La buona fede non basta per disapplicare le sanzioni tributarie

Francesco Brandi
14 Aprile 2017

Le sanzioni tributarie non possono non essere applicate a causa della buona fede. La CTR ha quindi errato nel ritenere che non era intenzione del contribuente evadere le imposte. La soggettiva assenza di colpa non può che essere irrilevante non potendosi far dipendere la "disapplicazione" delle sanzioni da una personale difficoltà di interpretazione delle norme.
Massima

Le sanzioni tributarie non possono non essere applicate a causa della buona fede. La soggettiva assenza di colpa non può che essere irrilevante non potendosi far dipendere la "disapplicazione" delle sanzioni da una personale difficoltà di interpretazione delle norme.

L'incertezza normativa oggettiva si configura infatti come situazione oggettiva coincidente col risultato inevitabilmente equivoco dell'interpretazione normativa, determinato a sua volta dall'assenza di certezza di significato.

Il caso

La vicenda riguarda l'impugnazione, da parte di uno studio associato, di una cartella di pagamento scaturente da un controllo automatizzato per imposte dichiarate e non versate.

La CTR della Liguria, confermando parzialmente la pronuncia di primo grado, rigettava l'appello proposto nell'interesse di uno studio associato, ritenendo la cartella impugnata sufficientemente motivata con il semplice richiamo alla dichiarazione dei redditi dello studio che nel caso di specie aveva indebitamente compensato propri debiti tributari con i crediti Irpef degli associati.

Nel merito, secondo la CTR a causa della loro "distinta soggettività", i tributi non versati dallo Studio professionale non potevano essere compensati coi crediti d'imposta degli associati né, a tal fine, valeva richiamare la circolare 56/E del 2009 che si riferiva al caso assai diverso di compensazione tra debiti IRPEF di associati e ritenute (quindi crediti) IRPEF che l'associazione subisce in quanto sostituto d'imposta ex art. 22 TUIR. Con tale documento di prassi l'Agenzia delle Entrate ha ammesso la possibilità che la società che subisce in proprio le ritenute, dovendo poi trasferire le stesse ai soci in proporzione alla quote di partecipazione, possa avocare a sé le ritenute che residuano dopo il loro scomputo dall'IRPEF dovuta dai soci medesimi, che, in tal caso, si trasformano al momento della dichiarazione inevitabilmente in un credito d'imposta compensabile dalla società ai sensi dell'art. 17 del D.Lgs. n. 241/1997: ciò purché vi sia il preventivo assenso dei soci o associati da manifestare, anche in via generalizzata, in apposito atto avente data certa (ad esempio tramite scrittura privata autenticata) o nello stesso atto costitutivo.

Quanto al profilo sanzionatorio, la Ctr annullava le sanzioni irrogate riconoscendo la buona fede del contribuente, incorso in un errore “scusabile”.

Col successivo ricorso in Cassazione l'Agenzia delle Entrate denunciava violazione e falsa applicazione della L. n. 212/2000, art. 10, in quanto la CTR aveva erroneamente giustificato la disapplicazione delle sanzioni con il richiamo alla "buona fede" del contribuente che con la compensazione non avrebbe inteso evadere le imposte.

I giudici di legittimità hanno accolto il motivo di ricorso rinviando la controversia nuovamente in CTR per l'accertamento dell'esistenza o meno dei presupposti per la "disapplicazione" delle sanzioni come individuati dalla norma censurata.

Secondo i giudici “l'errore della CTR è proprio consistito nella violazione dell'art. 10, comma 3, L. n. 212 cit. che non prevede la "disapplicazione" delle sanzioni a causa della "buona fede" nella concreta fattispecie declinata dalla CTR nel senso della "non intenzione" di evadere le imposte - richiedendosi invece una obbiettiva incertezza legislativa p. es. anche segnalata da contrasti di giurisprudenza. Inoltre la soggettiva assenza di colpa non può che essere irrilevante non potendosi - per intuibili ragioni - farsi dipendere la "disapplicazione" delle sanzioni da una personale difficoltà di interpretazione delle norme”.

La questione

La questione fondamentale trattata dalla pronuncia in commento riguarda il tema della disapplicazione delle sanzioni amministrative per «oggettiva incertezza normativa».

