Dalla Corte Ue una “spinta” alle presunzioni pro-Fisco

Stefano Mazzocchi
13 Dicembre 2016

È lecita la norma nazionale secondo la quale in assenza sia delle merci (nel magazzino) sia della registrazione dei documenti fiscali correlati, l'Amministrazione fiscale possa presumere che tale soggetto passivo abbia successivamente venduto le suddette merci a terzi e che possa determinare la base imponibile delle vendite di tali merci.
Massima

È lecita la norma nazionale secondo la quale in assenza sia delle merci (nel magazzino) sia della registrazione dei documenti fiscali correlati, l'Amministrazione fiscale possa:

a. presumere che tale soggetto passivo abbia successivamente venduto le suddette merci a terzi;

b. determinare la base imponibile delle vendite di tali merci, in funzione degli elementi sostanziali-informativi di cui si disponga la stessa Amministrazione.

Il caso

La fattispecie esaminata dalla Corte di Strasburgo con la sentenza in epigrafe è sorta a seguito di una controversia tra l'Amministrazione fiscale bulgara e un'impresa assoggettata alla locale disciplina tributaria.

Nel corso di un accertamento effettuato nei confronti di alcune imprese, in particolare, le Autorità fiscali di quel Paese appuravano che le stesse avevano emesso e regolarmente contabilizzato fatture di vendita nei confronti di un altro soggetto. Le medesime fatture, peraltro, non risultavano registrate nella contabilità dell'acquirente, il quale non aveva neppure proceduto alla detrazione della relativa IVA.

Posta la presunzione che comunque la cessione dei beni vi fosse stata, il Fisco bulgaro giungeva alla conclusione che l'acquirente avesse effettivamente ricevuto e successivamente rivenduto (a terzi ignoti) la merce, senza tuttavia contabilizzare nulla. Si trattava, secondo gli inquirenti, di una vera e propria dissimulazione delle operazioni di acquisto e vendita.

Da qui l'emissione di un avviso di accertamento nei confronti dell'acquirente, attraverso il quale veniva determinata la base imponibile delle presunte vendite al dettaglio dei prodotti indicati nelle fatture emesse dai partner commerciali del soggetto sottoposto a verifica, nonché la base imponibile delle vendite effettuate da quest'ultimo. Al fine di determinare tale base imponibile, in applicazione della normativa nazionale veniva aggiunto ai prezzi delle cessioni indicati nelle suddette fatture un margine, determinato in funzione dei prezzi applicati abitualmente dal contribuente accertato, ai prodotti corrispondenti.

Secondo la tesi difensiva prodotta dalla società accertata, peraltro, la descritta determinazione “per analogia” della base imponibile è priva di fondamento: infatti, la circostanza che le fatture di vendita di merci siano contabilizzate dai fornitori non significa che i prodotti ivi menzionati le siano stati effettivamente consegnati e che essa abbia dissimulato tali consegne. Nel caso in esame – sosteneva il contribuente – non sussisterebbero prove della ricezione di tali merci né della loro successiva rivendita.

La questione

La questione sottoposta all'esame degli eurogiudici attiene all'interpretazione degli artt. 2, paragrafo 1, lettera a), 9, paragrafo 1, 14, paragrafo 1, 73, 80 e 273 della Direttiva Ue 28 novembre 2006, n. 2006/112/CE, nota come Direttiva IVA.

In particolare, il giudice del rinvio chiede alla Corte:

1. se uno Stato membro può considerare l'effettiva assenza di merci, consegnate al soggetto passivo a seguito di cessioni imponibili, come dovuta a successive cessioni a titolo oneroso ed imponibili delle stesse merci, realizzate da quest'ultimo soggetto passivo senza che il loro destinatario sia stato determinato;

2. se uno Stato membro può trattare la mancata registrazione contabile, da parte di un soggetto passivo, di documenti fiscalmente rilevanti connesse a forniture ricevute imponibili, nel modo descritto al punto 1);

3. se – per cessioni di beni effettuate da un soggetto passivo – uno Stato membro può stabilire basi imponibili in deroga al principio generale di cui all'art. 73 della Direttiva IVA e alle eccezioni di cui al successivo art. 80.

In sostanza, si chiede se i citati articoli della Direttiva Ue ostino a una normativa nazionale ai sensi della quale in assenza, nel magazzino del soggetto passivo, delle merci ad esso fornite e in assenza di registrazione, nella contabilità di tale soggetto passivo, dei documenti fiscali connessi, l'Amministrazione fiscale possa presumere che tale soggetto abbia successivamente venduto dette merci a terzi e determinare la base imponibile delle vendite di tali merci in funzione degli elementi di fatto di cui essa dispone, in applicazione di norme non previste dalla menzionata direttiva.

Le soluzioni giuridiche

Premessa

Innanzitutto, la sentenza in commento precisa che non appare pertinente alla situazione de qua l'art. 80 della Direttiva IVA, in quanto tale norma riguarda la determinazione della base imponibile delle operazioni realizzate tra parti tra le quali intercorrano “vincoli”.

Mancata tenuta della contabilità

Per i giudici comunitari la mancata tenuta della contabilità e la mancata registrazione delle fatture emesse e pagate “sono tali da impedire l'esatta riscossione” dell'IVA e quindi compromettono il buon funzionamento del sistema comune del tributo. Ne deriva – afferma la sentenza in commento – che gli Stati membri possono considerare tali violazioni alla stregua di un'evasione fiscale (cfr., in tal senso, le sentenze della Corte di Giustizia Ue 7 dicembre 2010, R., C-285/09, punti 48 e 49, e 28 luglio 2016, Astone, C-332/15, punto 56).

