L'eterno pendolo della Cassazione fra severità e blandizie nei confronti del contribuente evasore

Ciro Santoriello
06 Maggio 2016

La causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto può operare anche con riferimento al reato di omesso versamento degli acconti Iva, dovendosi considerare, fra i diversi indici di insignificanza della vicenda criminale indicati dall'art. 131-bis c.p., in primo luogo l'entità delle somme non versate all'erario.
Massima

Il reato di omesso versamento dell'imposta sul valore aggiunto richiede il mero dolo generico, sicché deve ritenersi integrato nel caso in cui il contribuente sia consapevole di omettere i versamenti dovuti, per cui la situazione di crisi di liquidità dell'impresa può giustificare il mancato assolvimento degli obblighi tributari a condizione che il contribuente dimostri in maniera rigorosa che non sia stato altrimenti possibile reperire altrimenti le risorse necessarie per il corretto adempimento degli obblighi fiscali, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà ed a lui non imputabili.

La causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto può operare anche con riferimento al reato di omesso versamento degli acconti IVA, dovendosi considerare, fra i diversi indici di insignificanza della vicenda criminale indicati dall'art. 131-bis c.p., in primo luogo l'entità delle somme non versate all'erario.

La soglia di punibilità presente per diversi illeciti tributari rientra fra gli elementi costitutivi del reato, con la conseguenza che la mancata integrazione di tale soglia comporta l'assoluzione dell'imputato con la formula il fatto non sussiste e tale conclusione, essendo la nuova disciplina in tema di illeciti tributari più favorevole per l'accusato rispetto alle precedenti versioni la fattispecie, deve essere applicata anche laddove si giudichi di condotte criminose assunte prima della modifica normativa, con conseguente sopravvenuta irrilevanza penale di tali comportamenti quando l'imposta evasa non risulti superare la nuova soglia di punibilità.

Il caso

In una sola decisione, la Cassazione riesce a dare espressione ai suoi oscillanti e poco coerenti atteggiamenti nei miei confronti del fenomeno dell'evasione fiscale, in particolare con riferimento ai reati tributari che – lungi dal consistere nell'adozione da parte del contribuente di comportamenti di simulatori o truffaldine – di fatto si esauriscono nel mancato pagamento delle imposte dovute.

Nel caso di specie, la Corte di legittimità doveva decidere della sorte di un privato contribuente il quale non aveva versato gli acconti IVA per un importo assai significativo, pari a circa € 600.000. Condannato in sede di appello dopo essere stato assolto in primo grado, l'imputato ricorre in cassazione prospettando sostanzialmente tre motivi di ricorso.

La questione

Con una prima argomentazione, la difesa lamentava che la Corte di appello aveva escluso che l'omesso versamento degli acconti Iva potesse trovare giustificazione in una causa di forza maggiore in cui l'imputato era venuto a trovarsi in particolare della crisi di liquidità che aveva interessato la sua azienda.

Il secondo motivo di ricorso atteneva al trattamento sanzionatorio particolarmente rigoroso cui l'imputato era stato sottoposto e che, a detta della difesa, risultava ingiustificato una volta che la disciplina penale in tema di omesso versamento degli acconti Iva era stata riformata con l'innalzamento delle soglie di punibilità previste per tale illecito. In sostanza, la difesa sosteneva che la nuova disciplina penale tributaria dovesse trovare applicazione, laddove più favorevole per l'accusato, anche con riferimento ai fatti passati, ed in particolare tale tesi era sostenuta con riferimento alle nuove e più alte soglie di punibilità previste con il D.lgs. n. 158/2015.

In terzo luogo, la difesa richiedeva che, considerato che l'evasione posta in essere dall'imputato non era particolarmente significativa come importi – in particolare alla luce delle innalzamento predetto le soglie di punibilità – che il fatto contestato fosse dichiarato non punibile per la sua particolare tenuità, così come previsto dall'art. 131-bis c.p. di recente introduzione.

Le soluzioni giuridiche

Alle tre questioni la Cassazione fornisce una risposta differenziata per quanto riguarda il rigore e la severità che la stessa presenta con riferimento al fenomeno dell'evasione tributaria.

