Sull'ipotizzata efficacia scriminante della crisi di liquidità nella dinamica del reato di omesso versamento IVA

12 Luglio 2017

L'attuale scenario economico, soprattutto nazionale, segnato da una profonda recessione, ha rivitalizzato la problematica, non nuova nel diritto penale tributario, del rapporto tra crisi d'impresa e reati fiscali.Nella sentenza di seguito esaminata viene ricordato che il reato di omesso versamento IVA è integrato, sotto il profilo dell'elemento soggettivo, dal dolo generico, quale coscienza e volontà di non versare all'Erario l'imposta sul valore aggiunto relativa al periodo considerato. In tale contesto, l'agente può invocare l'assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta, quale causa di esclusione della responsabilità penale, a condizione che provveda ad assolvere gli oneri probatori.
Massima

Il reato di omesso versamento IVA, previsto dall'art. 10-ter del D.Lgs. n. 74/2000, è integrato, sotto il profilo dell'elemento soggettivo, dal dolo generico, quale coscienza e volontà di non versare all'Erario l'imposta sul valore aggiunto relativa al periodo considerato. In tale contesto, l'agente può invocare l'assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta, quale causa di esclusione della responsabilità penale, a condizione che provveda ad assolvere gli oneri probatori concernenti sia il profilo della non imputabilità a lui medesimo della crisi di liquidità che ha investito l'azienda, sia l'aspetto della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale.

Premessa

L'attuale scenario economico, soprattutto nazionale, segnato da una profonda recessione, ha rivitalizzato la problematica, non nuova nel diritto penale tributario, del rapporto tra crisi d'impresa e reati fiscali.

Invero, moltissime aziende si ritrovano oggi a fronteggiare le scadenze previste dalla legislazione tributaria, o in uno stato d'impossibilità assoluta all'adempimento, non avendo il contribuente alcuna disponibilità finanziaria utile al pagamento dell'imposta dovuta ed avendo anche avuto esito negativo il tentativo di ricorrere ad un finanziamento, o in uno stato d'impossibilità relativa, ponendosi di fronte alla difficile scelta fra il versare le imposte o impiegare le esigue ed insufficienti risorse a disposizione per soddisfare altri creditori, in primis i propri dipendenti, al fine di garantire quantomeno la continuità del ciclo produttivo e la stessa sopravvivenza dell'impresa.

Tale incapacità per un numero sempre crescente di imprenditori di adempiere ai propri obblighi tributari, mai presentatesi in passato in maniera così dirompente, ha imposto una riflessione sulla possibilità di ritenere non integrato l'elemento psicologico dei reati configurabili (in particolare, dei delitti di cui agli artt. 10-bis - omesso versamento delle ritenute certificate e 10-ter - omesso versamento dell'IVA del D.Lgs. n. 74/2000), reputando l'omesso versamento dei tributi da parte dell'imprenditore in difficoltà finanziaria una condotta inesigibile o assolutamente necessitata e non una scelta, libera e consapevole, sempre penalmente punibile.

Per escludere la configurazione dei reati tributari si è fatto quindi rinvio, di volta in volta, ad istituti come l'assenza dell'elemento soggettivo, la sussistenza di forza maggiore, l'inesigibilità o la carenza di nesso causale.

Tuttavia, tali inquadramenti hanno portato, di fatto, a soluzioni spesso contrastanti da parte dei giudici di merito in presenza di una posizione di parte della dottrina diretta a valorizzare questo elemento e di decisioni di segno opposto da parte della giurisprudenza di legittimità, che solo eccezionalmente è giunta a riconoscere la non responsabilità dell'imputato, dovendosi intendere la crisi di liquidità come una condizione economica che deve presentare i connotati della gravità e che, comunque, non può dipendere da propri comportamenti colpevoli.

Come fatto notare da parte della dottrina (tra cui, Cuomo-Molino, Omesso versamento di imposte e crisi di impresa - Failure to pay taxes and corporate criminal liability, Giuffrè, Milano, 2015), ad alimentare la discussione hanno contribuito poi alcune considerazioni di carattere più generale: una su tutte, il ritorno alla criminalizzazione di comportamenti collegati al momento del versamento delle imposte, piuttosto che alle condotte formali e prodromiche all'evasione che avevano ispirato la riforma dei reati tributari approvata con il D.Lgs. n. 74/2000.

