La rilevanza penale dell’abuso del diritto

Francesco Brandi
05 Novembre 2015

Alla luce delle modifiche del D.Lgs. n. 128/2015 sono sorti rilevanti profili dal punto di vista penale relativi all'abuso del diritto. Si pone infatti il problema dell'applicabilità della nuova norma, che ha sancito l'irrilevanza penale della fattispecie abusiva, ai procedimenti penali pendenti.
Massima

Le contestazioni fondate sull'abuso di diritto, configurabile in operazioni prive di sostanza economica che realizzano vantaggi fiscali indebiti, ai sensi della nuova formulazione dell'art. 10-bis dello Statuto del Contribuente, introdotta dall'art. 1 del D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, non integrano ipotesi di violazione penale tributaria. Ciò si riverbera anche sui procedimenti pendenti dati i sostanziali effetti di abolitio criminis che la norma produce.

Il caso

Il legale rappresentante di una società veniva condannato dal Tribunale di Milano, con sentenza poi confermata dalla Corte d'Appello, per il reato di cui all'art. 4 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, per aver indicato in dichiarazione elementi passivi per oltre due milioni di euro in virtù di un contratto denominato "Stock lending agreement", sottoscritto al solo scopo di evadere le imposte sui redditi.

Nel successivo ricorso per Cassazione i difensori dell'imputato, con motivi aggiunti ai sensi dell'art. 585 c.p.p. denunciavano la nullità dell'impugnata sentenza in virtù dello ius superveniens, ovvero del nuovo art. 10-bis, da ultimo aggiunto allo Statuto dei diritti del contribuente dal D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, che ha escluso la rilevanza penale dell'abuso del diritto.

Con la sentenza in commento la Suprema Corte ha cassato senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato; il dispositivo della sentenza è stato però comunicato all'autorità amministrativa competente (Direzione regionale della Lombardia) per le determinazioni di competenza, ovvero l'applicazione della sanzione amministrativa di dichiarazione infedele punita dal 100 al 200 per cento della maggiore imposta ai sensi dell'art. 1, comma 2 del D.Lgs. n. 471 del 1997.

Secondo i giudici di legittimità “le disposizioni che recano la nuova disciplina tributaria dell'abuso del diritto sono destinate ad esplicare effetto per le operazioni poste in essere dalla data del 1 ottobre 2015 in virtù del principio del tempus regit actum, ovverosia del principio di irretroattività della legge sopravvenuta sancito dall'art. 11 preleggi. Per contro, la disposizione del comma 13, che reca la statuizione di irrilevanza penale delle operazioni abusive è destinata ad esplicare effetto, oltre che naturalmente per le nuove operazioni abusive poste in essere dalla data del 1 ottobre 2015, anche per quelle poste in essere prima di tale data per il principio di retroattività della legge penale più favorevole sancito dall'art. 2 c.p.”.

In tal senso sono state condivise le prospettazioni della difesa secondo cui la riforma ha introdotto limitazioni temporali esclusivamente alla efficacia retroattiva della disciplina tributaria dell'abuso del diritto (applicabile agli atti posti in essere dal 1° ottobre scorso) e non anche a quella penale per il quale valgono le disposizioni di carattere generale di cui all'art. 2 c.p.

La questione

La questione fondamentale che emerge dalla pronuncia in commento è quella della rilevanza penale dell'abuso del diritto/elusione fiscale (concetti oggi unificati) a seguito dell'entrata in vigore del D.Lgs. n. 128/2015.

In altri termini si pone il problema dell'applicabilità della nuova norma, che ha sancito l'irrilevanza penale della fattispecie abusiva, ai procedimenti penali pendenti.

Le soluzioni giuridiche

Il D.Lgs. n. 128/2015, con la finalità di rafforzare la certezza del diritto nei rapporti tra fisco e contribuente, ha apportato alcune rilevanti modifiche in materia di abuso del diritto ed elusione fiscale, raddoppio dei termini per l'accertamento e tax compliance.

