici di legittimità, sarebbe possibile riqualificare l'operazione di conferimento di azienda con successiva cessione delle partecipazioni come cessione di azienda, applicando l'art. 20 del d.P.R. n. 131/1986, rubricato “interpretazione degli atti”, al quale, non verrebbe più attribuita una funzione esclusivamente antielusiva, ma quella di individuare il fatto realmente imponibile connesso con l'atto sottoposto a registrazione.

In particolare, la Suprema Corte, con la sentenza del 18 maggio 2016, n. 10216, avrebbe sancito che, nella normativa dell'imposta di registro, vigerebbe il principio interpretativo di cui all'art. 20 testè citato, secondo cui: "L'imposta è applicata secondo l'intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente".

In altri termini, i giudici di legittimità considererebbero: “…preminente la causa reale e la regolamentazione degli interessi effettivamente perseguita dai contraenti, seppure mediante una pluralità di pattuizioni non contestuali o di singole operazioni, non rivelandosi decisiva, in ipotesi di negozi collegati, la rispettiva differenza di oggetto” (dello stesso avviso, tra le più recenti, le sentenze Cass. civ. n. 9582 del 11 maggio 2016, e n. 8542 del 29 aprile 2016).

Tale tesi, però, non è condivisa, oltre che dalla prevalente giurisprudenza di merito, come nel caso della Commissione Regionale della Toscana in commento, anche dalla quasi unanime dottrina.

In particolare, in primis, viene sostenuto che siffatte operazioni non sarebbero idonee a produrre un effetto giuridico identico e unitario a quello che si sarebbe ottenuto nel caso del trasferimento diretto del ramo d'azienda (così CTR Lombardia, 8 giugno 2015, n. 2481; dello stesso avviso CTR Lombardia 13 aprile 2015, n. 1453, 8 marzo 2013 n. 25; 5 dicembre 2012, n. 150; 16 ottobre 2012, n. 124; 23 luglio 2012, n. 103; CTP Brescia 27 giugno 2013, n. 81 e CTP Milano 11 febbraio 2011, n. 42).

Inoltre, viene fatto presente come l'Amministrazione finanziaria debba far riferimento all'imposta di registro come ad un'imposta d'atto che colpisce, unicamente, l'atto sottoposto a registrazione e non il trasferimento ad esso sottostante.

Infine, viene sottolineato come il nuovo art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente sarebbe destinato a limitare l'ambito operativo delle altre norme tributarie in materia di interpretazione dei fatti, dei comportamenti e delle vicende negoziali, compresa quella recata dall'art. 20 del T.U.R. (così Pischetola A., Con il nuovo abuso del diritto possibile una rilettura della norma sull'interpretazione degli atti, in “Il fisco” n. 25/2016).

Le soluzioni giuridiche

Sulla base di tali argomentazioni, la CTR Toscana, con la sentenza in commento, attribuisce all'art. 20 un ruolo meramente interpretativo rispetto al singolo atto portato a registrazione, il quale non può essere utilizzato per riconoscere una possibile valenza economica.

Tali conclusioni sono coerenti con il fatto che l'anzidetta disposizione è innovativa rispetto alla precedente norma contenuta nell'art. 8 R.D. n. 3269/1923 che faceva generico riferimento agli "effetti" degli atti ai fini della loro interpretazione, in quanto ha introdotto il concetto di "effetti giuridici" distinguendo quindi quest'ultimi dagli "effetti economici" dell'atto.

Infatti, pur condividendo il “ritrovato” ruolo di norma interpretativa dell'articolo in questione, si ritiene che esso non legittimi le riqualificazioni costruite sugli “effetti economici”.

Recente giurisprudenza di merito ha preso una posizione netta in materia, evidenziando la necessità:

di evitare l'equivoco ,…., di confondere gli effetti giuridici dell'atto, o degli atti collegati, presentati alla registrazione, con gli effetti economici dell'operazione, ossia di confondere la sostanza giuridica con quella economica”. Tale giurisprudenza prosegue affermando che è stato più volte segnalato in dottrina come, inserendo nell'art 19 del d.P.R. n. 634/1972, e quindi nell'art. 20 del d.P.R. n. 131/1986, l'aggettivo “giuridici” accanto al sostantivo “effettivi”, il legislatore ha chiaramente inteso respingere la tesi dell'interpretazione economica degli atti (cfr. CTR Milano, 27 giugno 2014 n. 3466).

Pertanto, in assenza di una specifica norma tributaria che disponga diversamente, gli effetti giuridici non possono che essere quelli "civilistici"; quindi l'ufficio, nel ricostruire la reale natura giuridica dell'atto, non può andare oltre la qualificazione civilistica e degli effetti giuridici desumibili da un'interpretazione complessiva del medesimo.

In questo senso l'art. 20 citato si colloca in linea con i principi costituzionali della riserva di legge nell'individuazione del presupposto impositivo (art. 23 Cost.), della tutela dell'iniziativa economica privata (art. 41 Cost.) e della corretta interpretazione del principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.).