Il caso

Con sentenza del 7 gennaio 2016, la Corte di Appello di Genova, in riforma della pronuncia emessa il 13 novembre 2014 dal Tribunale della Spezia, sanciva la penale responsabilità di una contribuente per il reato di cui all'art. 10-ter del D. Lgs. n. 74/2000, in quanto, nella sua qualità di socio di maggioranza e di amministratore unico di una S.r.l., a far data dall'8 settembre 2011, ometteva di versare l'Iva dovuta per l'anno 2010 per un importo complessivo di 423.602,00 Euro, condannandola così alla pena di mesi sei di reclusione.

Avverso la predetta sentenza di condanna, la contribuente, a mezzo del proprio difensore, proponeva ricorso per Cassazione, articolando i seguenti motivi di gravame:

1) con il primo motivo, veniva dedotta l'erronea applicazione degli artt. 27 Cost. e 43 cod. pen., in relazione al profilo soggettivo del reato, in quanto la Corte di Appello avrebbe riformato la sentenza di primo grado sulla base di un mero dato formale, ovvero la carica ricoperta, senza alcun esame del carattere soggettivo della condotta, il quale, peraltro, difetterebbe del tutto nel caso di specie, atteso che la pesantissima situazione debitoria della società, impossibile da sostenere, era imputabile alla precedente gestione (anni 2008-2009), come riferito, tra l'altro, da entrambe le sentenze.

Ancora, il Collegio di merito non avrebbe inoltre considerato che, giusti i pacifici esiti istruttori, la ricorrente era del tutto priva di poteri effettivi e capacità gestoria, dovendosi affidare, dalla morte del marito, precedente amministratore, interamente a terzi. A ciò si aggiunga che la somma incassata nel 2010 per la vendita di tre immobili (da cui scaturirebbe l'IVA non versata) non era nella libera disponibilità della ricorrente, poiché posta a garanzia di impegni finanziari della società, come già evidenziato dal giudice di prime cure. Da qui, l'oggettiva assenza di liquidità per provvedere al pagamento;

2) con il secondo ed ultimo motivo, si lamentava infine la carenza motivazionale in punto di circostanze attenuanti generiche e benefici di legge, per cui il diniego delle prime risulterebbe privo di congruo argomento, esaurendosi in un'espressione apodittica e sprovvista di contenuto.

La questione

Ora, è evidente come l'ipotizzata rilevanza esimente della crisi di liquidità, nella dinamica del delitto di cui all'art. 10-ter del D.Lgs. n. 74/2000, assuma un ruolo fondamentale per comprendere se il mancato versamento dell'imposta dovuta debba considerarsi il frutto di una libera e consapevole scelta del contribuente oppure possa ritenersi il prodotto di una situazione obbligata derivante da una difficoltà economica che renda impossibile l'adempimento del proprio obbligo, venendo così a mancare nel soggetto attivo del reato il necessario dolo e, di conseguenza, la configurabilità in capo all'agente di qualsivoglia profilo di responsabilità penale.

La questione, invero, è centrale per l'effettiva applicazione di questa fattispecie, tenendo conto che, quasi sempre, l'omesso versamento IVA ha origine in difficoltà finanziarie dell'obbligato, in quanto solo una tale condizione lo può indurre, prima, a dichiararsi, in modo corretto, debitore di quell'imposta e, poi - in assenza di qualsiasi manovra diretta ad ingannare l'Erario - a non versarla in una situazione nella quale il contribuente/evasore è consapevole della certa attivazione, nei suoi confronti, di una procedura di riscossione, trattandosi di somme dovute sulla base di quanto dal medesimo indicato nella dichiarazione annuale.

Le soluzioni giuridiche

Ebbene, con la pronuncia in esame, la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione, dopo aver ricordato che, quanto all'elemento soggettivo della fattispecie di reato in esame, lo stesso risulta integrato dal dolo generico, quale coscienza e volontà di non versare all'Erario l'imposta sul valore aggiunto relativo al periodo considerato (si vedano, ex pluribus: Cass. pen., SS. UU., 28 marzo 2013, n. 37425), ribadisce il proprio costante indirizzo di legittimità per cui l'imputato può invocare la assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta, quale causa di esclusione della responsabilità penale, solo a condizione che provveda ad assolvere gli oneri di allegazione concernenti sia il profilo della non imputabilità a lui medesimo della crisi economica che ha investito l'azienda, sia l'aspetto della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure idonee da valutarsi in concreto (cfr. Cass. pen., sez. III, 8 aprile 2014, n. 20266).