Le soluzioni giuridiche

Anche nell'ambito delle violazioni tributarie di natura amministrativa, è esclusa la responsabilità nell'ipotesi di comportamento incolpevole. Il legislatore prevede le seguenti cause di non punibilità:

  1. errore incolpevole sul fatto (art. 6, comma 1), che sussiste quando il soggetto, incolpevolmente, ritiene di tenere un comportamento diverso da quello vietato dalla norma sanzionatoria (es. omessa indicazione di cespiti ereditari nella dichiarazione di successione perché sconosciuti);
  2. obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull'ambito di applicazione delle disposizioni tributarie (art. 6, comma 2).
  3. fatto del terzo”: mancato versamento delle imposte per fatto imputabile a terzi e denunciato all'autorità giudiziaria (art. 6, comma 3). La norma, di carattere generale, non si limita considerare la condotta illecita di dottori commercialisti, ragionieri, consulenti del lavoro, avvocati, notai e altri professionisti iscritti negli appositi albi, ma si riferisce a qualsiasi terzo e quindi, in particolare, a ogni altro soggetto cui venga conferito mandato dal contribuente, dal responsabile o dal sostituto d'imposta (tale norma deve essere integrata con la Legge 11 ottobre 1995, n. 423 (e con il D.M. 2 febbraio 1996) secondo cui, quando la condotta illecita, penalmente rilevante, derivante dall'omesso (ritardato o insufficiente) versamento, sia ascrivibile a dottori commercialisti, ragionieri e consulenti del lavoro, iscritti negli appositi albi, in dipendenza del loro mandato professionale, il contribuente o il sostituto d'imposta potranno presentare, unitamente alla copia della denuncia del fatto illecito all'autorità giudiziaria o ad un ufficiale di polizia giudiziaria, istanza per la sospensione della riscossione delle sanzioni); con il D.Lgs. n. 159/2015 è stato riscritto l'art. 1 della Legge n. 423/1995 (Norme in materia di soprattasse e di pene pecuniarie per omesso, ritardato o insufficiente versamento delle imposte), che disciplina la procedura di sospensione della riscossione delle sanzioni pecuniarie nel caso in cui la violazione fiscale da parte del contribuente e del sostituto d'imposta dipenda dalla condotta illecita, penalmente rilevante, di professionisti abilitati (dottori commercialisti, ragionieri, consulenti del lavoro, notai e altri professionisti), in dipendenza del loro mandato professionale. La novità più rilevante è rappresentata dalla eliminazione della norma che subordina il riconoscimento del beneficio della sospensione al versamento dell'imposta ancora dovuta. Per effetto delle nuove disposizioni, quindi, l'istanza di sospensione della riscossione delle sanzioni pecuniarie, da presentare all'ufficio dell'Agenzia delle Entrate territorialmente competente in base al domicilio fiscale del contribuente o del sostituto d'imposta, deve essere corredata solo dalla copia della denuncia del fatto illecito all'autorità giudiziaria e dalla dimostrazione di aver fornito al professionista la provvista necessaria al versamento. L'art. 6, peraltro, interviene anche sull'insieme delle disposizioni che disciplinano le conseguenze del procedimento penale a carico del professionista sulla sospensione. In particolare, il nuovo comma 3 dell'art. 1 della legge n. 423/1995 conferma che, ove il giudizio si concluda con un provvedimento definitivo di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti, le sanzioni a carico del contribuente sono annullate e conseguentemente irrogate a carico del professionista, precisando che a tale irrogazione segue l'iscrizione a ruolo nei termini di legge. Nella ipotesi in cui il giudizio penale si concluda con un provvedimento definitivo di assoluzione, l'ufficio competente revoca la sospensione, procedendo alla riscossione delle sanzioni a carico del contribuente, senza alcuna maggiorazione (diversamente da quanto previsto dalla disciplina previgente). Se, invece, il giudizio penale si conclude con un