Il soggetto fallito tra pretesa tributaria, inerzia del curatore e diniego di giustizia

Mauro Tortorelli
13 Settembre 2016

In costanza di fallimento, il soggetto fallito non può effettuare pagamenti avendo perso la disponibilità dei propri beni. Va dunque negato ab origine il diritto del fallito di presentare istanza di accertamento con adesione, per l'impossibilità di assolvere all'onere del pagamento nel termine di legge previsto per il perfezionamento della definizione bonaria della lite.
Massima

In costanza di fallimento, il soggetto fallito non può effettuare pagamenti avendo perso la disponibilità dei propri beni. Va dunque negato ab origine il diritto del fallito di presentare istanza di accertamento con adesione, per l'impossibilità di assolvere all'onere del pagamento nel termine di legge previsto per il perfezionamento della definizione bonaria della lite. La richiesta di accertamento con adesione presentata dal fallito non comporta la sospensione del termine per l'impugnazione dell'avviso di accertamento, ne consegue l'inammissibilità del ricorso prodotto oltre il termine di legge ordinario previsto dall'art. 21, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546.

Il caso

L'Agenzia delle Entrate notificava al curatore fallimentare e al soggetto fallito l'avviso di accertamento relativo ad imposte dovute dal contribuente prima della dichiarazione di fallimento.

Il curatore mostrava disinteresse verso l'atto impositivo notificatogli sicché, al fine di evitare un aggravamento della propria posizione debitoria nei confronti dell'erario, il fallito chiedeva all'ente impositore di definire bonariamente la potenziale lite mediante ricorso all'accertamento con adesione e, per l'effetto, godeva della sospensione (90 giorni) del termine di legge previsto (60 giorni) per l'eventuale impugnazione dell'atto impositivo.

All'esito negativo del procedimento di adesione, l'interessato produceva ricorso all'Agenzia delle Entrate, la quale, in giudizio, ne eccepiva l'inammissibilità perché notificato oltre l'ordinario termine di legge previsto per l'impugnazione. L'ente impositore osservava, infatti, che il fallito non avrebbe potuto ricorrere all'istituto dell'accertamento con adesione disciplinato dal D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218, e quindi usufruire della sospensione del termine per l'impugnazione, perché, per espressa previsione normativa, l'esito positivo del tentativo di adesione è subordinato al pagamento nel termine di legge previsto dell'importo del debito concordato tra le parti (cfr. artt. 8 e 9, D.Lgs. n. 218/1997). E poiché nel caso concreto l'istante dell'accertamento con adesione era un contribuente privo della disponibilità dei propri beni perché attratti alla procedura fallimentare, gli erano inibiti atti e pagamenti che potessero diminuire il proprio patrimonio in danno ai creditori, sicché l'accertamento con adesione doveva ritenersi inibito al ricorrente, perché destinato a non perfezionarsi e a non avere alcuna efficacia giuridica.

I giudici di merito, di prime cure e di appello, accoglievano la tesi prospettata dalla parte pubblica e dichiaravano inammissibile, per tardività, il ricorso prodotto dal fallito nel termine prorogato dalla richiesta di accertamento con adesione ai sensi del D.Lgs. n. 218/1997.

Con riferimento alla sentenza in commento, a base della decisione assunta i giudici di appello all'uopo affermavano “… il fallito non può, in costanza di fallimento, effettuare dei pagamenti, avendo perso la disponibilità dei propri beni e non essendo tornato in bonis. Pertanto l'istanza di accertamento che presentasse, non potendo perfezionarsi con il pagamento di quanto pattuito, sarebbe sostanzialmente inefficace. Va quindi negato ad origine il diritto del fallito di presentare tale istanza”.

La questione

La questione oggetto del giudizio si sostanzia nella determinazione del legittimo esercizio della facoltà di accesso, da parte di un soggetto fallito che abbia subito lo spossessamento dei propri beni a favore della procedura fallimentare, all'istituto dell'accertamento con adesione, la cui disciplina prevede, all'art. 6, comma 3, la sospensione del termine per l'impugnazione per un periodo di novanta giorni dalla presentazione della relativa istanza.

