Società di comodo: la prova dell'esistenza di situazioni oggettive e straordinarie spetta al contribuente

Francesco Brandi
12 Giugno 2017

In materia di società di comodo, i parametri previsti dall'art. 30 della Legge n. 724/1994, sono fondati sulla correlazione tra il valore di determinati beni patrimoniali ed un livello minimo di ricavi e proventi, il cui mancato raggiungimento costituisce elemento sintomatico della natura non operativa della società, spettando, poi, al contribuente fornire la prova contraria e dimostrare l'esistenza di situazioni oggettive e straordinarie che abbiano impedito il raggiungimento della soglia di operatività e di reddito minimo presunto.
Massima

In materia di società di comodo, i parametri previsti dall'art. 30 della Legge n. 724/1994, nel testo risultante dalle modifiche apportate dall'art. 35 del D.L. n. 223/2006, conv. nella Legge n. 248/2006, sono fondati sulla correlazione tra il valore di determinati beni patrimoniali ed un livello minimo di ricavi e proventi, il cui mancato raggiungimento costituisce elemento sintomatico della natura non operativa della società, spettando, poi, al contribuente fornire la prova contraria e dimostrare l'esistenza di situazioni oggettive e straordinarie, specifiche ed indipendenti dalla sua volontà, che abbiano impedito il raggiungimento della soglia di operatività e di reddito minimo presunto. Va quindi confermato l'avviso di accertamento emesso nei confronti di una società del settore alberghiero che abbia locato l'unica struttura ad un canone incongruo rispetto alle condizioni di mercato e non remunerativo rispetto alle rilevanti spese di ristrutturazione sostenute.

Il caso

Una società proprietaria di una struttura alberghiera presentava all'amministrazione finanziaria istanza di interpello disapplicativo ex art. 37-bis, comma 8, d.P.R. n. 600/1973, al fine di vedersi esonerata dall'obbligo di dichiarare il reddito minimo desunto secondo le indicazioni dell'art. 30 della Legge n. 724/1994.

La richiesta veniva respinta dalla competente direzione provinciale per totale inesistenza dei requisiti legittimanti la richiesta di disapplicazione.

A seguito del mancato adeguamento in dichiarazione l'Agenzia delle Entrate notificava avvisi di accertamento, relativamente all'anno 2006, sia alla società che ai soci per le rispettive quote,

In sede contenziosa il giudice di primo grado riteneva fondate le rimostranze dei ricorrenti, mentre il collegio di appello, in totale riforma della sentenza di prime cure, rilevava che la società non aveva adeguatamente giustificato l'inoperatività presunta secondo legge.

I contribuenti ricorrevano in Cassazione, lamentando violazione e falsa applicazione della Legge n. 724/1994, articolo 30, comma 1, in relazione all'art. 360 c.p.c. comma 1, n. 3, e vizio motivazionale, non avendo il giudice di appello correttamente valutato la circostanza che nell'annualità oggetto di accertamento la società verificata aveva affittato la propria unica azienda, ed escludendo, in tal modo, l'applicabilità della normativa antielusiva.

Con la pronuncia in commento la Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dai contribuenti che venivano altresì condannati alla refusione delle spese di lite.

Secondo la Cassazione “in materia di società di comodo, i parametri previsti dalla L. n. 724/1994, art. 30, nel testo risultante dalle modifiche apportate dal D.L. n. 223/2006, art. 35, convertito nella L. n. 248/2006, sono fondati sulla correlazione tra il valore di determinati beni patrimoniali ed un livello minimo di ricavi e proventi, il cui mancato raggiungimento costituisce elemento sintomatico della natura non operativa della società, spettando, poi, al contribuente fornire la prova contraria e dimostrare l'esistenza di situazioni oggettive e straordinarie, specifiche ed indipendenti dalla sua volontà, che abbiano impedito il raggiungimento della soglia di operatività e di reddito minimo presunto” (cfr. Cass. civ., n. 21358/2015). Tali coefficienti, in altri termini escludono ogni discrezionalità deduttiva dell'amministrazione finanziaria rappresentando presunzioni legali relative che determinano l'inversione dell'onere della prova.