Particolarmente restrittiva – ma sul punto assolutamente in linea con il tradizionale orientamento della giurisprudenza di legittimità – è la posizione che la suprema Corte con riferimento alla possibilità di ritenere scriminato e quindi non penalmente rilevante la condotta di mancato versamento degli acconti Iva (e delle ritenute fiscali) quando tale inadempimento sia stato determinato dalla crisi economica ed in particolare dalla carenza di liquidità che connota la posizione del contribuente che svolga attività di impresa.

In proposito va detto che in sede di riforma dei reati di cui agli artt. 10–bis e 10–ter D.lgs. n. 74/2000, il legislatore non ha inteso fornire alcuna indicazione circa la risposta da dare a tale delicato problema per cui la Cassazione ha avuto "buon gioco" nel confermare il suo precedente atteggiamento particolarmente rigoroso, ribadendo l'obbligo di sanzionare (non solo condotte di frode fiscale ma anche) i meri inadempimenti dell'obbligo di pagamento delle imposte. Si ricorda che la Cassazione è giunta finanche ad escludere la possibilità di riconoscere il beneficio della continuazione con riferimento a plurime e consecutive inottemperanze dell'obbligo di versamento degli acconti Iva quando il mancato versamento sia dovuto alla crisi economica dell'azienda, dovendo ritenersi che in tal caso risulti mancante l'unicità del disegno criminoso (Cfr. Cass. pen., sez. III, 30 ottobre 2014, n. 35912).

Più volte infatti la Cassazione ha affermato che il reato di omesso versamento degli acconti Iva – ma non solo, giacché la medesima conclusione è assunta con riferimento al mancato versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti o di omesso versamento delle ritenute fiscali – richiede il mero dolo generico (per tutti, Cass. pen., Sez. un., 28 marzo 2013, n. 37424. Se ne veda il commento di TRAVERSI) per cui il predetto reato risulta integrato, sotto il profilo della condotta, dalla mera omissione dei versamenti, mentre sotto il profilo soggettivo sarebbe sufficiente che il singolo sia consapevole al momento dei fatti del suo inadempimento (Cfr. anche, Cass. pen., sez. III, 9 ottobre 2013, n. 5905, inedita; Cass. pen., Sez. III, 8 gennaio 2014, Tonti Sauto, inedita, secondo cui la situazione di colui che non versa l'imposta si risolve in una condotta, cosciente e volontaria, la quale, in modo progressivo, si articola, in un primo momento, con il mancato accantonamento delle somme trattenute e successivamente con l'omesso versamento mensile secondo le cadenze prevista dalla normativa tributaria ed infine con la prosecuzione della condotta omissiva fino al termine ultimo fissato dalla normativa penale. In senso critico verso questa posizione, in dottrina, PIERDONATI, che esprime forti censure alla tesi secondo cui sarebbe necessariamente sussistente, in capo all'imprenditore che non versa le somme dovute, il dolo generico: in effetti, il contribuente che non paga il fisco è consapevole di tale sua condotta ma ciò non significa che è sua intenzione porla in essere, giacché tale omissione può dipendere anche – per l'appunto – dall'impossibilità di provvedere al versamento di quanto dovuto, stante la crisi di liquidità in cui versa l'azienda, posto che il soggetto obbligato ben potrebbe non avere a sua disposizione la somma dovuta in conseguenza di un evento estraneo alla sua volontà e che lui non ha potuto evitare).

Uniche aperture sul punto sono rappresentate dalle – invero non così infrequenti decisioni – nelle quali la Cassazione ha riconosciuto che in alcune ipotesi l'imprenditore si trova in situazioni che gli impediscono di assolvere l'obbligo tributario e quindi non è penalmente responsabile in ragione delle condizioni economiche in cui versava ma la possibilità di accedere a tale valutazione è subordinata – onde evitare una facile elusione della normativa fiscale – alla presenza di una serie di presupposti. In primo luogo, la condizione economica del contribuente non deve consistere in una mera difficoltà finanziaria ovvero nella difficoltà di rinvenire le disponibilità liquide per il pagamento dell'imposta ma deve ricorrere un'assoluta impossibilità di provvedere altrimenti all'esigenze dell'azienda, se non per l'appunto non pagando i debiti erariali. In secondo luogo, il contribuente ed imputato deve dare piena dimostrazione di tale impossibilità, non essendo sufficiente allegare davanti al giudice penale l'esistenza di una crisi economica – magari facendo riferimento alle generalizzate cattive condizioni dell'economia nazionale: piuttosto, bisogna dimostrare da parte del privato che non gli era stato possibile reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di una improvvisa crisi di liquidita, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili.