In altri termini, si richiede al contribuente la prova che non gli sia stato possibile reperire altrimenti le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di una improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili (cfr. Cass. pen., sez. III, 5 dicembre 2013, n. 5467).

A ciò va aggiunto che il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (cfr., per tutte, Cass. pen., SS. UU., 12 luglio 2005, n. 33748; successivamente, tra le altre, Cass. pen., sez. VI, 20 gennaio 2015, n. 10130, Marsili, Rv. 262907).

Con particolare riguardo, poi, al caso in cui la riforma investa una precedente decisione di assoluzione, come nel caso di specie, vale dunque il principio per cui il secondo giudice ha l'obbligo di dimostrare specificamente l'insostenibilità, sul piano logico e giuridico, degli argomenti più rilevanti della sentenza di primo grado, con rigorosa e penetrante analisi critica seguita da completa e convincente motivazione che, sovrapponendosi a tutto campo a quella del primo giudice, dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati (cfr. Cass. pen., sez. V, 5 maggio 2008, n. 35762; successivamente, tra le altre, Cass. pen., sez. II, 18 novembre 2014, n. 50643).

Poste tali premesse, applicando al caso concreto i principi di diritto appena richiamati, la Suprema Corte ha ritenuto che il Collegio di appello non ne abbia fatto buon governo, redigendo in punto di dolo una motivazione inadeguata e, soprattutto, priva di quel carattere “rinforzato” – rispetto agli argomenti spesi dal primo giudice e sui quali la sentenza di appello sostanzialmente non ha dedicato alcun passaggio motivazionale, limitandosi ad una lettura “autonoma” delle risultanze processuali, del tutto slegata dall'analoga valutazione delle stesse già operata dal primo giudice – che si impone in caso di totale riforma della precedente statuizione assolutoria.

Pertanto la Cassazione ha annullato la sentenza impugnata e rinviato ad altra sezione della Corte di Appello di Genova.

Osservazioni

La complessità della materia e la delicatezza degli interessi coinvolti si colgono particolarmente nella discrepanza tra l'orientamento espresso dai giudici di merito, che hanno tentato di offrire una “risposta riequilibratrice” rispetto ad una legislazione fiscale avvertita, nel difficile quadro economico-finanziario, come eccessivamente iniqua ed oppressiva, e quello manifestato dalla giurisprudenza di legittimità.

Invero, nonostante il rigore della formulazione normativa sembri lasciare margini interpretativi alquanto ridotti in ordine alla possibilità di distinguere la condizione di colui che omette il versamento con il proposito di non adempiere l'obbligazione tributaria, da quella di chi invece vi è costretto da una perdurante mancanza di risorse finanziarie, la giurisprudenza di merito ha in più di un'occasione censurato la rigidità del sistema, ricorrendo, di volta in volta, ai concetti di forza maggiore (previsto dall'art. 45 c.p.) e stato di necessità (di cui all'art. 54 c.p.), nonché alla categoria giurisprudenziale della inesigibilità. Difatti, secondo la giurisprudenza di merito:

