Coordinamento tra revocazione e ricorso per Cassazione

Mario Cavallaro
Marisa Abbatantuoni
09 Gennaio 2017

La sentenza della CTR Puglia 14 settembre 2016, n. 2081, consente di effettuare alcune brevi riflessioni sulla legittimità della proposizione dell'istanza di revocazione della sentenza di appello allorquando vi sia contestuale pendenza del ricorso per cassazione. I Giudici pugliesi, in ottemperanza alla giurisprudenza prevalente, riconoscono l'autonomia dei due giudizi e ne legittimano la coesistenza.
Massima

La revocazione è un mezzo d'impugnazione delle decisioni giurisdizionali di carattere eccezionale che può aggiungersi e talvolta sovrapporsi ai rimedi rescissori ordinari dell'appello e della cassazione e ciò al fine di riparare errori talmente incisivi per il giudizio da sovvertirne gli esiti. Rimedio “a critica vincolata”, per il quale il codice di rito fissa in via tassativa i motivi, che passano attraverso la verifica dell'esistenza dei vizi indicati dall'art. 395 c.p.c. e che riassumono fatti che abbiano in concreto esplicato, sulla formazione della decisione, una influenza decisiva, tale, cioè, che il giudizio avrebbe potuto avere esito diverso, qualora il giudice ne fosse stato a conoscenza e se essi non si fossero verificati (cfr. Cass. civ., sez. III, 3 marzo 1987, n. 2222).

Il caso

La corte pugliese, seguendo con evidenziata chiarezza l'orientamento giurisprudenziale in materia, dichiara ammissibile la domanda di revocazione proposta a seguito della sentenza della CTR n. 1262/13/2016 che aveva accolto l'appello dell'Agenzia delle Entrate – Direzione Provinciale di Bari.

Il contribuente sosteneva l'applicazione dell'art. 395, comma 4, c.p.c. in quanto i giudici di appello avevano ritenuto applicabile il raddoppio dei termini per l'accertamento di cui al d.P.R. n. 600/1973 sull'erroneo presupposto che l'omesso versamento delle ritenute fiscali nei confronti dei lavoratori dipendenti potesse integrare la fattispecie di reato p. e p. dall'art. 10-bis del D.Lgs. n. 74/2000. Al contrario, dalla documentazione agli atti risultava palesemente che le ritenute non versate erano sotto la soglia dei 50.000,00 euro previsti per la configurazione del reato e che la punibilità era prevista solo a decorrere dal 1° gennaio 2005, a fronte di accertamenti notificati per gli anni 2003, 2004 e 2005.

La questione

Tralasciando il merito della vicenda, quello che qui interessa è la legittimità processuale dell'operato della contribuente che prima propone il ricorso per cassazione e poi la domanda di revocazione avverso la sentenza della CTR n. 1262/13/2015 nonché la fondatezza dell'eccezione d'inammissibilità del ricorso per revocazione sollevata dall'Agenzia delle Entrate nel proprio atto di controdeduzioni innanzi al collegio tributario di seconda cura.

Le soluzioni giuridiche

Orbene, il rimedio previsto all'art. 398 c.p.c. nell'ambito del processo tributario può coesistere con il ricorso per Cassazione quando il giudizio non è più impugnabile per questioni afferenti il fatto, anche se dovesse pendere il ricorso per cassazione.

Sotto questo profilo, si usa fare una distinzione tra revocazione ordinaria e revocazione straordinaria. La prima si ha quando l'azione impedisce il passaggio in giudicato della sentenza.

La revocazione straordinaria, invece, si configura qualora l'azione venga proposta dopo il passaggio in giudicato della sentenza.

A dissipare ogni dubbio circa la possibile coesistenza dei due giudizi è la pronuncia, condivisa evidentemente dal Collegio pugliese, della Corte di Cassazione in data 16 luglio 2008 n. 19522 del seguente testuale tenore: "in tema di contenzioso tributario, l'art. 64 comma primo del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, nella parte in cui subordina l'ammissibilità della revocazione ordinaria alla non ulteriore impugnabilità della sentenza sul punto dell'accertamento in fatto, non si riferisce all'inoppugnabilità derivante dalla scadenza dei termini per l'impugnazione, ma a quella derivante dalle preclusioni relative all'oggetto del giudizio, ovverosia, per le sentenze di secondo grado, all'impossibilità di contestare l'accertamento in fatto in sede di legittimità: è pertanto ammissibile la revocazione ordinaria avverso una sentenza della commissione tributaria regionale inoppugnabile sotto il profilo dell'accertamento in fatto, ancorché non sia ancora scaduto il termine per la proposizione del ricorso per cassazione".