In proposito va osservato come la Cassazione in più occasioni abbia indicato quali prove l'imputato può fornire sul punto, sostenendo che una sufficiente dimostrazione dello sforzo del contribuente di rispettare le scadenze è data dalla circostanza che il contribuente – prima di procurarsi la liquidità necessaria evadendo il fisco – abbia fatto ricorso anche al suo patrimonio personale, come ad esempio mediante il ricorso allo sconto bancario delle fatture emesse non saldate (Cass. pen., Sez. III, 14 aprile 2014, n. 15716, inedita; Cass. pen., Sez. III, 6 marzo 2014, n. 10813, inedita; Cass. pen., Sez. III, 17 luglio 2014, n. 18501, v. nota di SANTORIELLO).

Meno tranchant la risposta che la Cassazione sta riservando ad un altro tema che le difese sempre più di frequente sollevano nei processi per violazione di illeciti tributari non connotati dall'assunzione di condotte truffaldine o fraudolente da parte del contribuente ovvero la possibilità di applicare a tali illeciti la nuova causa di non punibilità presente nell'art. 131-bis c.p., introdotto con il decreto legislativo n. 67 del 2015.

La disposizione codicistica, al comma 1, prevede che nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l'esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell'articolo 133, primo comma, l'offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale; lo stesso articolo poi indica una serie di ipotesi in cui l'offesa non può essere ritenuta irrilevante nonché gli indici ed i caratteri della vicenda sulla cui base operare tale valutazione di significanza dell'aggressione al bene giuridico protetto.

Sulla possibilità di applicare il citato art. 131–bis, la suprema Corte si è dapprima pronunciata in senso affermativo con riferimento alle ipotesi in cui il delitto tributario sia punito nel massimo con pena della reclusione non superiore a cinque anni – il che si verifica praticamente per tutti i reati tributari salvo le fattispecie di cui artt. 2, 3 ed 8 d.lgs. 74 del 2000 (Cass. pen., Sez. III, 8 aprile 2015, n. 15449 v. nota di SANTORIELLO. In senso favorevole a tale decisione GATTA, secondo cui la presenza di soglie di punibilità (nei reati tributari come nei reati societari, nei reati ambientali, nei reati di guida in stato di ebbrezza o sotto l'effetto di stupefacenti, e così via) potrebbe infatti essere intesa come una sorta di presunzione legale di rilevanza penale dei fatti che si collocano al di sopra delle soglie stesse, incompatibile con l'istituto introdotto nell'art. 131-bis c.p. Senonché, nel momento in cui si riconosce che le soglie di cui si tratta misurano l'offesa rilevante (danno o pericolo), non vi è motivo per escludere in via di principio una particolare tenuità dell'offesa, appunto, in relazione ai fatti che si collocano di poco sopra le soglie stesse. Nello stesso senso, anche se in maniera assai più problematica, differenziando in parte la risposta a seconda della fattispecie criminosa considerata CARACCIOLI). Questa impostazione è stata confermata di recente anche con riferimento al reato di omesso versamento degli acconti Iva (Cass. pen., Sez. III, 9 settembre 2015, n. 35733), evidenziandosi che in relazione a tale illecito il principale criterio da tenere in considerazione per valutare la sussistenza meno la particolare tenuità del fatto è rappresentato dall'importo dell'imposta non versata.

La scelta di ancorare il riconoscimento della particolare tenuità del fatto all'ammontare delle somme non versate al fisco è pienamente comprensibile, essendo questo profilo l'elemento principale per accertare la gravità della violazione tributaria contestata nonché un dato avente una portata numerica e quindi oggettiva, il cui apprezzamento non è dunque interamente rimesso alla libera discrezionale del giudice. Al contempo però deve ricordarsi che con una ulteriore pronuncia, contestuale a quella di cui si sta facendo menzione, sia pur relativa al reato di omesso versamento di contributi previdenziali, la Cassazione abbia ritenuto penalmente rilevante e meritevoli di punizione anche omessi versamenti di importi irrisori (nel caso di specie l'importo non versato era di circa € 5.000,00: Cass. pen., Sez. III, n. 40350/2015): è evidente che a seguire questa impostazione deve concludersi nel senso che inadempimenti relativi ad obblighi di versamento di somme nei confronti dell'erario o delle casse dello Stato dovranno sempre essere ritenute penalmente rilevanti.