La principale novità delle nuove disposizioni (il cui compito era anche quello di recepire gli orientamenti consolidati della giurisprudenza, soprattutto di legittimità) consiste nella unificazione, dei concetti dell'abuso del diritto e dell'elusione fiscale: la nuova norma, non a caso inserita nella Legge n. 212/2000, il c.d. "Statuto del contribuente", ha una valenza generale, con riguardo a tutti i tributi (imposte sui redditi e imposte indirette, fatta comunque salva la speciale disciplina vigente in materia doganale). Viene quindi abrogato l'art. 37-bis del D.P.R. n. 600/1973.

Come noto, con la sentenza Halifax (Corte di giustizia, sentenza 21 febbraio 2006, causa C-255/02, Halifax), i giudici comunitari hanno per la prima volta riconosciuto in modo espresso la legittimità del recupero dell'imposta sul valore aggiunto nell'ipotesi in cui un contribuente, violando i principi fissati dalla normativa comunitaria, ponga in essere un'operazione elusiva al fine di conseguire un indebito vantaggio fiscale.

Successivamente la Corte di Cassazione ha ritenuto applicabile il principio del divieto di abuso di diritto anche con riferimento all'ordinamento nazionale ed in particolare alle imposte dirette, individuandone il fondamento nell'art. 53 della Costituzione (si vedano Corte di Cassazione, sez. un., sentenze nn. 30055, 30056 e 30057 del 23 dicembre 2008).

In particolare il giudice di legittimità ha affermato come l'abuso di diritto trovi diretto fondamento nei principi costituzionali e, dunque, si impone in tutto l'ordinamento tributario. I giudici di legittimità, infatti, hanno precisato che “la fonte di tale principio, in tema di tributi non armonizzati, quali le imposte dirette, va rinvenuta non nella giurisprudenza comunitaria quanto piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano l'ordinamento tributario italiano” (cfr. Cass. civ., sez. un., nn. 30055, 30056 e 30057 cit.). Nel rispetto dei paletti fissati dalla giurisprudenza il legislatore delegato ha delineato i presupposti dell'abuso del diritto che sono:

  1. l'assenza di sostanza economica delle operazioni effettuate (ossia operazioni che non perseguono obiettivi quali, ad esempio, sviluppo dell'attività o creazione di posti di lavoro), ma solo vantaggi fiscali;
  2. la realizzazione di un vantaggio fiscale indebito;
  3. la circostanza che il vantaggio fiscale costituisca l'effetto essenziale dell'operazione.

Aspetti procedimentali e onere probatorio

Per quanto concerne gli aspetti procedimentali e di riparto dell'onere probatorio viene chiarito che l'onere della prova della condotta abusiva grava sull'Amministrazione finanziaria, mentre il contribuente è tenuto a dimostrare la sussistenza delle “valide ragioni extrafiscali” che stanno alla base delle operazioni effettuate. A tal proposito è prevista, prima dell'emissione dell'avviso di accertamento, una fase di confronto obbligatorio con il contribuente al quale verrà notificata (similmente a quanto avviene oggi con la contestazione dell'elusione) una richiesta di chiarimenti contenente la motivazione dell'abusività della condotta. Si ricorda che in passato si era dibattuto molto (sia in dottrina che in giurisprudenza) sulla necessità di esperire tale procedimento “aggravato” anche in caso di contestazione dell'abuso del diritto.

Dall'esistenza di una tale precisazione qualcuno evince che l'abuso del diritto non possa essere rilevato d'ufficio. Sul punto, la Corte di Cassazione ha in passato sostenuto la rilevabilità d'ufficio da parte del giudice dell'abuso di diritto (cfr. Corte di Cassazione,n. 30055/2008 cit.), trattandosi di eccezione posta a vantaggio dell'Amministrazione finanziaria e, quindi, indisponibile.

Rilevanza penale dell'abuso

Ma l'aspetto centrale attiene all'esclusione della rilevanza penale dell'abuso: secondo il co. 13 del nuovo art. 10-bis dello Statuto del contribuente “Le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie. Resta ferma l'applicazione delle sanzioni amministrative tributarie”.

Ne consegue che, nelle ipotesi di contestazione in base alla nuova normativa il contribuente non potrà essere chiamato a rispondere di un reato tributario. La norma pone fine quindi ai dubbi interpretativi.