provvedimento di non luogo a procedere ex art. 425 c.p.p. per motivi di natura processuale o per intervenuta estinzione del reato ovvero con un provvedimento definitivo di non doversi procedere ex articolo 529 c.p.p., la sospensione della riscossione delle sanzioni non perde efficacia se il contribuente dimostra di aver tempestivamente promosso azione civile nei confronti del professionista, fornendo la relativa prova all'ufficio. In tale ipotesi, se il giudizio civile si conclude con un provvedimento definitivo di condanna, l'ufficio annulla le sanzioni a carico del contribuente e provvede all'irrogazione in capo al professionista. Qualora, invece, il giudizio civile si concluda con un provvedimento definitivo di rigetto, l'ufficio provvede alla revoca della sospensione e alla riscossione delle sanzioni a carico del contribuente senza alcuna maggiorazione. Viene tuttavia chiarito che la riscossione è effettuata nei confronti del contribuente anche ove questi non abbia promosso tempestiva azione civile. Per effetto della nuova disciplina, inoltre, viene ampliato il periodo di sospensione dei termini di prescrizione e di decadenza previsti per la irrogazione delle sanzioni e per la loro riscossione; in particolare, essi sono sospesi fino al 31 dicembre dell'anno successivo alla data in cui è divenuto definitivo il provvedimento che conclude il giudizio penale a carico del professionista o il giudizio civile eventualmente promosso nei suoi confronti. In ogni caso, la parte che vi ha interesse è tenuta a darne notizia all'ufficio competente. Infine, viene confermata la possibilità per l'ufficio, qualora ne ricorrano i presupposti (condotta illecita, penalmente rilevante, del professionista e comprovate difficoltà di ordine economico del contribuente), di disporre la sospensione della riscossione del tributo il cui versamento risulti omesso, ritardato o insufficiente per i due anni successivi alla scadenza del pagamento, nonché di prevedere, alla fine del biennio, la dilazione in dieci rate del debito fiscale, senza necessità di rilasciare apposita garanzia. Sul punto, è opportuno segnalare che, malgrado il testo del D.Lgs. in commento, continui a menzionare l'obbligo di rilascio di apposita garanzia, rinviando esplicitamente all'art. 38-bis, comma 1, d.P.R. n. 633/1972, e successive modificazioni, quest'ultima disposizione è stata recentemente modificata dall'art. 13 del D.Lgs. n. 175/2014 (Semplificazione fiscale e dichiarazione dei redditi precompilata) nel senso, tra l'altro, di eliminare l'obbligo di prestare idonea garanzia ai fini dell'ottenimento dei rimborsi IVA disciplinati dalla medesima norma. Pertanto, si deve ritenere, stante quanto appena ricordato, che, ai fini della sospensione/dilazione del pagamento delle imposte, sia ugualmente venuto meno l'obbligo del rilascio di garanzia;
  4. ignoranza inevitabile della legge tributaria (art. 6, comma 4), secondo il principio già previsto dall'art. 5 c.p., come interpretato in materia penale affermato dalla sentenza 24 marzo 1988 n. 364 della Corte cost.
  5. forza maggiore (art. 6, comma 5), intesa come quella forza del mondo esterno che determina in modo necessario e inevitabile il comportamento del soggetto (es. mancato adempimento degli obblighi tributari per calamità naturali calamità naturali). La Corte di Cassazione, in linea con la consolidata giurisprudenza, afferma che “la causa di forza maggiore non consiste soltanto in eventi naturali, ma può consistere anche in fatti umani, quali la guerra, lo sciopero e, quindi, anche più in generale, il fatto del terzo, quando ovviamente abbia le caratteristiche dell'estraneità, della imprevedibilità e dell'insormontabilità… Da ciò discende che richiedere di provare la causa di forza maggiore… significa richiedere, in sostanza, la prova dell'interruzione del nesso di causalità per l'intervento di un determinato fattore da solo capace di produrre l'evento” (Cass. 30 aprile 1992, n. 5225).

