CTU: il giudice tributario non può sopperire alle carenze probatorie delle parti

08 Marzo 2016

Nella sentenza n. 404/2016 si affronta la vexata quaestio relativa all'ampiezza dei poteri istruttori del giudice tributario regolati dall'art. 7, comma 2, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546. La Suprema Corte sceglie una esegesi restrittiva della disciplina de qua: il giudice non può richiedere relazioni o disporre consulenza in sostituzione dell'onere probatorio gravante sulle parti.
Massima

Poiché l'art. 7, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, che prevede la possibile acquisizione d'ufficio di mezzi di prova, è norma eccezionale rispetto all'art. 115 c.p.c., è precluso al giudice l'esercizio di tali poteri istruttori per sopperire alle carenze istruttorie delle parti, sovvertendo i rispettivi oneri probatori in un processo a connotato tendenzialmente dispositivo.

Il caso

Riscontrata la mancanza dei libri contabili, l'Amministrazione finanziaria rettifica induttivamente i ricavi dichiarati da una s.r.l. per il periodo di imposta 2003 utilizzando le cosiddette percentuali di ricarico.

L'avviso di accertamento viene annullato dalla Commissione Tributaria Provinciale adita, con sentenza confermata in appello. In particolare il Giudice del gravame osserva che il ricarico applicato dall'Ufficio procedente non è conferente in ragione della diversità degli ambiti merceologici e territoriali di riferimento.

Nella sentenza n. 404/2016 la Sezione Tributaria della Corte di Cassazione rigetta il ricorso dell'Amministrazione finanziaria con condanna alle spese di giudizio.

La questione

In base all'art. 7, comma 2, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, “le commissioni tributarie, quando occorre acquisire elementi conoscitivi di particolare complessità, possono richiede relazioni ad organi tecnici dell'Amministrazione dello Stato o di altri enti pubblici compreso il Corpo della Guardia di finanza, ovvero disporre consulenza tecnica”. La richiamata disciplina conferisce al giudice tributario due specifici poteri istruttori – quello di richiedere relazioni ad organi tecnici pubblici e quello di disporre consulenza tecnica – di cui fruire nel caso in cui occorra acquisire “elementi conoscitivi di particolare complessità”.

La ratio decidendi della pronuncia in rassegna concerne l'ampiezza di tali poteri istruttori del giudice tributario.

Le soluzioni giuridiche

Secondo la Corte di Cassazione, poiché la consulenza tecnica e le altre indagini delegabili d'ufficio hanno la finalità di coadiuvare il giudice tributario soltanto nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che richiedano specifiche conoscenze, tali strumenti “non possono essere utilizzati al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume ed è quindi legittimo non farvi ricorso se si tenda con essi a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero di compiere un'indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati”. Il giudice tributario non può sopperire alle carenze istruttorie delle parti “sovvertendo i rispettivi oneri probatori in un processo a connotato tendenzialmente dispositivo”.

Pur rilevando che il giudice tributario, ove ravvisi la parziale infondatezza della pretesa fiscale, deve quantificare quella corretta, la Sezione Tributaria ribadisce che ciò deve avvenire sempre nei limiti tracciati dalle parti – secondo il brocardo iudex iuxta alligata et probata iudicare debet –, non risultando l'art. 115 c.p.c. derogato dalla norma speciale tributaria.

Alla luce di tali principi la Sezione Tributaria nega che costituisca tanto error in procedendo, quanto vizio motivazionale, l'omesso ricorso a consulenze o indagini tecniche d'ufficio ai fini della determinazione estimativa, “non essendo tale potere esercitabile in funzione di ricerca di dati che dovevano essere previamente allegati dalla parte interessata” (cfr. Cass. civ., sez. trib., 10 settembre 2007, n. 18976) e, pur ammettendo la possibilità di assegnare alla consulenza tecnica d'ufficio e a similari indagini ufficiose una funzione “percipiente”, ritiene che tali poteri istruttori possano essere utilizzati soltanto in relazione a “elementi almeno già allegati dalla parte e che soltanto un tecnico sia in grado di accertare in concreto, per mezzo delle conoscenze e degli strumenti di cui dispone” (cfr. Cass. civ., sez. II, 22 gennaio 2015, n. 1190).

Osservazioni

Nella sentenza n. 404/2016 si affronta la vexata quaestio relativa all'ampiezza dei poteri istruttori del giudice tributario regolati dall'art. 7, comma 2, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546. La Sezione Tributaria della Corte di Cassazione sceglie una esegesi restrittiva della disciplina de qua, strettamente legata all'architettura dispositiva del processo tributario: secondo tale indirizzo, il giudice non può richiedere relazioni o disporre consulenza in sostituzione dell'onere probatorio gravante sulle parti, ma soltanto quando gli elementi prodotti dalle parti conducano a risultati discordanti o, ancora, quando occorra acquisire elementi conoscitivi di particolare complessità che non siano nella immediata disponibilità dei contendenti e che esulano dalla sfera di normale conoscenza o conoscibilità del giudice (cfr. Cass. civ., sez. trib., 17 novembre 2006, n. 24464, secondo cui l'art. 7, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, dev'essere interpretato alla luce del principio di terzietà sancito dall'art. 111 Cost., il quale non consente al giudice di sopperire alle carenze istruttorie delle parti, sovvertendo i rispettivi oneri probatori: tale potere, pertanto, può essere esercitato soltanto ove sussista un'obiettiva situazione di incertezza, al fine d'integrare gli elementi di prova già forniti dalle parti, e non anche nel caso in cui il materiale probatorio acquisito agli atti imponga una determinata soluzione della controversia).

Per completezza è bene rilevare che in passato la Suprema Corte ha individuato soluzioni più elastiche: ad esempio è stato affermato che le commissioni tributarie, dotate di ampio potere estimativo anche sostitutivo, avvalendosi dei larghi poteri istruttori ad esse attribuiti possono acquisire aliunde gli elementi di decisione – nella specie, in materia di imposta di registro, disponendo una consulenza tecnica d'ufficio sulla confrontabilità degli immobili in valutazione con quelli indicati dall'ufficio – anche prescindendo dall'accertamento dell'Ufficio e dall'eventuale difetto di prova del suo assunto, con la conseguenza che, una volta esercitato siffatto potere, il contribuente non ha più interesse a dolersi del difetto di motivazione sull'eccezione relativa alla carenza di prova della pretesa impositiva (così Cass. civ., sez. trib., 24 maggio 2006, n. 12327).

Calando questi condivisibili principi di diritto nel caso sub iudice, non si può non notare che a sollecitare l'esercizio dei poteri istruttori del giudice tributario è stato non il contribuente, ma l'Amministrazione finanziaria. A sommesso parere di chi scrive sembra quantomeno bizzarro che tale linea difensiva sia stata adottata da un soggetto pubblico titolare di penetranti poteri istruttori e autore delle elaborazioni statistiche utilizzate per la ricostruzione presuntiva dei ricavi asseritamente occultati dalla società contribuente. La singolarità del caso di specie è ancor più evidente nell'astratta ipotesi in cui il giudice tributario scelga non di disporre una consulenza tecnica, ma di richiedere relazioni ad organi tecnici pubblici: come ha condivisibilmente rilevato la dottrina, la previsione di tale potere istruttorio è “in odore” d'illegittimità costituzionale, giacché di fatto demanda lo svolgimento dell'attività di consulenza al giudice ad un organo che è – sia pure indirettamente – anche parte processuale.

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