In caso di condivisione della decisione adottata dai giudici nella sentenza in commento, dovrebbe ritenersi che, a causa dello spossessamento dei propri beni e della conseguente impossibilità per l'istante di perfezionare un eventuale accordo raggiunto con l'ente impositore, resterebbe inibito l'accesso all'istituto premiale e quindi, per quanto qui interessa, alla sospensione del termine previsto per l'impugnazione dell'atto impositivo.

Le soluzioni giuridiche

Seppure autorevole, la sentenza in commento non pare condivisibile nella sua premessa e, di conseguenza, nella decisione assunta, perché portatrice di una sostanziale violazione del diritto di difesa del contribuente.

In via di premessa, invero, quale riferimento teorico ai fini dell'analisi, deve ritenersi fermo il principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità secondo cui, poiché a seguito della dichiarazione di fallimento il fallito resta il soggetto passivo del rapporto tributario che subisce le conseguenze, anche sanzionatorie, della definitività di un atto impositivo, in caso di inerzia del curatore egli è legittimato ad esercitare in proprio la tutela, pena la vanificazione del diritto di difesa previsto dall'art. 24 Cost. (cfr., ex multis, Cass. civ., 18 marzo 2016, n. 5392). Per tale ragione, la giurisprudenza di legittimità esige che l'atto impositivo venga notificato al fallito stesso, oltre che al curatore (cfr. Cass. civ., 24 luglio 2014, n. 16816).

La sentenza in commento si segnala perché, alla luce di tale premessa, non nega l'esercizio del diritto di difesa del fallito nella sede processuale, ma fa discendere l'intempestività del ricorso, e quindi la sua inammissibilità, dal ritenuto illegittimo esercizio della facoltà, da parte del fallito, di richiesta di definizione amministrativa pre-contenziosa dell'insorgente controversia.

A tale proposito, non si condivide l'assunto dei giudici secondo cui l'accesso all'istituto dell'accertamento con adesione sarebbe precluso dalla circostanza che l'eventuale accordo tra le parti non si sarebbe potuto perfezionare per l'impossibilità di onorare il pagamento nel termine di legge previsto.

Ferma la premessa secondo cui il fallito resta, pur sempre, il “contribuente” soggetto passivo delle obbligazioni tributarie, maturate sia ex ante sia ex post la dichiarazione di fallimento, e la conseguente titolarità alla capacità di azione amministrativa e/o giudiziale in caso di inerzia del curatore, è utile osservare che:

  • a mente dell'art. 6, comma 2, del D.Lgs n. 218/1997: “Il contribuente nei cui confronti sia stato notificato un avviso di accertamento o di rettifica … può formulare anteriormente all'impugnazione dell'atto … istanza in carta libera di accertamento con adesione …”;
  • la finalità della norma è individuata esclusivamente nel “… prevenire l'impugnazione dell'atto di accertamento tributario notificato, favorendo l'instaurazione di un contraddittorio con il contribuente per giungere ad una definizione concordata e preventiva della controversia; …“ (Corte Cost., 15 aprile 2011, n. 140).

Orbene, dopo la generica previsione di legge a favore del “contribuente” del potere di instare per l'accertamento con adesione, nessun'altra disposizione del D.Lgs. n. 218/1997 fissa limiti all'esercizio della facoltà, meno che mai con riguardo alla prova del possesso di risorse sufficienti a garantire la solvibilità del contribuente (fallito o in bonis) in caso di esito positivo del procedimento amministrativo.

Non solo: a conferma dell'incondizionato potere riconosciuto al contribuente, la giurisprudenza non ha mancato di precisare che, a seguito dell'istanza prodotta, ed in forza dell'esclusivo potere riconosciutogli dalla norma, solo il richiedente ha il potere di interrompere il decorso della sospensione del termine per ricorrere mediante l'impugnazione dell'atto o con una formale e irrevocabile rinuncia all'istanza (v. art. 6, comma 3, e per la giurisprudenza, ex multis, Corte Cost.,15 aprile 2011, n. 140; Cass. civ., 24 febbraio 2012, n. 2857).

Del resto, sotto tale profilo, è da ritenere che se il legislatore avesse voluto porre condizioni al potere concesso al contribuente, a tutela del credito erariale avrebbe previsto l'obbligo di allegazione all'istanza di documenti comprovanti la solvibilità del soggetto richiedente in caso di una pretesa concordata tra le parti.

A tale proposito, si evidenzia che in caso di richiesta di accertamento con adesione avanzata dal curatore, anziché dal fallito, per la legittimità dell'istanza è richiesta la sola autorizzazione del giudice delegato (cfr. Cass. civ., 26 giugno 2016, n. 13242). Nulla è richiesto riguardo a presunti obblighi di allegazione della documentazione attestante il valore dei beni attratti alla procedura, lo stato passivo del fallimento, le istanze tardive di ammissione al passivo da parte dei creditori per la valutazione della solvibilità della procedura in caso di accordo (si consideri che, all'atto della richiesta del curatore, la procedura, al limite, potrebbe non aver acquisito alcun bene e quindi non avere attivo da liquidare). Solvibilità che, a tutto concedere, potrebbe esistere alla data di presentazione della istanza, ma che in seguito potrebbe vanificarsi, fino all'annientamento, a causa di legittime istanze di ammissione al passivo da parte di creditori prima inerti.

Proseguendo nell'analisi, la sentenza non appare altresì condivisibile laddove i Giudici affermano che “… il fallito non può, in costanza di fallimento, effettuare dei pagamenti, avendo perso la disponibilità dei propri beni (…). Pertanto l'istanza di accertamento che presentasse, non potendo perfezionarsi con il pagamento di quanto pattuito, sarebbe sostanzialmente inefficace. Va quindi negato ad origine il diritto del fallito di presentare tale istanza”.

Al riguardo, viceversa, deve osservarsi che non corrisponde del tutto al vero l'assunto secondo il quale a seguito della sentenza dichiarativa di fallimento il fallito perda la disponibilità di ogni suo bene.

Il R.D. 16 marzo 1942, n. 267, all'art. 46, comma 1, infatti, precisa che non sono compresi nel fallimento:

  1. i beni ed i diritti di natura strettamente personale,
  2. gli assegni aventi carattere alimentare,
  3. gli stipendi,
  4. pensioni,
  5. salari e simili nel limite di quanto occorre per il mantenimento suo e della famiglia,
  6. i frutti derivanti dall'usufrutto legale sui beni dei figli,
  7. i beni costituiti in fondo patrimoniale e i frutti di essi e, ancora,
  8. le cose che non possono essere pignorate per legge.

Ora, essendo questi beni nella disponibilità del fallito è del tutto insindacabile l'utilizzo che egli decida di farne, sicché potrebbe agevolmente ipotizzarsi che il fallito possa decidere di utilizzarli al fine di rientrare in bonis.

Sotto un diverso profilo, non appare convincente anche il richiamo ai soli “beni” spossessati per presumere la solvibilità del fallito. Ed invero, potrebbe ben accadere, anche ad un contribuente non in stato di fallimento, di non detenere beni di proprietà ma, al contempo, di essere titolare di un reddito di importo tale da garantire il pagamento di quanto concordato in sede di accertamento con adesione dell'atto impositivo.

Segnatamente alla capacità del fallito di onorare il suo debito con elementi reddituali e non patrimoniali, si segnala la giurisprudenza di legittimità secondo cui, ad esempio, le somme spettanti o liquidate a persona fisica, successivamente fallita, a titolo di risarcimento del danno biologico, sfuggono al fallimento ai sensi dell'art. 46, primo comma, n. 1, R.D. n. 2671942 (Cass. civ., 13 giugno 2006, n. 8022; Cass. civ., ss.uu., 31 marzo 2003, n. 8271). Sempre la giurisprudenza ha ritenuto che le somme dovute dall'assicuratore in forza di assicurazione sulla vita sono impignorabili e conseguentemente, per il richiamo contenuto nell'art. 46, n. 5, non sono comprese nel fallimento (in questi termini Cass. civ., 25 ottobre 1999, n. 11975).