Nella fattispecie in esame, i giudici di appello avevano correttamente rilevato che, nell'annualità verificata, la società “è stata gestita in perdita senza obiettivi immediati e concreti”, perché l'unico bene di proprietà, costituito da un albergo in una nota località turistica, è stato ceduto in locazione a terzi, “ad un canone incongruo rispetto alle condizioni di mercato e non remunerativo rispetto alle rilevanti spese di risanamento e ristrutturazione sostenute nel corso degli anni 2004 e 2005 registrate nel libro dei cespiti ammortizzabili nella misura complessiva di euro 365.833,36 e tanto basta per non superare il ‘test di operatività', non essendo necessarie indagini per rivelare l'esistenza di intenzioni fraudolente o elusive”.

La Commissione di secondo grado, inoltre, ha rilevato che la contribuente non aveva fornito la prova contraria che le incombeva, “in particolare rispetto alla plateale antieconomicità delle spese di ristrutturazione della struttura alberghiera e che non potevasi applicare la previsione di cui al comma 4-bis dell'art. 30, della Legge n. 724/1994 essendo a tal fine irrilevanti le scelte volontarie del contribuente, quali quella della società ricorrente, quanto piuttosto necessarie ‘oggettive situazioni' esimenti.”

Le questioni

La normativa sulle società di comodo risponde all'obiettivo di assicurare che determinate società a rischio di evasione fiscale, assolvano in via automatica e in forza di presunzioni legali relative un'obbligazione tributaria minima determinata forfettariamente sulla base di determinati elementi patrimoniali che caratterizzano la struttura aziendale delle stesse, senza alcuna preclusione della potestà di accertamento che, nelle forme ordinarie, l'Amministrazione potrà sempre esercitare, indipendentemente dall'esito dell'istanza di disapplicazione.

La pronuncia in esame è utile in quanto precisa come si ripartisca l'onere probatorio in sede contenziosa, contribuendo (seppur limitatamente alla fattispecie in esame ma con riflessi potenziali anche su situazioni analoghe) a delineare il possibile contenuto della prova contraria a carico dei contribuenti.

Le soluzioni giuridiche

La disciplina fiscale delle società non operative è stata introdotta nell'ordinamento italiano dall'art. 30 della Legge 23 dicembre 1994, n. 724.

La stessa è stata successivamente modificata:

  • dall'art. 35, commi 15 e 16, del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, (convertito dalla Legge 4 agosto 2006, n. 248) con cui è stato disposto l'innalzamento delle percentuali utilizzate per stabilire se una società possa rientrare nel novero delle società non operative; l'innalzamento delle percentuali utilizzate per stabilire l'entità del reddito minimo che deve essere obbligatoriamente dichiarato dalle società non operative; l'impossibilità di chiedere a rimborso, di cedere o di utilizzare in compensazione ai sensi dell'art. 17 del D.Lgs. 9 luglio 1997, n. 241, l'IVA a credito; la possibilità di chiedere, al Direttore regionale dell'Agenzia delle Entrate, ai sensi dell'art. 37-bis, comma 8, del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, la disapplicazione delle norme antielusive in commento qualora il contribuente evidenzi situazioni straordinarie che di fatto hanno reso impossibile il conseguimento dei parametri e degli obiettivi previsti dalle medesime disposizioni;
  • dall'art. 1, commi 128 e 129, della Legge 24 dicembre 2007, n. 244 con cui Il legislatore, oltre a variare i coefficienti per la determinazione del test di operatività e per l'individuazione del reddito minimo, ha previsto la possibilità di individuare, con provvedimento ad hoc – da emanarsi a cura del Direttore dell'Agenzia delle Entrate – una serie di casistiche concrete che consentano ai soggetti che vi rientrano di disapplicare la normativa sulle società di comodo senza dover assolvere l'obbligo di presentare apposita istanza (si veda il provvedimento adottato il 14 febbraio 2008, n. 23681 dal direttore dell'Agenzia delle Entrate);
  • e, da ultimo, dall'art. 2, commi da 36-decies a 36-duodecies, del D.L. 13 agosto 2011, n. 138 - convertito dalla Legge 14 settembre 2011, n. 148 - che ha previsto l'ampliamento della categoria delle società non operative anche ai soggetti in «perdita sistematica». L'art. 2, commi da 36-decies a 36-duodecies, del D.L. 13 agosto 2011 n. 138, convertito, con modificazioni, nella Legge 14 settembre 2011, n. 148, ha introdotto la disciplina sulle c.d. società in perdita sistematica. In base a tale disciplina, pur non ricorrendo le condizioni di cui all'art. 30 della Legge 23 dicembre 1994, n. 724, le società che presentano dichiarazioni in perdita fiscale per tre periodi d'imposta consecutivi sono considerate di comodo ai sensi e per gli effetti del citato art. 30, a decorrere dal quarto periodo d'imposta. A seguito delle modifiche apportate dall'art. 18 del Decreto Semplificazioni, a decorrere dal periodo d'imposta 2014 il periodo di osservazione previsto per l'applicazione della disciplina sulle società in perdita sistematica ex art. 2 del D.L. n. 138/2011 è stato ampliato da 3 a 5 periodi d'imposta. Pertanto, il presupposto per l'applicazione di tale disciplina è ora costituito da 5 periodi d'imposta consecutivi in perdita fiscale ovvero 4 in perdita fiscale e 1 con reddito imponibile inferiore al c.d. reddito minimo ex art. 30 della L. n. 724/1994. La disposizione prevede espressamente che le modifiche introdotte trovano applicazione a decorrere dal periodo d'imposta in corso all'entrata in vigore del provvedimento che le introduce, ossia, per i soggetti con periodo d'imposta coincidente con l'anno solare, dal periodo d'imposta 01.01.2014-31.12.2014.