Inoltre, il giudizio di revocazione non sospende la decorrenza del termine di rito per la proposizione del giudizio di legittimità, né il procedimento, ove pendente, salvo provvedimento giudiziale su istanza di parte, ai sensi dell'art. 398 c.p.c.. Difatti sempre la Cassazione, nella sentenza n. 12701 del 5 giugno 2014, sez. I, afferma che, a seguito della modifica introdotta dall'art. 68 della Legge 26 novembre 1990, n. 353, la disciplina del concorso fra l'istanza di revocazione della sentenza d'appello e il ricorso per Cassazione è caratterizzata, in linea generale, dall'insussistenza di un effetto sospensivo automatico (conseguente all'istanza di revocazione) del termine per proporre il ricorso per cassazione.

Di conseguenza, si legge ancora in sentenza, in caso di accoglimento dell'istanza di sospensione da parte del Giudice della revocazione, il termine iniziale di decorrenza del periodo di sospensione non coincide con la data di presentazione dell'istanza stessa, ma con quella di emanazione del provvedimento previsto dall'art. 398, comma 4, c.p.c., senza che ciò pregiudichi il diritto dell'istante di agire in giudizio, atteso che egli dispone comunque per intero del termine di sessanta giorni dalla prima notifica per ricorrere per cassazione, qualunque sia l'esito dell'istanza di sospensione, mentre gli effetti della scelta di attendere la decisione sull'istanza di sospensione non possono che imputarsi alla stessa parte che tale scelta processuale ha ritenuto di compiere (cfr. Cass. civ. 30 maggio 2007, n. 12703 e Cass. civ. 20 gennaio 2006, n. 1196;).

Orbene, venendo ai motivi per i quali è possibile ai sensi dell'art. 64 del D.Lgs. n. 546/1992 incardinare il giudizio di revocazione, l'art. 395 c.p.c. precisa che sono passibili di revocazione le sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado (in materia tributaria le sentenze in unico grado sono quelle in cui le parti abbiano concordato per il ricorso diretto in Cassazione). Le sentenze di primo grado sono soggette a revocazione solo quando sono scaduti i termini per l'appello e solo per i motivi di revocazione straordinaria (dolo della parte, falsità delle prove, rinvenimento di documenti, dolo del giudice), perché gli altri motivi potevano essere fatti valere con l'appello (art. 64, D.Lgs. n. 546/1992).

Per le sentenze della Corte di Cassazione in materia tributaria la revocazione è ammessa in base alle norme del codice di procedura civile, alla luce delle integrazioni operate dalla Corte Costituzionale.

I motivi per i quali è possibile censurare le sentenze attraverso lo strumento processuale della revocazione si esplicano in sei casi:

1) se esse sono l'effetto del dolo di una parte in danno dell'altra;

2) se sono state rese sulla scorta di prove riconosciute o dichiarate false o successivamente o anche anteriormente, ma in maniera ignota alla parte interessata;

3) se dopo la sua pubblicazione siano rinvenute prove documentali decisive, non prima allegabili per forza maggiore o per fatto della controparte;

4) se la pronuncia è l'effetto di un errore di fatto risultante dagli atti, quando assuma esistente o inesistente una circostanza incontrovertibilmente sconfessata dai documenti di causa, quando questo non costituisca un punto controverso sub judice;

5) se la decisione contrasti con altra, passata in cosa giudicata tra le parti, purchè non abbia pronunciato sulla relativa eccezione;

6) se essa sia effetto del dolo del giudice, accertato con sentenza passata in giudicato.

Le sentenze revocabili

Come noto l'appello è un gravame “a critica libera”: di conseguenza, le censure inerenti la revocazione ordinaria (errore di fatto, contrasto di giudicati) devono essere fatte valere con tale mezzo di impugnazione, e non con la revocazione.

Il motivo di revocazione ordinaria si converte quindi in motivo di appello posto che, in caso contrario, si introdurrebbe un anomalo concorso di impugnazioni.

Per contro, le sentenze di primo grado sono impugnabili mediante revocazione straordinaria, se, in tali ipotesi, il termine per l'appello è già ormai decorso: se invece la scoperta del dolo o della falsità dichiarata o il recupero del documento o il passaggio in giudicato della sentenza avvengono durante il termine per l'appello, questo è prorogato in modo che il ricorrente abbia almeno 60 giorni a disposizione.

Le sentenze di secondo grado possono essere impugnate sia mediante revocazione ordinaria sia mediante revocazione straordinaria.

Nell'ipotesi della revocazione ordinaria, il motivo di revocazione non può convertirsi in motivo di ricorso per Cassazione, siccome si tratta di profili di fatto non rientranti tra i motivi proponibili alla S.C.. Quindi la revocazione può concorrere con il ricorso per Cassazione (cfr. CTR Roma 6 aprile 2001 n. 314).

È evidente che la revocazione ha un carattere pregiudiziale rispetto al ricorso per Cassazione, in quanto riguarda questioni di fatto (come, ad esempio, l'“errore revocatorio”) che costituiscono antecedente logico agli aspetti di legittimità. Come accennato sopra, la proposizione della revocazione non sospende il termine per proporre il relativo ricorso per Cassazione o il procedimento relativo.

Tuttavia, il Giudice davanti a cui è proposta la revocazione, su istanza di parte, può sospendere l'uno o l'altro fino alla comunicazione della sentenza che abbia pronunciato sulla revocazione, qualora ritenga non manifestamente infondata la proposta (art. 398 c.p.c.).

La sospensione del termine per proporre ricorso per Cassazione è quindi lasciata alla discrezionalità del giudice, che potrebbe non accogliere l'istanza. È opportuno ricordare che dal contemporaneo svolgimento dei due processi possono profilarsi differenti soluzioni giuridiche, e ciò a seconda che intervenga per prima la decisione nel giudizio innanzi la S.C. oppure quella relativa al giudizio per revocazione.

Premesso quanto sopra, le possibili ipotesi possono essere sintetizzate come di seguito:

  1. passaggio in giudicato della sentenza di accoglimento della revocazione, questa decisione si sostituisce alla sentenza che, nel frattempo, è stata impugnata mediante ricorso per Cassazione, con la conseguenza che quest'ultimo giudizio deve dichiararsi estinto per cessazione della materia del contendere;
  2. accoglimento del ricorso per Cassazione con annullamento senza rinvio, il giudizio di revocazione deve ritenersi estinto per cessazione della materia del contendere;
  3. accoglimento del ricorso per Cassazione con annullamento senza rinvio, la sentenza emanata antecedentemente dal giudice della revocazione viene “travolta” dalla pronuncia della Corte di Cassazione (art. 336 co. 2 c.p.c.);
  4. accoglimento del ricorso per Cassazione con decisione sul merito o annullamento con rinvio, il processo di revocazione dovrebbe ritenersi estinto;
  5. accoglimento del ricorso per Cassazione con decisione sul merito o annullamento con rinvio, la sentenza emanata antecedentemente sulla revocazione dovrebbe essere “travolta” dalla pronuncia della Corte di Cassazione (art. 336 co. 2 c.p.c.);
  6. rigetto del ricorso per Cassazione, il giudizio di revocazione deve proseguire (stante il suo carattere pregiudiziale rispetto al giudizio di Cassazione), con la conseguenza che, in caso di accoglimento dell'istanza di revoca, la sentenza della Corte di Cassazione rimarrà priva di effetti.

Venendo ora ai termini nei quali il ricorso per revocazione deve essere proposto, a pena di inammissibilità, occorre al riguardo distinguere la revocazione ordinaria dalla revocazione straordinaria. Difatti nella revocazione ordinaria il termine per impugnare la sentenza è di sessanta giorni. Tuttavia, in caso di mancata notifica della sentenza ad opera della parte, opera il c.d. “termine lungo” di sei mesi dalla data di pubblicazione della sentenza (art. 38 co. 3 del D.Lgs. n. 546/1992). Nella revocazione straordinaria il termine di sessanta giorni per la proposizione della revocazione straordinaria decorre dalla data in cui, a seconda dei casi:

  • è stato scoperto il dolo;
  • sono state dichiarate false le prove. In tale ipotesi, il termine dovrebbe decorrere dal momento in cui il soggetto ha avuto notizia della dichiarazione o del riconoscimento della falsità (cfr. Cass. civ., 25 maggio 2011 n. 11451);
  • è stato recuperato il documento;
  • è passata in giudicato la sentenza che ha accertato il dolo del giudice.

Se tali fatti accadono durante il termine per proporre appello, il termine stesso è prorogato dal giorno dell'avvenimento in modo da raggiungere i sessanta giorni da esso (art. 64 co. 3 del D.Lgs. n. 546/1992).

Qualora la parte abbia conoscenza dell'evento legittimante la revocazione straordinaria in un momento antecedente la notifica della sentenza, il termine di sessanta giorni decorre dalla data di notifica della sentenza stessa (cfr. Cass. civ. 26 gennaio 1985, n. 386).

Concentrando l'attenzione al caso di revocazione di cui al punto n. 4 dell'art. 395 c.p.c., oggetto della sentenza in commento, esso si configura quale rimedio ordinario, dovendo, come nel caso di specie, l'errore di fatto risultare dagli atti o documenti di causa, rilevabile dall'esame della sola sentenza. Tuttavia non ogni allegazione può legittimare l'utilizzo del rimedio in esame, bensì solo quella che dirompe nell'erronea percezione degli atti di causa "...L'errore di fatto costituente motivo di revocazione ex articolo 395 n. 4 del c.p.c. ...deve risultare sulla sola base della sentenza, nel senso che in essa sussista una rappresentazione della realtà in contrasto con gli atti e i documenti processuali regolarmente depositati.... (cfr. Cass. civ. 29 gennaio 1999, n. 75) ".

Come ulteriormente precisato nella seconda parte della norma appena richiamata, tale ipotesi si verifica nel caso in cui "...la decisione é fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità é incontestabilmente esclusa, oppure quando é supposta l'inesistenza di un fatto la cui verità é positivamente stabilita...".

La sentenza impugnata per revocazione deve basarsi su una circostanza (in positivo o in negativo) esclusa, nella sua realtà storica, dalla documentazione o dagli atti di causa, per cui il Giudice, in altri termini, deve aver preso in esame una fattispecie, in termini di fatto, in contrasto con quanto emerge dagli atti processuali o dai documenti prodotti dalle parti: deve trattarsi, quindi, di un errore di percezione (del fatto) e non di un errore di giudizio, cioè di valutazione del fatto e delle sue conseguenze giuridiche “Poichè l'errore di fatto revocatorio, di cui all'art. 395, n. 4, c.p.c., è un errore di percezione del giudice risultante dagli atti o documenti della causa, e non è quindi configurabile rispetto ad atti o documenti che non siano stati prodotti, è inammissibile la produzione nel giudizio di revocazione di nuovi documenti al fine di dimostrarne la sussistenza” (cfr. Cass. civ., sez. trib., 20 giugno 2002, n. 8974).

Insegna la giurisprudenza che l'errore di fatto, che può dar luogo a revocazione della sentenza ai sensi dell'art. 395, n. 4, c.p.c., richiamato dall'art. 391 c.p.c., consiste “nell'erronea percezione degli atti di causa, che si sostanzia nella supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure nella supposizione dell'inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita: sempre che il fatto oggetto dell'asserito errore non abbia costituito un punto controverso, sul quale la sentenza impugnata per revocazione abbia pronunziato. Tale genere di errore presuppone quindi il contrasto tra due diverse rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti una dalla sentenza e l'altra dagli atti e documenti processuali, purché, da un lato, la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione e non di giudizio, e dall'altro, quella risultante dagli atti e documenti non sia contestata dalle parti” (cfr. Cass. civ., ss. uu., 12 giugno 1997, n. 5303).

In altre parole, l'errore di fatto risultante dagli atti o dai documenti della causa sussiste non quando sia viziata la valutazione delle prove e delle allegazioni delle parti, ma quando sia frutto di una falsa percezione di ciò che emergeva dagli atti e non soltanto era incontroverso, ma non era neanche controvertibile, e non poteva dar luogo ad apprezzamenti di alcun genere.

Tale errore, quindi, deve avere il carattere di assoluta immediatezza e di semplice e concreta rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive e tanto meno di particolari indagini ermeneutiche e non è ravvisabile nella diversa ipotesi di errore costituente il frutto di un qualsiasi apprezzamento delle risultanze processuali (cfr. Cass. civ., sez. lav., 28 agosto 1997, n. 8118).

Osservazioni

L'errore, come sopra descritto è stato dunque, riscontrato dalla Commissione pugliese, che ha sanzionato l'erroneo raddoppio dei termini di accertamento, fondato sulla carenza dei presupposti per la configurabilità del reato di cui all'art. 10-bis del D.Lgs. n. 74/2000. Inoltre la sentenza in commento accoglie il consolidato orientamento giurisprudenziale legittimando in tal modo il comportamento processuale della contribuente relativamente alla coesistente istaurazione del giudizio innanzi alla Cassazione e alla CTR della Puglia.

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