“Tazzinometro”: il quantitativo di caffè e la percentuale di ricarico non costituiscono fatti notori
08 Agosto 2016
Massima
Il ricorso alle nozioni di comune esperienza, (fatto notorio), comportando una deroga al principio dispositivo ed al contraddittorio, in quanto introduce nel processo civile prove non fornite dalle parti e relative a fatti dalle stesse non vagliati né controllati, va inteso in senso rigoroso, e cioè come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile. Ne consegue che restano estranei a tale nozione le acquisizioni specifiche di natura tecnica, gli elementi valutativi che implicano cognizioni particolari o richiedono il preventivo accertamento di particolari dati, nonché quelle nozioni che rientrano nella scienza privata del giudice, poiché questa, in quanto non universale, non rientra nella categoria del notorio, neppure quando derivi al giudice medesimo dalla pregressa trattazione d'analoghe controversie. Dovendo essere circoscritti a situazioni limitate, non possono essere considerati fatti notori elementi valutativi, come la dose di caffè occorrente per preparare la tazzina di caffè o la percentuale di ricarico. Il caso
Un contribuente esercente attività di bar riceveva un avviso di accertamento con cui venivano ricostruiti induttivamente i ricavi.
In particolare l'Ufficio aveva provveduto a calcolare i ricavi provenienti dalla somministrazione di caffè utilizzando il prezzo di una tazzina moltiplicato per il numero di somministrazioni annuali. Per il calcolo di quest'ultimo dato venivano messi a rapporto il quantitativo di caffè utilizzato nell'anno con quello necessario per la realizzazione di una tazzina (7 grammi). Il ricorso del contribuente veniva accolto dalla CTP, con decisione poi riformata in grado di appello in quanto veniva ritenuta corretta la metodologia di calcolo dei ricavi.
Col successivo ricorso per Cassazione il contribuente denunciava violazione dell'art. 54 del d.P.R. n. 633/1972 e dell'art. 39, comma 1, del d.P.R. n. 600/1973, art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c.: la CTR aveva violato le disposizioni richiamate in quanto l'accertamento analitico induttivo emanato dall'Amministrazione ai sensi dell'art. 39, comma 1 lett. d) del d.P.R. n. 600/1973 non esonera quest'ultima dall'onere di provare quanto afferma, a meno che non faccia ricorso a nozioni di comune esperienza, che comportano una deroga al principio dispositivo delle prove e del contraddittorio. I fatti notori vanno circoscritti a situazioni limitate e non vi possono rientrare elementi valutativi, come la dose di caffè occorrente per preparare la tazzina di caffè o la percentuale di ricarico.
La Cassazione, con la pronuncia in commento, ha accolto il ricorso dal momento che “il ricorso alle nozioni di comune esperienza (fatto notorio), comportando una deroga al principio dispositivo ed al contraddittorio, in quanto introduce nel processo civile prove non fornite dalle parti e relative a fatti dalle stesse non vagliati ne controllati, va inteso in senso rigoroso, e cioè come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile. Pertanto non si possono reputare rientranti nella nozione di fatti di comune esperienza, intesa quale esperienza di un individuo medio in un dato tempo e in un dato luogo, quegli elementi valutativi che implicano cognizioni particolari, o anche solo la pratica di determinate situazioni, ne quelle nozioni che rientrano nella scienza privata del giudice, poichè questa, in quanto non universale, non rientra nella categoria del notorio (cfr. anche Cass. civ., n. 23978/2007, Cass. civ., n. 11946/2002, n. 16962/2012).”
In altri termini il quantitativo di caffè necessario per la preparazione di una tazzina non rappresenta un fatto di comune esperienza non dispensando chi utilizza tale elemento (nel caso di specie l'Amministrazione finanziaria) dall'onere di provarlo. Di conseguenza la controversia è stata rinviata ad altra sezione della CTR per il riesame della vicenda. Le questioni
L'art. 115 c.p.p. dispone esplicitamente che il giudice "può senza bisogno di prova, porre a fondamento della decisione le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza". La massima di esperienza non è altro che una regola di esperienza basata su dati scientifici o su una esperienza particolarmente qualificata dal decorso del tempo.
La questione fondamentale trattata dalla pronuncia in commento attiene al concetto di fatto notorio applicato alle ricostruzioni induttive ed alle presunzioni utilizzate dall'Amministrazione finanziaria nella ricostruzione induttiva dei ricavi.
In altri termini gli elementi utilizzati dall'Agenzia delle Entrate per gli accertamenti induttivi (come le dosi di caffè nel cd. “tazzinometro”, ma stesso discorso può farsi per il consumo medio di acqua nel “bottigliometro”) non rappresenterebbero dei “fatti noti” da cui desumere l'ammontare dei ricavi, ma elementi che necessitano a loro volta di essere provati: ciò in ossequio al principio dispositivo che caratterizza anche il rito tributario e che non ammette deroghe se non in relazione al fatto notorio, inteso quale fatto di comune esperienza acquisito con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile, e non quale evento o situazione oggetto della mera conoscenza del singolo giudice. Infatti non si richiede la prova di un fatto che appartiene al normale patrimonio di conoscenza di una determinata cerchia sociale e che può essere, perciò, conosciuto, nella sua distinta identità storica, dal giudice senza la necessità di ulteriori verifiche in punto prova. La data di un terremoto, di uno sciopero generale, di una festività religiosa rientrano in questa nozione e, quindi, non debbono essere provati. Le soluzioni giuridiche
Secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza in tema di accertamento analitico-induttivo, è legittima la ricostruzione dei ricavi di un'impresa di ristorazione anche sulla base del solo consumo di acqua minerale, costituendo lo stesso un ingrediente fondamentale, se non addirittura indispensabile, nelle consumazioni effettuate (cfr. Cass. civ., n. 17408/2010). Inoltre limitarsi a contrapporre alla ricostruzione induttiva basata sul consumo di caffé e acqua minerale quella fondata sul cd. "tovagliometro" rappresenta una valutazione di merito sottratta al sindacato del giudice di legittimità. Tanto più che nel settore della ristorazione non può dirsi in astratto che sia preferibile un tipo di ricostruzione invece che un altro, non essendovi un elemento “principe” per la determinazione induttiva dei ricavi: tali indici possono variare caso per caso, essendo compito del Fisco in fase di accertamento e del giudice di merito in fase contenziosa individuare quelli che maggiormente caratterizzano la specifica realtà esaminata.
L'art. 39, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 600/1973, in materia di imposte dirette e l'art. 54, comma 2, del d.P.R. n. 633/1972, in materia di IVA, secondo un orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità (ex plurimis Cass. civ., n. 3542/2010, n. 15754/2009 e n. 13915/2009), consentono all'Ufficio accertatore, anche in presenza di scritture contabili regolarmente tenute dal punto di vista formale, “ma affette, in virtù di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, da incompletezze, inesattezze ed infedeltà” (cfr. Cass. civ., n. 9884/2002) di procedere legittimamente all'accertamento analitico-induttivo del reddito d'impresa, utilizzando gli stessi dati forniti dal contribuente, ovvero dimostrando anche per presunzioni, purché dotate dei caratteri di cui all'art. 2729 c.c., l'inesattezza o l'incompletezza di una o più poste contabili.
La giurisprudenza di legittimità si è spesso pronunciata sull'idoneità di una specifica metodologia utilizzata dall'Ufficio per la ricostruzione induttiva dei maggiori ricavi derivanti dall'attività d'impresa, ritenendo tale metodologia un “elemento sufficientemente grave e preciso di rettifica anche in presenza di contabilità regolarmente tenuta” (Cass. civ., n. 29342/2005 e n. 11686/2002).
Nei diversi casi esaminati anche dalla giurisprudenza di merito (si veda, ad es. la sentenza n. 77/24/12 della CTR del Veneto) nonché in quello affrontato dalla pronuncia in commento, viene evidenziato un approccio di tipo sostanzialistico nel valutare il ragionamento effettuato dall'Ufficio: la verifica dei requisiti di gravità, precisione e concordanza degli elementi presuntivi (metodologia compresa) non è mai effettuata in maniera astratta, ma caso per caso, con un'analisi di fatto volta a verificarne in concreto la rilevanza e l'ammissibilità. Alla luce di tali considerazioni si comprende come la ricostruzione presuntiva dei ricavi possa essere fondata anche sulla base dei consumi unitari di determinate materie prime o beni di consumo caratterizzanti la specifica attività controllata.
Ad esempio nel settore della ristorazione sono stati ritenuti validi elementi il numero dei tovaglioli utilizzati, risultanti dai lavaggi effettuati, piuttosto che il consumo di caffé o di acqua minerale (cd. “bottigliometro”), in quanto ingredienti fondamentali, se non indispensabili, nelle consumazioni effettuate. Sul punto la Cassazione ha più volte ribadito che tali elementi rappresentano un fatto noto, capace di per sé solo di lasciare ragionevolmente presumere il numero di pasti effettivamente forniti, così da risalire attraverso il prezzo medio dei coperti, all'ammontare effettivo dei ricavi conseguiti (cfr. Cass. civ., n. 17408/2010, n. 18475/2009 e n. 9884/2002). Altri esempi di ricostruzione indiretta dei ricavi si sono avuti col cd. “farinometro” (in relazione ad un'attività di pizzeria: cfr. Cass. civ., n. 15580/2011), con il “lenzuolometro” (per un'affittacamere, Cass. civ. n. 30402/2011) e persino con il “barometro” per ricostruire l'attività di un'impresa funebre.
I risultati cui conducono tali ricostruzioni devono essere quanto meno “verosimili” in riferimento alle caratteristiche ed alle concrete condizioni di esercizio dell'attività svolta: non sono mancati casi in cui la giurisprudenza (soprattutto di merito) ha dovuto annullare avvisi di accertamento basati ad esempio sul cd. “tovagliometro” in quanto tale metodologia risultava in contraddizione con altri elementi facilmente riscontrabili, come i consumi medi delle materie prime o l'effettiva capacità di posti a sedere del ristorante. Tali inconvenienti possono essere superati solo attraverso il confronto con il contribuente, utile a comprendere le peculiarità dell'attività controllata. Per quanto concerne la nozione di fatto notorio, l'art. 115 c.p.c. (sulla disponibilità delle prove) prevede al secondo comma che il giudice può porre a fondamento della sua decisione “le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza”.
Il concetto di fatto notorio, per la sua portata derogatoria al principio dispositivo (esonera infatti la parte che lo allega dal relativo onere probatorio), è stato da sempre oggetto di una rigorosa e stretta interpretazione da parte della giurisprudenza della Cassazione che lo ha ravvisato solamente in quei fatti connotati da certezza ed indubitabilità, escludendo che possa applicarsi ad elementi valutativi o ad eventi “solamente” probabili o oggetto della mera conoscenza del singolo giudice.
Tale principio è stato considerato operante anche in tema di accertamenti standardizzati (basati sui parametri o sugli studi di settore) che (per espressa e consolidata posizione sia della giurisprudenza di legittimità che della prassi dell'Amministrazione finanziaria) devono basarsi su presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza nasce solo in seguito al contraddittorio col contribuente da attivare obbligatoriamente. In questa sede il contribuente ha l'onere di dimostrare, senza limitazione di mezzi e contenuto, la sussistenza di condizioni che giustifichino l'esclusione dell'impresa dalle condizioni di normalità cui soltanto si applicano tali strumenti; l'Ufficio, dal canto suo, nelle motivazioni dell'avviso di accertamento, non solo deve dare dimostrazione della concreta applicabilità al caso concreto dello “standard” prescelto, ma deve anche esplicitare le ragioni per le quali ritiene non condivisibili le contestazioni sollevate dal contribuente. L'esito del contraddittorio non condiziona comunque le valutazioni del giudice o le strategie difensive del contribuente che non risentono di alcuna limitazione di contenuto. Sotto quest'ultimo aspetto, il giudice non può svolgere una funzione suppletiva, esonerando le parti dai rispettivi oneri probatori, se non quando ravvisi l'esistenza di un fatto notorio i cui contorni sono stati fissati in modo rigido dalla Cassazione (cfr. da ultimo Cass. civ., n. 22950/2014).
A ulteriore dimostrazione di ciò, in tema di redditometro, si ricorda anche la sentenza n. 14063/2014 con cui la Cassazione ha ritenuto che una mera prassi “familiare” come quella consistente nella liberalità dei genitori nei confronti dei figli rappresenta un evento soltanto probabile, come tale da escludere dalla nozione di “fatto notorio” e quindi, in base al principio dispositivo, da provare da parte di chi (il contribuente) ne invoca l'applicazione, quale fatto impeditivo della maggiore pretesa fiscale.
Osservazioni
La sentenza in commento rappresenta un unicum nel panorama giurisprudenziale tributario. Infatti è la prima volta che viene messa in discussione la metodologia basata sul consumo di caffè, ritenendosi necessaria la prova rigorosa del quantitativo di miscela per la preparazione di una tazza di caffè.
Il ricorso alle nozioni di comune esperienza (fatto notorio), comportando una deroga al principio dispositivo ed al contraddittorio, in quanto introduce nel processo civile prove non fornite dalle parti e relative a fatti delle stesse non vaglianti né controllati, va inteso in senso rigoroso, e cioè come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile; non si possono di conseguenza reputare rientranti nella nozione di fatti di comune esperienza, intesa quale esperienza di un individuo medio in un dato tempo e in un dato luogo, quegli elementi valutativi che implicano cognizioni particolari, o anche solo la pratica di determinate situazioni, né quelle nozioni che rientrano nella scienza privata del giudice, poiché questa, in quanto non universale, non rientra nella categoria del notorio, neppure quando derivi al giudice medesimo dalla pregressa trattazione di analoghe controversie.
Conseguentemente per aversi fatto notorio occorre, in primo luogo, che si tratti di un fatto che si imponga all'osservazione ed alla percezione della collettività, di modo che questa possa compiere per suo conto la valutazione critica necessaria per riscontrarlo, sicché al giudice non resti che constatarne gli effetti e valutarlo soltanto ai fini delle conseguenze giuridiche che ne derivano; in secondo luogo, occorre che si tratti di un fatto di comune conoscenza, anche se limitatamente al luogo ove esso è invocato, o perché appartiene alla cultura media della collettività, ivi stanziata, o perché le sue ripercussioni sono tanto ampie ed immediate che la collettività ne faccia esperienza comune anche in vista della sua incidenza sull'interesse pubblico che spinge ciascuno dei componenti della collettività stessa a conoscerlo. Alla luce di tali definizioni non v'è chi non veda come la dose necessaria per preparare una tazza di caffè appartenga ormai alla comune esperienza, rappresentando un elemento che ormai appartiene alla cultura della collettività.
Qualora così non fosse, l'Amministrazione finanziaria, per cautelarsi, potrebbe definire in contraddittorio con il contribuente questa ed altre informazioni utili a ricostruire le particolari modalità di svolgimento dell'attività, in modo da giungere ad un risultato condiviso, quanto meno in relazione alle informazioni basilari.
|