Da ultimo, la Cassazione torna a ribadire che le condotte di evasione assunte prima della riforma del 2015, laddove l'imposta evasa sia di importo inferiore a quella oggi indicata dal legislatore come penalmente rilevante, devono ritenersi non più punibili per sopravvenuta irrilevanza penale del fatto (in questi termini, Cass. pen., Sez. III, 18 novembre 2015, n. 6105; Cass. pen, Sez. III, 11 novembre 2015, n. 891 e Cass. pen., Sez. III, 11 novembre 2015, n. 48228, v. nota di SANTORIELLO).

La risposta al quesito suddetto passa per una definizione circa la natura delle soglie di punibilità e ciò in quanto se le stesse si qualificano come mere soglie di punibilità un problema di diritto transitorio non si pone neppure: i fatti pregressi continuano ad essere sottoposti a punizione secondo la disciplina all'epoca vigente.

Va ricordato infatti che con riferimento alla precedente normativa diverse pronunce hanno affermato che il superamento della soglia rappresentata dall'ammontare dell'imposta evasa costituisca una condizione oggettiva di punibilità, come tale sottratta alla rappresentazione del fatto da parte del soggetto agente (Cass. pen., Sez. III, 26 maggio 2001, Calcagni; Cass. pen., Sez. VI, 16 dicembre 2014, n. 6705). In tale circostanza, infatti, deve ritenersi che – fissando una condizione di punibilità da individuare nell'importo dell'imposta evasa da superare – lo stesso legislatore abbia configurato, in astratto, la condizione perché la condotta conforme alla fattispecie possa ritenersi anche offensiva degli interessi protetti; di conseguenza, è evidente che la modifica in aumento della predetta soglia non abbia alcun rilievo per i fatti passati, i quali hanno leso in allora interessi protetti perché le somme sottratte all'erario erano di un importo che in allora era ritenuta significativo dal legislatore, mentre che lo stesso importo sia ritenuto oggi irrisorio nulla toglie alla valenza offensiva del bene giuridico protetto dei comportamenti tenuti in precedenza.

La tesi opposta a quella ora esposta sostiene che le soglie di punibilità – nonostante tale qualificazione – sarebbero un elemento costitutivo del reato (Cass. pen., Sez. III, 22 gennaio 2014, n. 12248; Cass. pen., Sez. III, 26 giugno 2014, n. 36859, secondo cui il mancato raggiungimento della soglia impone l'assoluzione per non essere il fatto previsto come reato). Qualora si accolga questa tesi, avrebbero effettivamente ragione di porsi le problematiche inerenti la sorte dei (procedimenti per i) reati commessi nella vigenza della precedente disciplina: infatti, se si stabilisce che con riferimento ai fatti ancora sotto processo debbano applicarsi le nuove soglie perché l'aumento delle stesse costituisce – come afferma la decisione in commento – una modifica in melius deve concludersi nel senso che ai sensi dell'art. 2 c.p. la nuova disciplina deve operare anche per il passato e quindi i procedimenti in corso – siano essi in fase di indagini oppure già approdati a giudizio, quale che sia la fase in cui versa lo stesso – andranno definiti con sentenza di assoluzione per la mancata punibilità della condotta.

Come detto, è proprio quest'ultima la soluzione prescelta dalla Corte di legittimità, secondo cui le soglie in esame non potrebbero essere inquadrate fra le condizioni di punibilità in quanto quest'ultime consistono in eventi che rendono attuale l'offesa l'interesse protetto dalla norma violata o che costituiscono una progressione o un aggravamento di tale offesa, con la conseguenza che siffatti eventi, concorrendo a delineare disvalore penale del fatto, sono in realtà elementi costitutivi del reato, così che devono essere necessariamente coperti dal dolo o secondo dei casi dalla colpa dell'agente. Peraltro, a detta della suprema Corte, l'integrazione della soglia quantitativa necessaria per il perfezionamento del reato non dipende da un evento futuro incerto ma dallo stesso comportamento dell'agente che, con la condotta volta a volta descritta dalle norme incriminatrici, sottrae all'erario l'imposta che, integrava la soglia, contribuisce alla realizzazione del fatto di tipico mentre l'attività di accertamento circa il superamento o meno della soglia quantitativa – che il legislatore indica per l'integrazione di un fatto penalmente rilevante (cioè del fatto di reato) – costituisce un posterius rispetto la consumazione dell'illecito e svolge lo stesso ruolo che in altre fattispecie è spiegato dalle tecniche di accertamento processuale per provare che è stato realizzato un elemento del fatto tipico che costituisce il reato.