Le norme di cui sopra sono state introdotte allo scopo di contrastare le c.d. «società di comodo» e, in particolare, disincentivare l'utilizzo strumentale della forma societaria per usufruire di indebiti vantaggi fiscali (spesso vengono intestati alla società determinati beni, mobili e immobili, automobili di lusso, imbarcazioni, aeromobili, ecc., che, in realtà, permangono nella disponibilità dei soci o dei loro familiari). Di norma, il vantaggio fiscale indebito si sostanzia nella detrazione dell'IVA assolta sull'acquisto dei predetti beni, nonché nella deduzione del relativo costo dal reddito d'impresa.

A norma della richiamata disciplina, sono considerate non operative:

(i) le società che dichiarano ricavi secondo importi inferiori a quelli che risultano dall'applicazione di specifiche percentuali su determinati beni patrimoniali posseduti dalle stesse (c.d. test di operatività);

(ii) le società che presentano dichiarazioni in perdita fiscale per tre periodi d'imposta consecutivi (c.d. società in perdita sistematica).

Tali società, considerate non operative perché non hanno superato il test di operatività o perché riscontrate in perdita sistematica, sono assoggettate a un regime speciale rilevante sia ai fini dell'IRES che dell'IRAp, sia ai fini dell'IVA.

Gli effetti per le società non operative sono alquanto penalizzanti:

  • devono dichiarare obbligatoriamente il reddito minimo ai fini IRES nonché il valore della produzione minimo ai fini IRAP.
  • l'aliquota IRES è maggiorata di 10,5 punti percentuali (38%).
  • nel periodo in cui la società è non operativa, il riporto delle perdite è limitato: sarà possibile utilizzare le perdite di periodi precedenti soltanto in diminuzione del reddito eccedente quello minimo.
  • il credito IVA non può essere compensato orizzontalmente, ceduto o richiesto a rimborso. Così, ad esempio, per una società in perdita fiscale nel periodo 2009-2013, che risulta non operativa nel 2014, la preclusione dell'utilizzo del credito IVA interessa il credito risultante dalla dichiarazione annuale per il 2014. In tal caso il divieto di utilizzo del credito decorre dal 1° gennaio 2015.
  • se per 3 periodi d'imposta consecutivi sono assenti operazioni attive rilevanti ai fini IVA, il credito IVA non potrà più essere compensato verticalmente nei periodi d'imposta successivi. Quest'ultima disposizione chiaramente non è stata coordinata dal D.Lgs. n. 175/2014 con l'ampliamento a n. 5 periodi d'imposta, rimanendo in vigore il vecchio limite triennale.

La richiamata disciplina tuttavia non trova applicazione nei confronti delle società:

  1. per le quali ricorra una delle cause di esclusione indicate al richiamato art. 30, comma 1, ovvero;
  2. che ottengano dal Direttore regionale un parere favorevole in ordine a specifica istanza di disapplicazione, presentata a norma del comma 4-bis del medesimo art. 30, in relazione ad “oggettive situazioni che hanno reso impossibile il conseguimento dei ricavi, degli incrementi di rimanenze e dei proventi nonché del reddito (…) ovvero non hanno consentito di effettuare le operazioni rilevanti ai fini dell'imposta sul valore aggiunto”.