L'obiettiva incertezza rappresenta l'errore di diritto incolpevole che si verifica nel caso di norme equivoche, tali da ammettere interpretazioni diverse ugualmente fondate, e da non consentire, in un determinato momento, l'individuazione certa di un significato determinato. Ciò si può verificare, ad esempio, in presenza di leggi di recente emanazione rispetto alle quali non si sia formato un orientamento interpretativo definito, ovvero coesistano orientamenti contraddittori. Il beneficio è inapplicabile quando il contribuente commette un errore in buona fede su una questione che non presenta margini di incertezza oggettiva, la quale, a rigore, si distingue dalla buona fede (soggettiva) del contribuente. In ogni caso, l'onere della prova grava sul contribuente. Si riportano qui di seguito i principi fissati da una consolidata giurisprudenza di legittimità, sia in ordine alla definizione del concetto di “obiettiva incertezza normativa”, sia in ordine alla non rilevabilità d'ufficio della esimente de qua.

In particolare appare significativa la sentenza della Corte Cassazione n. 8825/2012 secondo la quale:

  • per '"incertezza normativa oggettiva tributaria" deve intendersi la situazione giuridica oggettiva, che si crea nella normazione per effetto dell'azione di tutti i formanti del diritto, tra cui in primo luogo, ma non esclusivamente, la produzione normativa, e che è caratterizzata dall'impossibilità, esistente in se ed accertata dal giudice, d'individuare con sicurezza ed univocamente, al termine di un procedimento interpretativo metodicamente corretto, la norma giuridica sotto la quale effettuare la sussunzione di un caso di specie;
  • l'incertezza normativa oggettiva, pertanto, non ha il suo fondamento nell'ignoranza giustificata, ma (si richiede cioè un quid pluris rispetto allo stato di incertezza normativa soggettiva determinata da ignoranza giustificata) nell'impossibilità, abbandonato lo stato d'ignoranza, di pervenire comunque allo stato di conoscenza sicura della norma giuridica tributaria. L'essenza del fenomeno ''incertezza normativa oggettiva” si può rilevare attraverso una serie di fatti indice, che spetta al giudice accertare e valutare nel loro valore indicativo (n.b. e che devono essere allegati dalla parte che invoca l'esimente data la non rilevabilità ex officio), e che sono stati individuati a titolo di esempio e, quindi, non esaustivamente: 1) nella difficoltà d'individuazione delle disposizioni normative, dovuta magari al diletto di esplicite previsioni di legge; 2) nella difficoltà di confezione della formula dichiarativa della norma giuridica; 3) nella difficoltà di determinazione del significato della formula dichiarativa individuata; 4) nella mancanza di informazioni amministrative o nella loro contraddittorietà; 5) nella mancanza di una prassi amministrativa o nell'adozione di prassi amministrative contrastami: 6) nella mancanza di precedenti giurisprudenziali; 7) nella formazione di orientamenti giurisprudenziali contrastanti, magari accompagnati dalla sollecitazione, da parte dei Giudici comuni, di un intervento chiarificatore della Corte costituzionale; 8) nel contrasto tra prassi amministrativa e orientamento giurisprudenziale; 9) nel contrasto tra opinioni dottrinali.

La Corte, chiamata nel caso di specie a pronunciarsi sulla debenza, da parte dei Comuni, della tassa di concessione governativa sugli abbonamenti ai servizi di telefonia mobile) ha ritenuto cioè come non basti richiamarsi ad una sentenza (nel caso di specie della CTP di Vicenza) o allegare una nota dell'Agenzia delle Entrate (la n. 44461 del 17 luglio 2001, tra l'altro del tutto in conferente in quanto facente riferimento ad un provvedimento amministrativo rilasciato all'abbonato oggi non più previsto) perché il giudice provveda alla disapplicazione delle sanzioni in base all'art. 8 D.Lgs. n. 546/1992.

L'importanza della richiamata sentenza risiede nel fatto che essa vuol rappresentare una “summa” di tutti i principi espressi sul punto dalla giurisprudenza di legittimità (ex multis Cass. civ., sentenza n. 24670 del 2007; di identico tenore le sentenze n. 7765 del 2008 e n. 19638 del 2009), individuando, a titolo esemplificativo e non esaustivo, quelle fattispecie sintomatiche della situazione di “obiettiva incertezza normativa” che, se debitamente provate, determinerebbero la disapplicazione delle sanzioni irrogate.

Sulla specifica questione si richiamano altre due significative sentenze dei giudici di legittimità: la n. 4031 del 14 marzo 2012 e la n. 5324 del 3 aprile 2012 che hanno ribadito due interessanti principi.

La prima è relativa al riparto dell'onere della prova ed all'impossibilità, per il giudice, di annullare ex officio le sanzioni irrogate dall'ente impositore; spetta, infatti, al contribuente provare che le disposizioni siano effettivamente equivoche e che l'ambiguità normativa derivi da elementi positivi di confusione.

Con la seconda si è escluso che la repentina successione di norme nel tempo possa giustificare l'inapplicabilità delle sanzioni amministrative perché non determina un obiettivo stato di incertezza normativa.

Osservazioni

La dottrina tributaristica ha trattato il tema della disapplicazione delle sanzioni amministrative per «oggettiva incertezza normativa» riconducendo l'istituto nell'ambito di operatività del principio generale della scusabilità dell'ignoranza di diritto incolpevole, attribuendo quindi una chiara valenza “soggettiva”.

Il contribuente, nell'ambito degli obblighi correlati al dovere costituzionale di contribuire alle spese pubbliche (art. 53 Cost.), deve procedere all'interpretazione delle disposizioni normative tributarie. Questa, com'è noto, è spesso particolarmente difficoltosa, data l'enorme mole di norme e la loro collocazione in atti normativi extratributari. La stessa individuazione delle disposizioni concernenti le fattispecie concrete è spesso resa molto problematica.

In altri termini, in presenza di una norma irrazionale, criptica, il contribuente è incolpevole e non può essere punito per violazione della legge. Alla base dell'istituto della non applicabilità delle sanzioni tributarie per «oggettiva incertezza normativa» è, dunque, individuata quella che è stata definita una «crisi di normazione».

L'incertezza normativa, in questo senso, può costituire un fattore esimente solo se il soggetto ha agito senza la consapevolezza di violare la legge, nell'ignoranza del suo contenuto e nella impossibilità di accedervi.

Tale impostazione si può dire fondata su una prospettiva soggettivistica: l'incertezza normativa cui l'ordinamento riconduce il potere di disapplicazione delle sanzioni tributarie, dunque, viene rappresentato come condizione mentale del soggetto agente, che acquisisce consistenza oggettiva — e, quindi, rilevanza giuridica — in relazione alla sussistenza di circostanze obiettivamente verificabili.

La giurisprudenza invece, cercando di ancorare a sé la legittimazione a verificare i presupposti per l'applicazione dell'esimente, ha optato per una prospettiva “oggettiva”.

La ricostruzione dell'incertezza normativa quale situazione giuridica oggettiva — e, dunque, l'uscita dalla prospettiva soggettivistica — fonda la base per la definizione della questione relativa al soggetto titolare del potere di accertamento della stessa. Una volta riconosciuta l'incertezza obiettiva nella indeterminabilità di significati normativi univoci, stante la mancanza di una convenzione sugli usi linguistici degli enunciati normativi, l'unico soggetto abilitato dall'ordinamento a dichiarare tale situazione è il giudice. Il giudice, infatti, è l'unico soggetto dell'ordinamento giuridico che «di fronte alla mancata stipulazione di qualsiasi convenzione tra i soggetti destinatari della norma, ha il potere di accertare se, prima che ci si rivolgesse a lui, davvero esistessero le condizioni perché una convenzione non potesse essere ragionevolmente stipulata».

È esclusivamente il giudice, così, che può, data la sua funzione istituzionale, creare certezza intorno alla sussistenza di una tale situazione giuridica oggettiva. L'accertamento di questa esula dal potere amministrativo.

L'individuazione dei fatti rilevatori dell'incertezza normativa possono essere i più vari, quali la difficoltà d'individuazione delle disposizioni normative, “dovuta magari al difetto di esplicite previsioni di legge, all'oscurità della formula dichiarativa della norma giuridica”, alla mancanza di informazioni amministrative o alla loro contraddittorietà ovvero alla formazione di orientamenti giurisprudenziali contrastanti.

La giurisprudenza della Cassazione aveva già chiarito sotto il profilo sostanziale, con la sentenza 23 marzo 2012, n. 4685, che, poiché l'incertezza normativa oggettiva ha il suo fondamento non nell'ignoranza giustificata, ma nell'impossibilità di pervenire comunque allo stato di conoscenza sicura della norma giuridica tributaria, il suo accertamento è esclusivamente demandato al giudice e non può essere operato dal trasgressore o dall'Amministrazione finanziaria: l'onere di allegare i fatti indice di tale incertezza spetta ovviamente alle parti processuali.

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