Osservazioni

Come il titolo di questo lavoro lascia presagire, l'atteggiamento della giurisprudenza in tema di illeciti tributari ci lasciò fortemente perplessi e ci sentiamo di sostenere che lo stesso estremamente ondivago e giunge a conclusioni paradossali.

Infatti, da un lato, specie con riferimento alla tematica della crisi di liquidità dell'imprenditore insolvente – ma medesime considerazioni possono formularsi con riferimento ai margini di operatività assai ristretti che in tale ambito la Cassazione riconosce all'istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto – la giurisprudenza di legittimità assume un atteggiamento estremamente rigoroso e severo, quasi ritenesse che la tutela degli interessi dell'erario è valore assolutamente preminente su ogni altro interesse. D'altro canto, però, la ritenuta operatività anche per il passato delle nuove e più alte soglie di punibilità introdotte con la riforma del 2015 rende vano il predetto sforzo di tutelare la posizione dell'amministrazione finanziaria.

Le nostre considerazioni critiche, ovviamente, si riferiscono alla scelta del giudice di legittimità di ritenere l'irrilevanza penale delle condotte assunte nella vigenza della precedente disciplina quando le stesse non risultino superate le nuove soglie di punibilità. Questa soluzione infatti non ci convince per più ragioni, stante il fatto che essa è destinata ad operare non solo con riferimento a vicende ancora sub judice ma anche in relazione alle sentenze già passate in giudicato, le quali dunque dovrebbero essere revocate in sede di esecuzione perché il fatto allora previsto come reato non è più considerato tale dal legislatore, secondo quanto prevede l'art. 673, comma 1, c.p.p., ai sensi del quale nel caso di abrogazione o di dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, il giudice dell'esecuzione revoca la sentenza di condanna o il decreto penale dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti.

Da questa conclusione – inevitabile, laddove si aderisca alla ricostruzione presente in sentenza, ovvero che il mancato superamento in passato delle soglie di punibilità oggi fissate rende la condotta in precedenza posta in essere non più penalmente rilevante – derivano però conseguenze deleterie di non poco momento.

In primo luogo ne deriverebbe un impatto negativo per la funzionalità degli uffici giudiziari: seguendo la suddetta ricostruzione dogmatica, infatti, come già detto occorre riconoscere la legittimazione di incidenti di esecuzione con riferimento a condanne passate per fatti di evasione che oggi sarebbero sotto soglia.

In secondo luogo, dalla conclusione in discorso rischia di derivare l'inutilità dei processi in tema di reati tributari che verranno a svolgersi negli anni futuri, i quali saranno destinati ad essere messi nel nulla da una nuova – inevitabile – riforma del diritto penale tributario, che innalzi le soglie di punibilità. Infatti, il legislatore, fissando una condizione di punibilità da individuare nell'importo dell'imposta da superare, configura, in astratto, la condizione perché la condotta conforme alla fattispecie possa ritenersi anche offensiva degli interessi protetti: in sostanza, l'evasione rappresenta un illecito ma si è in presenza di un reato solo quanto il mancato pagamento dell'imposta superi una certa cifra giacché solo in questo caso deve ritenersi significativa l'offesa all'Erario. Ovviamente, la determinazione del quantum di evasione penalmente significativo dipende dalle circostanze storiche in cui la condotta è tenuta, per cui, esemplificando, un'evasione di 20.000 € aveva una significativa rilevanza economica – e ciò ne giustificava la punizione nel 2000 e negli anni successivi – mentre invece ha una connotazione economicamente irrisoria oggi, e quindi il legislatore ha fissato una nuova soglia di punibilità rendendo irrilevante i comportamenti in precedenza tenuti.