Sotto questo profilo, gli eurogiudici fondano la propria decisione sulla base dei seguenti elementi:

  1. ai sensi dell'art. 242 della Direttiva, i soggetti passivi debitori di IVA sono obbligati a tenere una contabilità “adeguata”;
  2. per il successivo art. 244, nei confronti di tali soggetti vige l'obbligo di archiviazione di tutte le fatture;
  3. l'art. 250, paragrafo 1, impone ai soggetti passivi di presentare una dichiarazione in cui figurino tutti i dati necessari per determinare l'importo dell'IVA esigibile.

Occultamento delle cessioni e delle entrate

L'occultamento di cessioni e di entrate – tipico comportamento fraudolento – non può ostacolare la riscossione dell'IVA: al riguardo la sentenza rammenta che spetta alle Amministrazioni nazionali ripristinare la situazione quale sarebbe sussistita in assenza di evasione fiscale. In tal senso depongono sia la normativa sedimentata nella Direttiva IVA (in particolare, gli articoli 2, 250, par. 1, e 273, comma 1), sia la giurisprudenza della Corte di Giustizia Ue (cfr., per tutte, la sentenza 9 luglio 2015, Cabinet Medical Veterinar Dr. Tomoiagă Andrei, C-144/14, punto 25, nonché la giurisprudenza citata in tale pronuncia).

Appare peraltro opportuno sottolineare che il citato art. 273 non precisa né le condizioni, né gli obblighi che gli Stati membri possono prevedere: ne discende che i Legislatori nazionali godono di un elevato grado di discrezionalità nella individuazione dei mezzi idonei a raggiungere gli obiettivi di cui sopra (in tal senso si rinvia alle sentenze 26 gennaio 2012, Kraft Foods Polska, C-588/10, punto 23 e 26 marzo 2015, Macikowski, C-499/13, punto 36). Le normative nazionali, tuttavia, non possono comunque compromettere la neutralità dell'IVA (in tal senso, sentenza 26 marzo 2015, Macikowski, C-499/13, punto 37, nonché la giurisprudenza citata).

Criteri ritenuti leciti

Compiute le premesse che precedono, la Corte ritiene legittima la normativa nazionale che – al fine di perseguire le finalità anzidette – si ponga l'obiettivo di determinare la base imponibile più vicina possibile al corrispettivo realmente percepito dal soggetto passivo, nel caso in cui non sia possibile raccogliere dati oggettivi riguardanti le date delle operazioni imponibili, i destinatari di queste ultime nonché le entrate imponibili del soggetto passivo a causa del comportamento fraudolento di quest'ultimo, ed in particolare a motivo della sua inottemperanza all'obbligo di tenere una contabilità adeguata. In un contesto quale quello descritto, quindi, il Fisco potrà procedere al “ripristino” della situazione.

Principio di parità di trattamento

Al riguardo si ricorda che il principio di neutralità dell'Iva costituisce la declinazione del principio generale di parità di trattamento (cfr. le sentenze 29 ottobre 2009, NCC Construction Danmark, C-174/08, punto 41, e 5 marzo 2015, Commissione/Lussemburgo, C-502/13, punto 50). Sotto questo profilo emerge in tutta evidenza la diversità tra i soggetti passivi che hanno commesso una frode fiscale consistente nel dissimulare operazioni imponibili e le relative entrate, e la situazione in cui si trovano i soggetti passivi che rispettano i loro obblighi in materia di contabilità, di dichiarazione e di pagamento dell'IVA (sentenze 18 dicembre 2014, Schoenimport “Italmoda” Mariano Previti e a., C-131/13, C-163/13 e C-164/13, punto 48, e 28 luglio 2016, Astone, C-332/15, punto 58).

Conclusioni

Alla luce delle considerazioni che precedono, la Corte ha affermato che è lecita la norma nazionale secondo la quale in assenza, nel magazzino di un soggetto passivo, delle merci ad esso fornite ed in assenza di registrazione, nella contabilità di tale soggetto passivo, dei documenti fiscali ad esse relativi, l'Amministrazione fiscale può presumere che tale soggetto passivo abbia successivamente venduto dette merci a terzi e determinare la base imponibile delle vendite di tali merci in funzione degli elementi di fatto di cui essa dispone.

Osservazioni

La pronuncia in rassegna appare importante anche per i risvolti in ambito domestico. In tale contesto appare infatti immediato il collegamento dei principi enunciati dalla Corte con la normativa dettata per l'accertamento induttivo (art. 39, comma 2, del d.P.R n. 600/1973).

Sul punto è opportuno ricordare che la presenza di scritture contabili formalmente corrette non esclude la legittimità dell'accertamento induttivo, qualora l'Ufficio ritenga “ragionevolmente inattendibile” la contabilità (cfr., per tutte, Corte di Cassazione 5 febbraio 2007, n. 2399). In tale contesto la Suprema Corte ha anche avuto modo di precisare che “in caso di rettifica induttiva […] alla ricostruzione dei ricavi deve corrispondere un'incidenza percentualizzata dei costi (Id., 17 gennaio 2001, n. 640, m. 543241)”. Inoltre, spiegano gli Ermellini, “la rettifica di essa da parte dell'Amministrazione finanziaria, a mezzo di accertamento induttivo, deve essere effettuata mediante ricostruzione, anche in via analitica, di tutte le voci che hanno determinato il reddito imponibile, ovvero prendendo in considerazione tutte le componenti infedelmente dichiarate, sia che esso giovi all'amministrazione consentendo il recupero a tassazione di porzioni di reddito sottratte all'imposizione, sia che giovi al contribuente, determinando un abbattimento della base imponibile e del relativo tributo” (Id., 12 dicembre 2003, n. 19062, m. 568862)” (Corte di Cassazione 18 luglio 2011, n. 28221).