Prima di tale chiarimento avvenuto in via legislativa, infatti, sia la dottrina che la giurisprudenza oscillavano tra due opposti orientamenti: da un lato, quello secondo cui le condotte elusive o che integrano gli estremi dell'abuso del diritto tributario sono sanzionate anche penalmente, dall'altro lato, l'orientamento di chi ritiene che nessuna sanzione, neppure amministrativa, possa essere comminata al soggetto che realizza una di tali condotte.

L'argomento che con maggiore forza viene invocato per negare ogni rilevanza penale alle condotte elusive è la presunta incompatibilità di tale rilevanza con il principio di determinatezza (o tassatività) delle norme penali.

Si è sostenuta, in definitiva, l'inidoneità delle categorie giuridiche dell'abuso di diritto e dell'elusione a circoscrivere in maniera puntuale, nel rispetto dunque del principio di tassatività di cui all'art. 25 della Costituzione, le modalità di aggressione al bene giuridico ritenute dal legislatore meritevoli di sanzione penale.

Sotto tale profilo e con riferimento alle condotte riconducibili alla “speciale” clausola semi-generale di cui all'art. 37-bis del D.P.R. 600/1973, si è osservato che, stante l'assenza di determinatezza della fattispecie ivi descritta, la disposizione in esame non solo non potrebbe dare luogo a responsabilità penale ma, poiché il principio di legalità opera anche con riferimento alle sanzioni amministrative, neppure giustificare l'irrogazione di queste ultime.
Tale disposizione, come più in generale la clausola antiabuso, non avrebbe infatti natura sanzionatoria ma meramente “ripristinatoria”, come sarebbe dimostrato dal fatto che l'Amministrazione finanziaria, qualora contesti l'elusività di una determinata operazione, è obbligata ad applicare l'imposta dovuta sulla base delle disposizioni eluse “al netto delle imposte dovute per effetto del comportamento inopponibile all'amministrazione”.

Il rischio di una violazione di quel principio di tassatività cui il legislatore deve attenersi nella descrizione delle modalità di aggressione ai beni giuridici meritevoli di sanzione penale, tuttavia, è stato paventato con maggiore forza in relazione al principio generale antielusivo di elaborazione giurisprudenziale il quale è suscettibile di essere applicato a qualunque operazione realizzata in difetto di ragioni economicamente apprezzabili diverse dal risparmio fiscale.

Si è pertanto sostenuto che, se l'abuso del diritto è caratterizzato, da un lato, dalla liceità dei comportamenti realizzati e, da un altro, dalla sua ontologica “atipicità”, da intendersi come non riconducibilità a precise fattispecie legali, deve escludersi che le condotte a esso riconducibili possano dare luogo a responsabilità penale. Tale assenza di tipicità sarebbe stata del resto espressamente affermata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia della Comunità europea che, in più occasioni, ha escluso, proprio per assenza di determinatezza, l'applicabilità di sanzioni, anche solo di natura amministrativa, nei confronti dell'autore di condotte abusive.

L'impossibilità, per le ragioni anzidette, di ricondurre l'abuso di diritto e l'elusione fiscale nell'ambito di applicazione di una delle varie fattispecie delittuose di cui al Capo I del D.Lgs. 74/2000, ha pertanto condotto parte della dottrina a ritenere del tutto priva di rilevanza, in materia penale, non solo l'abuso del diritto, ma anche l'elusione fiscale.