  1. l'illiquidità dell'impresa in virtù della quale non è possibile far fronte agli obblighi tributari potrebbe rappresentare una vera e propria «forza esterna della natura che determina, in modo irresistibile, il soggetto a tenere un comportamento attivo o omissivo» in tutti quei casi in cui la predetta difficoltà finanziaria discenda da circostanze imprevedibili e inevitabili tali da escludere il dolo richiesto dalla norma (tale tesi mal si concilia però con tutti quei casi in cui il soggetto di imposta, pur in difficoltà finanziarie, dopo aver incassato l'IVA, decida di pagare dipendenti e fornitori a discapito del Fisco);
  2. alla configurabilità della scriminante dello stato di necessità si potrebbe accedere invecetramite un'interpretazione estensiva del «danno grave» (tale da ricomprendervi il licenziamento e, dunque, il possibile stato di indigenza dei lavoratori dipendenti, qualora il versamento dell'IVA determini di fatto il fallimento dell'impresa già in crisi finanziaria) o del «concetto di persona» (che abbraccerebbe anche la “persona giuridica” in relazione alla quale il “danno grave” sarebbe ancora una volta il dissesto economico), per cui il contribuente agirebbe in presenza di una situazione talmente coercitiva da alterare il normale processo di formazione motivazionale e da rendere impossibile il rispetto della condotta doverosa (anche qui però residua un ostacolo ermeneutico: la giurisprudenza di legittimità ha affermato che, con l'espressione «danno grave alla persona», usata nella formulazione dell'art. 54 c.p., il legislatore ha inteso riferirsi ai soli beni morali e materiali che costituiscono l'essenza stessa dell'essere umano, ma non anche a quei beni che, pur costituzionalizzati, contribuiscono al completamento ed allo sviluppo della persona umana; ne consegue che, pur dovendosi affermare che il diritto al lavoro è costituzionalmente garantito e che il lavoro contribuisce alla formazione ed allo sviluppo della persona umana, deve escludersi, tuttavia, che la sua perdita costituisca, sotto il profilo dell'art. 54 c.p., un danno grave alla persona);
  3. infine, residuerebbe la possibilità di applicare alla fattispecie in questione la categoria dell'inesigibilità ogni qualvolta il soggetto agente si sia trovato nell'impossibilità di tenere il comportamento conforme al precetto penale, per cause indipendenti dalla sua volontà, tali da non potersi umanamente pretendere una condotta diversa da quella in concreto tenuta (una categoria, comunque, di dubbia praticabilità, essendo indifferente il motivo dell'omesso versamento: la «provvista» di cui il trasgressore dispone o dovrebbe disporre antecedentemente all'illecito fa sì che le sopravvenute difficoltà finanziarie non consentono di escludere la rimproverabilità della condotta omissiva, posto che il soggetto obbligato non può scegliere di omettere il versamento dell'IVA già incassata, distraendo per il perseguimento di altri scopi una disponibilità finanziaria con vincolo di destinazione privilegiato e penalmente presidiato).

Di contro, per la Suprema Corte, ogni possibilità di attribuire efficacia esimente alle omissioni imputabili a crisi di liquidità deve misurarsi invece con l'obiezione che la condotta di colui che commette il reato di cui all'art. 10-ter del D.Lgs. n. 74/2000 si articola su più momenti progressivi, cominciando con il mancato accantonamento delle somme trattenute ed il mancato versamento delle stesse secondo le scadenze normative per proseguire con l'omissione fino al termine ultimo di pagamento determinato dalla legge. Nessuna crisi di liquidità, infatti, potrebbe giustificare l'omesso versamento dell'imposta, posto che il soggetto passivo deve solo versare l'IVA già ricevuta dal cessionario o dal committente.

Tuttavia, non si è potuto fare a meno di osservare come la condotta di mancato accantonamento (volta per volta in occasione della percezione delle somme IVA) non possa ritenersi già di per sé penalmente rilevante, poiché l'organizzazione previdente del datore di lavoro deve configurarsi più ampia ma anche più elastica, sicché non si può escludere aprioristicamente, ai fini di elidere la colpevolezza, l'eventualità che possa intervenire una crisi di liquidità al momento della scadenza del termine, crisi non derivante dalla scelta del sostituto d'imposta/soggetto IVA “di non far debitamente fronte” al suo obbligo organizzativo.

Pertanto, sulla scorta di tale rilievo, la Cassazione ha successivamente mostrato qualche possibilità di apertura, nella misura in cui alcune pronunce hanno finalmente ammesso, seppur in ragione di una completa analisi delle condizioni operative dell'impresa dell'imputato, che le difficoltà economiche possano integrare una ipotesi di forza maggiore, anche se, in tali casi, coerentemente con il principio dell'“onere di allegazione”, in virtù del quale l'interessato è tenuto a fornire all'autorità giudiziaria le indicazioni e gli elementi necessari all'accertamento di fatti e circostanze ignoti che siano idonei, ove riscontrati, a volgere il giudizio in suo favore, la crisi di liquidità e l'impossibilità di adempiere l'obbligazione tributaria sono comunque sottoposte ad un regime probatorio particolarmente arduo, che impone al soggetto passivo di imposta l'onere di dimostrare tanto che la difficoltà economica non sia a lui imputabile, quanto di aver posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a recuperare la necessaria provvista per provvedere all'adempimento.

Ebbene, in questo contesto, sembra ormai essersi raggiunto un corretto punto di equilibrio tra le due contrapposte esigenze in gioco: quella di natura pubblicistica, che pone l'Erario nella posizione privilegiata di creditore dei tributi al cui versamento è tenuto il soggetto passivo d'imposta per il funzionamento dell'apparato statale; e quella, degna di altrettanta tutela, di preservare la presenza sul mercato dell'imprenditore che, in casi straordinari, non deve essere sanzionato se l'omesso versamento si riveli eccezionalmente come necessitato.

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