In aggiunta a quelle individuate dalla norma, ulteriori cause di esclusione della disciplina delle società non operative sono state individuate con provvedimenti del Direttore dell'Agenzia delle Entrate.

Nel provvedimento del 14 febbraio 2008 (prot. n. 23681) il Direttore dell'Agenzia delle Entrate individua altre situazioni oggettive che consentono la disapplicazione della disciplina sulle società di comodo, senza necessità di presentare istanza di interpello (c.d. disapplicazione automatica del regime), a partire dal periodo d'imposta in corso al 31 dicembre 2007. In sintesi vengono escluse dall'applicazione della disciplina in esame le:

a) società in stato di liquidazione;

b) società in stato di fallimento;

c) società sottoposte a sequestro penale o a confisca;

d) società che dispongono di immobilizzazioni costituite da immobili concessi in locazione ad enti pubblici ovvero locati a canone vincolato;

e) società che detengono partecipazioni in società considerate non di comodo, in società collegate residenti all'estero cui si applica il regime dell'art. 168 del TUIR;

f) società che hanno ottenuto l'accoglimento dell'istanza di disapplicazione in relazione ad un precedente periodo di imposta sulla base di circostanze oggettive.

Con il successivo provvedimento dell'11 giugno 2012 (prot. n. 2012/87956) il Direttore dell'Agenzia delle Entrate ha individuato nuove cause di disapplicazione automatica, che si riferiscono specificamente alle società in «perdita sistematica» e che vanno ad integrare le cause di disapplicazione automatica elencate nel provvedimento del Direttore dell'Agenzia delle entrate del 14 febbraio 2008, n. 23681.

Quindi a fronte di cause generali (provvedimento 2008) ancora applicabili, in quanto compatibili, anche rispetto alle società in perdita, sono presenti anche cause speciali (provvedimento 2012), applicabili solamente a queste ultime, e non anche alle società di comodo “classiche”.

Il soggetto che non abbia superato il test di operatività ovvero versi in situazione di perdita sistematica, qualora non intenda applicare autonomamente la disciplina delle società non operative è tenuto a presentare la predetta istanza di disapplicazione.

Con specifico riferimento all'istanza di disapplicazione si evidenzia che, secondo le più recenti indicazioni di prassi, la stessa, ancorché obbligatoria, non costituisce imprescindibile presupposto ai fini della disapplicazione.

Con specifico riferimento all'istanza di disapplicazione si evidenzia che, secondo le indicazioni di prassi, la stessa, quando era obbligatoria (ora è diventata facoltativa ai sensi del D.Lgs. n. 156/2015), non costituiva imprescindibile presupposto ai fini della disapplicazione della normativa in esame; l'omessa presentazione della stessa, infatti, non preclude al contribuente la possibilità di impugnare l'avviso di accertamento nel quale si contesti la disapplicazione del regime delle società non operative.

Il provvedimento con il quale il direttore regionale rigetta l'istanza di disapplicazione, come affermato nella circolare n. 5 del 2 febbraio 2007, non è impugnabile in quanto trattasi di mero parere non avente natura provvedimentale mancando del requisito dell'immediata lesività. Nella stessa Circolare si evidenzia peraltro «la possibilità di riproporre la questione concernente l'operatività della società o dell'ente all'esame dei giudici tributari, mediante impugnazione dell'eventuale avviso di accertamento emesso del competente ufficio a seguito del rigetto dell'istanza da parte del Direttore regionale»; tale chiarimento viene ribadito nella Circolaren. 14 del 15 marzo 2007.

Questa tesi dell'amministrazione finanziaria è stata confermata in sede legislativa.

Le modifiche apportate allo Statuto dal D.Lgs. n. 156/2015, hanno espressamente previsto che “la risposta alle istanze di interpello di cui all'articolo 11” dello Statutonon è impugnabile”, confermando il consolidato orientamento dell'Amministrazione (cfr., da ultimo, Circolare n. 32/2010), teso a negare tutela giurisdizionale (sia dinanzi al giudice tributario che davanti a quello amministrativo) avverso le risposte a istanze di interpello, conformemente alla loro natura di “pareri” (e quindi di atti privi dei caratteri necessari per la loro immediata ricorribilità in giudizio) e alle regole di istruttoria che non attribuiscono mai all'amministrazione poteri in ordine alla verifica della completezza e veridicità delle informazioni fornite dall'istante.


Ferma restando la non espressa inclusione delle risposte all'interpello nel novero degli atti impugnabili ai sensi dell'art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992, appare determinante rispetto al tema in esame che la risposta resa in sede di interpello non presenta i requisiti minimi per l'impugnabilità, dal momento che non è esercizio di un potere autoritativo con il quale si esercita una pretesa fiscale, ma ha natura meramente consultiva.

L'Amministrazione finanziaria esprime il proprio parere esclusivamente sulla base dei documenti prodotti dal contribuente in sede di presentazione dell'istanza. Il carattere non vincolante del parere reso in questa fase, direttamente desumibile dalla natura consultiva dell'attività svolta dall'Amministrazione, qualifica la risposta all'interpello come atto amministrativo non provvedimentale che, in quanto privo dei requisiti di esecutività (non produce automaticamente e immediatamente effetti) ed esecutorietà (non impone coattivamente l'adempimento di alcun obbligo), risulta carente delle caratteristiche che potrebbero determinare una lesione dei diritti dell'istante, suscettibile di immediata tutela giurisdizionale.


In tal senso, sulla questione dell'autonoma impugnabilità delle risposte rese in sede di interpello, si è già espressa anche la Corte costituzionale, con la sentenza n. 191/2007, e il Consiglio di Stato, con decisione n. 414/2009, che ha escluso espressamente la possibilità di assimilare il parere negativo alla disapplicazione della norma a un provvedimento di diniego di agevolazione (e, quindi, direttamente impugnabile innanzi al giudice tributario a norma dell'art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992), aggiungendo inoltre che “in nulla è pregiudicato il diritto (…) di impugnare, tempestivamente e a tempo debito, gli eventuali atti rientranti nella previsione dell'art.19 D.Lgs. n. 546/1992, nei quali dovesse farsi applicazione delle disposizioni antielusive il cui esonero è stato negato (…)”.

Osservazioni

Il principio sancito dalla sentenza in commento è assolutamente pacifico in giurisprudenza: si tratta solamente di individuare quelle situazioni oggettive ed eccezionali che giustificano il mancato conseguimento dei ricavi minimi. Qui di seguito si propone una casistica tratta da alcune rilevanti pronunce di merito.

Per evitare l'applicazione del reddito minimo previsto nell'ambito della disciplina delle “società non operative”, il contribuente deve provare sopravvenute situazioni oggettive che abbiano reso impossibile il conseguimento dei ricavi minimi previsti dalla legge, per tale potendosi considerare ad esempio l'impossibilità di praticare canoni di locazione superiori a quelli di mercato e non la stipula di un contratto a canone agevolato: in quest'ultimo caso, infatti, si è in presenza di una scelta soggettiva dell'imprenditore non utilizzabile ai fini della disapplicazione della disciplina delle società non operative.

Lo ha stabilito la Commissione tributaria di II grado di Trento con la sentenza n. 51/2/2015 che, in accoglimento dell'appello dell'Agenzia delle Entrate, ha ribaltato l'esito dei giudici di primo grado, che avevano annullato l'avviso di accertamento ritenendo sufficienti al fine della disapplicazione della disciplina di cui sopra le condizioni “oggettive” rappresentate dalla stagionalità dell'attività di ristorazione esercitata e la posizione periferica dell'immobile.

Quanto alla stagionalità, i giudici di secondo grado hanno evidenziato che la stessa sia una caratteristica di quasi tutti gli esercizi operanti nel comprensorio delle Dolomiti. L'imprenditore della zona turistica è consapevole che la propria attività sia stagionale ed opera affinché i propri ricavi siano coerenti col test di operatività: si tratta infatti di una situazione “strutturale” che non può rappresentare una contingenza atta a determinare l'impossibilità di conseguire ricavi adeguati.

In merito alla collocazione periferica i giudici, concordando con le argomentazioni dell'Agenzia delle Entrate hanno evidenziato, al contrario, come la struttura fosse collocata in un comprensorio dedito al turismo naturale, da considerare come un valore aggiunto.