Avverso tali osservazioni una parte della dottrina, muovendo dalla considerazione dell'alto grado di idoneità delle condotte elusive ad arrecare un'offesa al bene giuridico tutelato dalla norma di cui all'articolo 4 del D. Lgs. n. 74/2000 (ovvero l'interesse dell'Erario alla corretta percezione dei tributi. Le disposizioni di cui agli articoli 2 e 3 che prevedono condotte fraudolente, sono state da sempre escluse in quanto con la condotta elusiva/abusiva il contribuente non rappresenta falsamente nelle scritture contabili obbligatorie fatti di gestione non realizzati, né utilizza mezzi fraudolenti - meno che mai fatture false - idonei a ostacolare l'accertamento di una falsità contabile. Il contribuente che pone in essere una operazione elusiva, registra fedelmente e correttamente i fatti di gestione attraverso i quali l'elusione si realizza) ha sostenuto la sostanziale identità dei concetti di elusione ed evasione fiscale. L'elusione, al pari dell'evasione, comporterebbe una violazione dell'obbligo gravante sui consociati, ex articolo 53 della Costituzione, di contribuire solidaristicamente alla spesa pubblica. Producendo, in definitiva, “una discrepanza tra la dichiarazione (i cui contenuti siano da essa condizionati) e la misura della ricchezza che si sarebbe dovuto sottoporre alla pretesa impositiva”, l'elusione dovrebbe essere ritenuta “soltanto un modo per produrre un'evasione fiscale penalmente rilevante”.

Nello stesso senso è stato evidenziato come la costruzione dei delitti in materia di dichiarazione, quali fattispecie a dolo specifico di evasione, non possa essere invocata per escludere la rilevanza penale dell'elusione. Tale elemento psicologico risulterebbe integrato anche nel caso dell'elusione in quanto ricorrerebbe ogni qualvolta il contribuente agisca con il “fine di pervenire, per il tramite di una dichiarazione falsa, a dichiarare un'imposta inferiore rispetto a quella dovuta”. Anzi, proprio il fatto che un contribuente faccia un uso “distorto” del diritto al fine di ottenere uno specifico vantaggio fiscale, dimostrerebbe una precisa volontà di sottrarsi ai propri obblighi impositivi.

Tale corrente dottrinale, tesa a riconoscere la rilevanza penale dell'elusione, è stata accolta da parte di quella giurisprudenza che ha mostrato di non condividere l'opinione secondo la quale le condotte elusive non potrebbero realizzare le modalità di aggressione al bene giuridico tipizzate nell'art. 4 del D.Lgs. 74/2000. Secondo il giudice di legittimità, infatti, per la sussistenza del reato di cui all'articolo 4, il legislatore non richiede una dichiarazione fraudolenta, “bensì soltanto che la dichiarazione sia infedele", ossia che, anche senza l'uso di mezzi fraudolenti, siano indicati nella stessa "elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi fittizi" (Cass. civ., n. 26723/2011). Tale fattispecie dunque ben potrebbe essere integrata anche dalle condotte elusive, perché queste, risolvendosi in atti e negozi non opponibili all'Amministrazione, implicano che il contribuente presenti una “dichiarazione infedele”, ossia una dichiarazione la cui “infedeltà” è rappresentata proprio dal fatto che “nella stessa gli elementi attivi non sono stati esposti nel loro ammontare effettivo”.

Infine, l'argomento maggiormente invocato a sostegno della rilevanza penale della elusione, è costituito proprio dal testo dell'art. 16 del D.Lgs. 74/2000 che di tale rilevanza costituirebbe, seppure in via implicita, il fondamento normativo espresso. In forza di tale articolo, dovrebbe ritenersi la responsabilità penale di chi, prima di realizzare una delle condotte per le quali può essere chiesto, tramite la procedura d'interpello prevista dall'articolo 21 della legge 413/1991, un parere preventivo dell'Amministrazione finanziaria sulla natura elusiva o meno dell'operazione descritta, non abbia chiesto tale parere o ve ne sia discostato.
Ritenere il contrario, come fa chi richiama il testo della “relazione ministeriale”, significherebbe svuotare di contenuto la disposizione citata: il principio dell'efficacia scusante dell'errore incolpevole generato da un legittimo affidamento nel parere qualificato delle autorità competenti, già opererebbe per i reati tributari in forza dell'art. 5 del c.p., nell'interpretazione datane dalla Corte costituzionale (15 maggio 1988, n. 364). Per tale ragione e in ossequio del principio di conservazione delle norme giuridiche, in virtù del quale, tra più interpretazioni possibili, deve prediligersi quella che attribuisca alla norma un qualche significato piuttosto che quella che la renda superflua, deve negarsi ogni fondamento sulla tesi che, facendo leva sul testo della relazione ministeriale, ritiene di escludere la rilevanza penale dell'elusione fiscale.