Ed ancora, muovendo dalla premessa che la dichiarazione di fallimento non priva l'imprenditore della capacità di agire e di esercitare una nuova attività economica di impresa, si è affermato che al fallito non può precludersi di intraprendere una nuova attività imprenditoriale con i beni non aggredibili o non aggrediti dal fallimento (Cass. civ., 18 febbraio 2011, n. 3995). Peraltro, avendone interesse, anche un terzo (si ponga, in ipotesi: un familiare del fallito o un socio della società fallita che intendesse con ciò realizzare atti di ricapitalizzazione della società in vista di un concordato fallimentare o di una chiusura) potrebbe effettuare il pagamento della somma concordata dal fallito con l'amministrazione, senza con ciò minimamente intaccare l'attivo fallimentare e senza ledere la par condicio creditorum.

Procedendo nell'analisi della sentenza in esame, si impone una riflessione ulteriore sui possibili riflessi pratici che una pronuncia di tal fatta potrebbe comportare in merito ad aspetti trascurati dal giudicante. Si allude, ad esempio, alla possibilità che a seguito della presentazione dell'istanza di accertamento con adesione, in contraddittorio con il fallito, l'Amministrazione finanziaria apprenda all'istruttoria elementi di fatto e di diritto, prima ignorati, e proceda in autotutela alla totale eliminazione dell'atto impositivo o ad una legittima riduzione della pretesa al di sotto dei limiti di legge previsti in materia di diritto penale tributario (con indubbio beneficio sul piano personale del contribuente fallito).

Si pensi, pure, al caso in cui l'erario risulti essere l'unico creditore insinuato nel passivo fallimentare. In tale ipotesi, al raggiungimento dell'accordo con il fallito attivatosi in proprio, anche la procedura fallimentare avrebbe l'interesse a perfezionare l'accordo con il pagamento di quanto concordato per ottenere l'immediata estinzione del fallimento.

Del pari, in caso di concorso dell'erario con altri creditori l'accertamento con adesione concluso dal fallito comporterebbe benefici alla massa fallimentare che potrebbe giovarsi dell'accordo raggiunto, favorevole al fallito, per eliminare o ridurre pretese creditorie privilegiate insinuate nel passivo della procedura.

Osservazioni

Alla luce di quanto sin qui brevemente osservato, ed avviandoci alla conclusione, deve ritenersi, infine, che la sentenza in commento non abbia colto l'invito avanzato dai massimi organi della giustizia tributaria, con una giurisprudenza ampiamente consolidata, teso a ridurre le ipotesi di inammissibilità della domanda in funzione dell'effettiva tutela giurisdizionale (Corte Cost. 18 marzo 2004, n. 98; Corte Cost. 6 dicembre 2002, n. 520; Cass. civ., 20 marzo 2009, n. 6780; Cass. civ., 22 febbraio 2008, n. 4615); considerato, tra l'altro, che nel caso deciso non si ravvisavano pregiudizi talmente gravi per la tutela degli interessi erariali, in ambito amministrativo e giudiziale, tali da giustificare la grave decisione assunta dai giudici nei confronti del fallito a fronte di un danno all'erario praticamente inesistente. In caso di accordo tra le parti non perfezionatosi a causa di un effettivo (e non solo teoricamente ipotizzato) omesso pagamento da parte del contribuente fallito, invero, l'ente impositore avrebbe ben potuto far valere le proprie ragioni nella successiva fase giudiziale.

Appare quindi evidente che, ove la pronuncia oggetto di analisi ricevesse seguito, le ipotesi prospettate (e sono solo alcuni esempi) potrebbero risolversi esclusivamente a seguito di un ordinario giudizio, con maggiori oneri per le finanze del contribuente e per le casse dello Stato nonché buona pace della ratio sottesa alla normativa di deflazione del contenzioso.

Infine, sia concessa una chiosa finale: per esercitare il diritto di difesa costituzionalmente garantito e vedere ammesso il proprio ricorso, il contribuente dovrebbe prima provare al giudice di poter onorare il pagamento delle spese di giudizio in caso di soccombenza?