Si delinea quindi, una notevole differenza tra l'interpretazione di un contratto in ragione degli effetti giuridici che ne scaturiscono, a norma dell'art. 20 del d.P.R. n. 131/1986, e la valutazione di più negozi giuridici nella prospettiva del collegamento negoziale (BEGHIN M., Elusione fiscale e imposta di registro tra interpretazione dei contratti e collegamento negoziale – il commento, in “Corriere Tributario” n. 1/2016).

Pertanto, salvo le ipotesi tassativamente previste negli artt. 21 e 22 d.P.R. n. 131/1986 , non è possibile creare collegamenti tra diversi negozi giuridici, interpretando gli atti “extra-testualmente”.

In altre parole, l'art. 20 non può essere utilizzato dall'Amministrazione finanziaria o dal giudice, per svolgere un'operazione interpretativa complessiva della condotta del contribuente, allo scopo di operare collegamenti tra fattispecie negoziali ciascuna con specifiche individualità e finalità giuridiche.

Ciò sarebbe confermato dall'introduzione dell'art. 10-bis dello Statuto dei diritti del contribuente da parte del D.Lgs. n. 128/2015, con la contestuale abrogazione dell'art. 37-bis del d.P.R. n. 600/1973.

Infatti, con tali modifiche normative, l'intento del Legislatore è stato quello di fornire una novella che permetta una valutazione complessiva ed unitaria dei possibili fenomeni “abusivi/elusivi”, con riferimento a tutti i tributi, compresa l'imposta di registro, essendo stata inserita la disposizione all'interno dello Statuto del contribuente.

Pertanto, per identificare gli “effetti economici”, gli uffici sono tenuti ad applicare quanto previsto dall'art. 10-bis citato, qualora vogliano eccepire un'eventuale vantaggio fiscale indebito.

Ma tale eccezione erariale non potrà trovare accoglimento nel caso in cui non venga dimostrato che cedere le quote di una società che comprende un'azienda o vendere direttamente l'azienda sia esattamente la stessa cosa e produca, anche rispetto ai terzi, esattamente gli stessi effetti civilistici e fiscali.

Del resto, con l'acquisto diretto dell'azienda, gli elementi attivi e passivi del complesso determinerebbero effetti reddituali positivi e negativi in capo all'avente causa, mentre, in caso di cessione di partecipazioni, ciò avverrebbe solamente nel caso di rivalutazione e svalutazione delle stesse partecipazioni. L'acquirente delle partecipazioni, inoltre, non avrebbe la disponibilità dei beni e quindi non potrebbe utilizzarli, così come non avrebbe alle proprie dipendenze i lavoratori. Nel caso del trasferimento dell'azienda sorgerebbero le responsabilità ex art. 2560 del c.c., che, nell'ipotesi di cessione di partecipazioni, non si verificherebbero.

Pertanto, gli operatori economici devono avere la libertà di scegliere come fare circolare un complesso aziendale, e, quindi, scegliere, se effettualo attraverso la sua diretta cessione a terzi (c.d. “asset deal”), ovvero mediante l'utilizzo di strumenti alternativi (c.d. “share deal”), tra i quali, ad esempio, il conferimento d'azienda seguito poi dalla cessione delle partecipazioni ricevute nella conferitaria.

Osservazioni

La sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Toscana è molto importante in quanto si pone in contrasto con quanto sancito recentemente dalla Suprema Corte in merito alla questione in esame.

È, pertanto, auspicabile che vi sia un ripensamento da parte dei giudici di legittimità che potrebbe essere di aiuto per fare cessare le suddette contestazioni da parte degli Uffici; con la conseguenza che l'art. 20 del d.P.R. n. 131/1986 non dovrebbe essere più utilizzato per riqualificare un'operazione in base agli effetti economici, ma dovrebbe tornare a svolgere la sua tradizionale funzione di norma volta esclusivamente a cogliere l'effettiva natura giuridica degli atti al di là del “nomen iuris” utilizzato dalle parti.

In quest'ottica, ai fini dell'applicazione del tributo, la natura dell'atto presentato per la registrazione andrebbe accertata solo in base alle sue clausole, senza possibilità di interpretare l'atto in funzione di elementi, compresi quelli che derivano dalla stipula di altri atti, che esulano dal suo contenuto e dagli effetti giuridici che direttamente ne scaturiscono (così ASSONIME in Circolare n. 21 del 4 agosto 2016, avente per oggetto il “D.Lgs. n. 128 del 2015 sulla certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente: la disciplina sull'abuso del diritto”).

Le eventuali eccezioni di possibili abusi normativi dovranno essere sollevate esclusivamente facendo riferimento all'art. 10-bis Legge 27 luglio 2000 n. 212, sia per i profili sostanziali, che procedimentali in modo d'assicurare condizioni di certezza del diritto agli operatori.

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