Tale argomento è stato recepito appieno dalla Suprema corte di cassazione che, con la sentenza n. 7739/2012, da un lato, ha ritenuto compatibile, con il principio della riserva di legge, l'incriminazione delle condotte qualificabili quali elusive per effetto della clausola semi-generale di cui all'art. 37-bis, da un altro lato, ha escluso che un'analoga rilevanza penale possa riconoscersi alle condotte realizzate in violazione del generale principio anti-abuso di matrice giurisprudenziale.

Proprio dall'ambito di applicazione dell'esimente in esame, il giudice di legittimità trae stringenti conclusioni sull'ampiezza del divieto penale di realizzare condotte elusive. Come è noto, infatti, tramite l'interpello antielusivo il contribuente non può ottenere un parere qualificato su qualsiasi operazione egli intenda porre in essere, ma solo su quelle cui fa rinvio il secondo comma dell'articolo 21 della legge 413/1991. In particolare, il contribuente può chiedere un parere preventivo all'Amministrazione finanziaria sulle operazioni previste nel terzo comma dell'art. 37-bis del D.P.R. 600/1973 o riconducibili alla disposizione di cui all'art. 37, comma terzo, del medesimo decreto (“interposizione fittizia”). Tale circostanza segnerebbe il limite della rilevanza penale delle pratiche elusive con riferimento al principio di determinatezza della fattispecie legale, posto che, ad avviso del giudice di legittimità, “non qualunque condotta elusiva ai fini fiscali può assumere rilevanza penale, ma solo quella che corrisponde ad una specifica ipotesi di elusione espressamente prevista dalla legge”.

Una responsabilità penale può sussistere, dunque, solo con riferimento alla realizzazione di una delle condotte elencate nel terzo comma dell'art. 37-bis del D.P.R. 600/1973 (o anche le condotte che possano dare luogo a un'interposizione fittizia ex articolo 37, co. 3, D.P.R. 600/1973, qualora si ritenga che possa questa costituire una forma di elusione fiscale), in relazione alle quali può essere chiesto, tramite la procedura d'interpello prevista dall'art. 21 della legge 413/1991, il parere preventivo dell'Amministrazione finanziaria.

Al contrario e per le stesse ragioni, la Corte esclude che possano essere fonte di responsabilità penale le condotte che, pur non essendo riconducibili nell'elenco di cui al terzo comma dell'art. 37-bis, siano comunque da qualificarsi come elusive ai sensi della definizione di abuso del diritto elaborata dalla giurisprudenza interna e comunitaria. La Corte, nella consapevolezza di come il generale principio antielusivo sia suscettibile di applicazione generalizzata, mostra, dunque, di condividere l'opinione di chi ne ha evidenziato la ontologica atipicità. Ad avviso della Corte, pertanto, “nel campo penale non può affermarsi l'esistenza di una regola generale antielusiva, che prescinda da specifiche norme antielusive, così come, invece, ritenuto dalle citate Sezioni Unite civili della Corte Suprema di Cassazione, mentre può affermarsi la rilevanza penale di condotte che rientrino in una specifica disposizione fiscale antielusiva”.

Osservazioni

La nuova disposizione conferma, nella sostanza, l'orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui non avevano rilevanza penale le condotte riconducibili alla figura dell'abuso del diritto in quanto si violerebbero i principi di determinatezza e tassatività. Al contrario il superamento delle soglie penali conseguente a condotte elusive tipicamente disciplinate dalla legge poteva integrare uno dei reati previsti dal D.Lgs. n. 74/2000.

La specifica previsione di una norma antiabuso con abrogazione dell'art. 37-bis ha reso ora necessario la precisazione dell'irrilevanza penale della condotta, essendo venuta meno il difetto di determinatezza e tassatività.

L'importanza della sentenza in commento consiste nel fatto di essere stata la prima ad esprimersi sulla questione, raggiungendo conclusioni che inevitabilmente influenzeranno anche la futura produzione giurisprudenziale.

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