In altre situazioni i giudici di merito hanno ritenuto non rilevante in termini di oggettiva situazione idonea a giustificare la disapplicazione della disciplina dettata per le società non operative, la lite giudiziaria pendente tra le parti contrattuali o l'invocata crisi del settore di attività.

Ad esempio la CTR del Friuli, nella sentenza n. 19/01/12 del 14 febbraio 2012, ha ritenuto elementi non idonei ad integrare l'onere della prova gravante sul contribuente le ragioni inerenti la crisi del settore, qualora trattasi di elementi “…legati esclusivamente all'intero comparto, nulla dicendo gli stessi sulla situazione della società qui oggetto della verifica fiscale”. In particolare, i giudici di appello hanno considerato non idonei gli studi e i sondaggi effettuati dalla Camera di Commercio e dalla Banca d'Italia relativi alla crisi del settore, quello della sedia, in cui operava la società accertata. La CTR, infatti, rinviando alla sentenza della Suprema Corte n. 24912 del 10 ottobre 2008 in materia di coefficienti presuntivi di reddito, nella quale si precisa che “il contribuente può sempre dimostrare l'insussistenza dei presupposti per l'applicazione dei maggiori indici di reddito previsti, dando prova di specifiche circostanze che rivelino il conseguimento di un ammontare di ricavi inferiore…”, ha affermato “non vi è ora chi non veda come le specifiche circostanze richieste tali non sono state, poiché relative non alla società stessa ma a tutto il settore”.

È stata altresì ritenuta irrilevante la lite giudiziaria pendente tra le parti contrattuali.

In particolare la CTR Campania, con la sentenza n. 3592/44/14 dell'8 aprile 2014, in presenza di contenzioso giudiziario scaturente dalla decisione della Regione, quale parte affittuaria, di risolvere anticipatamente un contratto di affitto di ramo d'azienda, ha ritenuto che non ricorrevano situazioni di carattere oggettivo tali da rendere impossibile il conseguimento di ricavi da parte della società concedente, in considerazione del fatto che le parti contraenti avevano raggiunto una soluzione transattiva in base alla quale l'amministrazione si impegnava a versare la somma di € 150.000,00. Per tali motivi, i giudici di seconde cure hanno concluso affermando che “deve ritenersi che nonostante la risoluzione anticipata dal contratto, la società ricorrente abbia comunque potuto percepire nel corso dell'anno oggetto dell'avviso di accertamento, dei redditi di gran lunga superiori rispetto a quelli di cui all'avviso stesso…”.

Infine si segnala un'ultima pronuncia.

Con la sentenza n. 967/28/2014, depositata 14 febbraio 2014, la CTR di Roma ha accolto l'appello dell'Ufficio, ritenendo non sufficienti le prove fornite dalla società ricorrente con riferimento alla sussistenza di situazioni oggettive di natura straordinaria idonee ad impedire il conseguimento di ricavi. In particolare nel caso di specie, la società asseriva quale evento straordinario, nel periodo d'imposta accertato, la ristrutturazione dell'immobile più significativo del patrimonio. I giudici di secondo grado hanno ritenuto legittima la mancata inclusione nel test di operatività dell'immobile in ristrutturazione, tra l'altro, autorizzata dall'Ufficio in sede di interpello. “Con riguardo invece alla mancata esclusione dal test, delle attrezzature che, per la parte contribuente avrebbe dovuto essere conseguenza dell'esclusione dell'immobile in cui queste erano contenute, si osserva che, al di là della contraddittorietà tra le due doglianze evidenziata dall'ufficio, ricorre una evidente differenza tra l'immobile in ristrutturazione e le attrezzature in esso contenute, atteso che per il primo, l'oggettiva situazione di carattere straordinario aveva reso impossibile il conseguimento di ricavi, mentre per le seconde non sussisteva alcuna situazione di carattere straordinario, né le stesse potevano automaticamente considerarsi oggetto di ristrutturazione”.

La pronuncia in commento conferma quindi quel filone nel quale i giudici di merito hanno attestato il mancato adempimento dell'onere della prova gravante sul contribuente inerente la sussistenza di oggettive situazioni idonee a giustificare il mancato conseguimento del reddito minimo (in tal senso si veda anche la CTR Veneto, sez. Verona, sentenza n. 262/15/2014, depositata in data 10/02/2014, con riguardo ad una società immobiliare con immobili improduttivi).

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