Orbene, non vi è chi non veda come questa spirale di innalzamento delle soglie sia destinata a protrarsi nel futuro conformemente alla crescita dei prezzi e dei valori economici, circostanza storica che renderà nel futuro irrilevanti economicamente comportamenti oggi invece portatori di una significativa lesione degli interessi dell'erario. Ma ciò significa, allora, che le condanne che vengono oggi pronunciate con riferimento, ad esempio, all'omesso versamento di acconti Iva o di ritenute fiscali o di omessa dichiarazione diverranno in futuro – fra uno, fra dieci, fra vent'anni (si ricorda che la recente riforma delle soglie di punibilità segue di 15 anni l'adozione dell'originaria disciplina e di pochi anni l'ultimo innalzamento dei suoi di punibilità intervenuto nel 2011) – penalmente irrilevanti e le condanne nel frattempo pronunciate, anche se passate in giudicato, verranno per l'appunto poste nel nulla.

C'è solo da sperare, onde evitare che la completa inutilità dei processi penali in corso di svolgimento per illeciti tributari che non presentino più rilevanza penale in ragione del mancato raggiungimento delle soglie, che quantomeno si consolidi l'orientamento della Cassazione in ordine alla formula assolutoria che bisogna adottare in presenza di condotte di evasione assunte prima della riforma del 2015 e che non superino le nuove soglie di punibilità.

In proposito in alcune decisione correttamente la Corte di legittimità ha affermato che nel caso di specie l'assoluzione dell'imputato va deliberata con la formula il fatto non sussiste, posto che non essendo integrato uno degli elementi costitutivi del reato, dello stesso va esclusa in radice l'insussistenza (in tema di individuazione della formula assolutoria, FORTUNA; RIGO). Ovviamente, una tale pronuncia di assoluzione avrà limitata valenza laddove l'illecito tributario venga contestato in sede tributaria: in tale ambito, infatti, la formula assolutoria il fatto non sussiste non starà certo ad indicare la completa insussistenza della violazione erariale, ma semplicemente lascia impregiudicato, per mancato accertamento in sede penale, il profilo attinente il mancato versamento delle ritenute operate in misura inferiore alla soglia di punibilità (in proposito ALBANESE; DE ANGELIS; FORTUNA; IAFISCO; VALENTINI).

Fonte: ilPenalista.it

Guida all'approfondimento

ALBANESE, Efficacia del giudicato nel nuovo codice di procedura penale e profili civilistici, in Arch. N. Proc. Pen., 1991, 337;

CARACCIOLI, Non punibilità per particolare tenuità del fatto: l'impatto sui reati tributari, in Fisco, 2015, 17, 1659;

DE ANGELIS, Processo civile e processo penale – Diritto interprocessuale, Torino, 2009

FORTUNA, Sentenza (sentenza penale), in Enc. Giur., XXVIII, Roma, 1992;

FORTUNA, I poteri istruttori della Commissione tributaria, in Riv. Dir. Trib., 2001, 11, 1039;

GATTA, Note a margine di una prima sentenza della Cassazione in tema di non punibilità per particolare tenuità del fatto, in Dir. pen. cont.;

IAFISCO, Osservazioni in tema di accertamento "dubbioso", efficacia in altri giudizi ex art. 654 c.p.p. e uso come prova della sentenza penale irrevocabile, in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2002, 2, 586;

PIERDONATI, Crisi dell'impresa e responsabilità penale del vertice della società verso nuovi equilibri giurisprudenziali, in Dir. Pen. Proc., 2013, 965;

RIGO, La sentenza, in SPANGHER (diretto da), Trattato di procedura penale, IV, 2, Torino, 2009, 616;

SANTORIELLO, Applicazione ai reati tributari della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, in Fisco, 2015, 19, 1886 (nota a Cass. pen., Sez. III, 8 aprile 2015, n. 15449);

SANTORIELLO, La crisi di impresa può giustificare l'omesso versamento Iva, in Fisco, 2015, 2179 (nota a Cass. pen., Sez. III, 17 luglio 2014, n. 18501);

SANTORIELLO, Applicabili ai procedimenti pendenti le nuove soglie di punibilità per gli omessi versamenti di ritenute in Fisco, 2016, 4, 377, (nota a Cass. pen., Sez. III, 11 novembre 2015, n. 48228);

TRAVERSI, Interpretazione rigorosa delle Sezioni Unite sull'omesso versamento dell'IVA e delle ritenute, in Corr. Trib., 2013, 3487;

RIGO, La sentenza, in SPANGHER (diretto da), Trattato di procedura penale, IV, 2, Torino, 2009, 616;

VALENTINI, Improcedibilità, estinzione del reato e non punibilità sopravvenuta in margine ai "condoni tributari del 2003", in Riv. It. Dir. Proc. Pen., 2005, 3, 1111

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario