Annullamento in autotutela: per le spese l'atto dev'essere viziato sin dalla sua emanazione

Francesco Brandi
14 Luglio 2016

Nel processo tributario, alla cessazione della materia del contendere per annullamento dell'atto in sede di autotutela non si correla necessariamente la condanna alle spese secondo la regola della soccombenza virtuale, qualora tale annullamento non consegua ad una manifesta illegittimità del provvedimento impugnato sussistente sin dal momento della sua emanazione.
Massima

Premesso che nel processo tributario, alla cessazione della materia del contendere per annullamento dell'atto in sede di autotutela non si correla necessariamente la condanna alle spese secondo la regola della soccombenza virtuale, qualora tale annullamento non consegua ad una manifesta illegittimità del provvedimento impugnato sussistente sin dal momento della sua emanazione, nel caso in cui non sia prontamente verificabile la manifesta illegittimità o meno dell'atto impositivo fin dal momento della sua emanazione, deve essere cassata la sentenza che ha disposto la compensazione delle spese di lite con rinvio alla medesima CTR in diversa composizione, affinché verifichi se l'annullamento dell'ufficio consegua ad una manifesta illegittimità dell'atto impositivo fin dal momento della sua emanazione, nel qual caso, s'impone senz'altro la liquidazione delle spese a favore della parte contribuente, ovvero vi era un'obiettiva complessità della materia, per la quale l'atteggiamento dell'ufficio, può essere considerato conforme al principio di lealtà, ai sensi dell'art. 88 c.p.c., che può essere premiato con la compensazione delle spese.

Il caso

Alcuni contribuenti ricorrevano in Cassazione avverso una sentenza della Ctr resa in sede di rinvio, lamentando l'avvenuta compensazione delle spese di lite, nonostante la rinuncia all'appello da parte dell'Amministrazione finanziaria a seguito di annullamento in autotutela dell'atto impugnato.

Con i due motivi di ricorso i contribuenti denunciavano violazione e falsa applicazione di legge (D.Lgs. n. 546/1992, art. 44, art. 15, comma 1, art. 46, comma 3) nonché erronea motivazione su un fatto controverso e decisivo del giudizio, in tema di liquidazione delle spese per avere i giudici di appello disposto la compensazione delle spese nonostante la mancata rinuncia alle stesse da parte dei contribuenti.

La Cassazione, con la pronuncia in commento, ha accolto il ricorso ricordando il principio di diritto in base al quale “Nel processo tributario, alla cessazione della materia del contendere per annullamento dell'atto in sede di autotutela non si correla necessariamente la condanna alle spese secondo la regola della soccombenza virtuale, qualora tale annullamento non consegua ad una manifesta illegittimità del provvedimento impugnato sussistente sin dal momento della sua emanazione, stante, invece, l'obiettiva complessità della materia chiarita da apposita norma interpretativa, costituendo in tal caso detto annullamento un comportamento processuale conforme al principio di lealtà, ai sensi dell'art. 88 c.p.c., che può essere premiato con la compensazione delle spese" (Cass. civ. sez. trib. n. 22231/2011, ma vedi anche Cass. civ. n. 19947/2010)”.

Nel caso di specie non si riusciva a desumere dagli atti dal processo la manifesta illegittimità originaria dell'atto impugnato né tanto meno l'obiettiva complessità della materia, circostanze che avrebbero escluso profili di colpevolezza da parte dell'Ufficio.

Di conseguenza è stato disposto il rinvio ad altra sezione della CTR che dovrà effettuare le verifiche del caso, disponendo eventualmente la condanna dell'Ufficio alla refusione delle spese di lite.

Le questioni

La questione fondamentale trattata dalla pronuncia in commento attiene alle conseguenze processuali, soprattutto per quanto concerne la ripartizione delle spese di lite, determinate dall'annullamento in autotutela di un atto impositivo.

In questi casi, in applicazione del principio della soccombenza “virtuale”, la pronuncia di estinzione non dovrebbe comportare la compensazione delle spese di lite, bensì la condanna alla refusione delle stesse a carico dell'Amministrazione che ha determinato colpevolmente l'insorgenza della lite: come precisa la pronuncia in commento, ciò a condizione che l'atto presenti evidenti profili di illegittimità sin dal momento della sua emanazione, a sottolineare la necessità della ricorrenza di profili di colpevolezza da parte dell'Amministrazione finanziaria.

Le soluzioni giuridiche

L'autotutela è lo strumento attraverso il quale la Pubblica amministrazione esercita il potere discrezionale di riesaminare la propria azione e, conseguentemente, di annullare d'ufficio i propri atti che riconosca illegittimi. In ambito tributario l'autotutela è disciplinata dall'articolo 2-quater del D.L. 30 settembre 1994, n. 564, convertito, con modificazioni, dalla Legge 30 novembre 1994, n. 656.

Con D.M. 11 febbraio 1997, n. 37 è stato adottato il regolamento recante norme relative all'esercizio del potere di autotutela da parte dell'Amministrazione finanziaria.

Con l'istituto dell'“autotutela sostitutiva” l'Amministrazione sostituisce un precedente atto di accertamento viziato con un atto “nuovo”. Per la Cassazione (cfr. Cass. civ. n. 4372/2011) si tratta di “innovazioni che possono investire tutti gli elementi strutturali dell'atto, costituiti dai destinatari, dall'oggetto e dal contenuto e può condurre alla mera eliminazione dal mondo giuridico, del precedente o alla sua eliminazione ed alla contestuale sostituzione con un nuovo provvedimento diversamente strutturato…”.

Sul punto si segnala anche Cass. civ., 22 febbraio 2002, n. 2531, ove si precisa ulteriormente che si tratta di “innovazioni che possono investire tutti gli elementi strutturali dell'atto, costituiti dai destinatari, dall'oggetto e dal contenuto e, solo conseguentemente, da quelle dichiarazioni argomentative che, connettendo oggetto e contenuto, formano la motivazione del provvedimento”. (cfr. anche Cass. civ., 7 luglio 2009, n. 15874).

A titolo esemplificativo, si può menzionare il caso della mancata indicazione dell'aliquota di imposta ogni qual volta la stessa sia prevista dalla legge a pena di nullità (Cass. civ., 16 luglio 2003, n. 11114) e della modifica della motivazione (Cass. civ., 20 ottobre 2011, n. 21719; Cass. civ., 26 febbraio 2008, n. 13891; Cass. civ., 28 marzo 2002, n. 4534).

Con la sentenza 28 febbraio 2014, n. 4823, la Cassazione, con riferimento all'ipotesi della emissione di un atto completo di sottoscrizione in sostituzione di quello viziato privo di sottoscrizione, ha precisato che “l'Amministrazione, in mancanza di una norma ostativa, può emanare nei termini di decadenza, nell'esercizio del potere di autotutela, atti sostitutivi di quelli precedenti, ancorché identici nel contenuto e con lo stesso numero di protocollo dell'atto sostituito”. Si precisa che “l'irregolare notificazione di un accertamento impedisce all'ufficio di passare utilmente alla fase successiva dei ruoli, ma non comporta la nullità dell'avviso e, soprattutto, non vieta all'Amministrazione di sanare ogni vizio mediante la rinotificazione, nei termini di legge, dell'avviso stesso eventualmente integrato con altri elementi” (Cass. civ., 10 marzo 2006, n. 8869).

Secondo la citata sentenza n. 4372 del 2011, conforme al consolidato orientamento della Cassazione, il potere di carattere generale di autotutela sostitutiva va tenuto distinto da quello dell'Amministrazione finanziaria di “integrare” un precedente atto di accertamento che, ai sensi dell'art. 57, quarto comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, in materia di IVA, e dell'art. 43, quarto comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, per le imposte sui redditi, presuppone la “sopravvenuta conoscenza di nuovi elementi” e che non comporta la sostituzione dell'atto precedentemente emanato con quello nuovo. Il potere di integrare o modificare l'originario atto impositivo è esercitabile solo in presenza di un atto impositivo immune da vizi, non potendo porsi alcun problema di integrazione e modificazione rispetto a un atto nullo (cfr. Cass. civ., n. 21719/2011 e n. 9197/2011).

La possibilità di autotutela origina, piuttosto, nel potere dell'Amministrazione di correggere gli errori dei propri precedenti atti, annullando l'originario provvedimento viziato e sostituendo lo stesso con un provvedimento nuovo, il quale ha un dispositivo e/o una motivazione differente in quanto emendati dal vizio originario (cfr. Cass. civ., 28 marzo 2002, n. 4534. La distinzione tra autotutela sostitutiva ed accertamento integrativo è stata ripresa da Cass. civ., 8 aprile 1992, n. 4303, Cass. civ. 23 luglio 1999, n. 7964, Cass. civ. 27 settembre 2000, n. 12814, Cass. civ. 22 febbraio 2002, n. 2531, Cass. civ. 28 marzo 2002, n. 4534, Cass. civ. 27 novembre 2002, n. 16792, Cass. civ. 16 luglio 2003, n. 11114, Cass. civ. 10 ottobre 2006, n. 24620, Cass. civ. 28 maggio 2008, n. 13891 e Cass. civ. 16 gennaio 2009, n. 937. Cfr. anche Cass. civ., 20 ottobre 2011, n. 21719).

In merito al profilo delle spese e agli effetti sui rapporti sostanziali e processuali dell'esercizio dell'autotutela, la Corte costituzionale, con la sentenza del 12 luglio 2005, n. 274, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 46, comma 3, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, nella parte in cui prevedeva la compensazione ope legis delle spese di lite nel caso di cessazione della materia del contendere.

In particolare, la Corte ha evidenziato che “il processo tributario è in linea generale ispirato, non diversamente da quello civile o amministrativo, al principio di responsabilità per le spese del giudizio, come dimostrano l'art. 15 del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, secondo cui la parte soccombente è condannata a rimborsare le spese, salvo il potere di compensazione della Commissione tributaria (a norma dell'art. 92 c.p.c., secondo comma), e l'art. 44 del medesimo decreto legislativo secondo cui, in caso di rinuncia al ricorso, il ricorrente che rinuncia deve rimborsare le spese di lite alle altre parti, salvo diverso accordo tra loro”.

Partendo da tale premessa, la sentenza ha ribadito l'obbligo di condanna alla rifusione delle spese di lite anche in caso di cessazione della materia del contendere, statuendo che “la compensazione ope legis delle spese nel caso di cessazione della materia del contendere, rendendo inoperante quel principio, si traduce, dunque, in un ingiustificato privilegio per la parte che pone in essere un comportamento (il ritiro dell'atto, nel caso dell'amministrazione, o l'acquiescenza alla pretesa tributaria, nel caso del contribuente) di regola determinato dal riconoscimento delle altrui ragioni e, corrispondentemente, in un del pari ingiustificato pregiudizio per la controparte…”.

La compensazione delle spese di lite può essere disposta, ad esempio, nel caso in cui l'Ufficio dimostri in giudizio che i motivi di autotutela sono emersi soltanto a seguito dell'esame della documentazione esibita e/o dalle argomentazioni esposte soltanto in sede contenziosa o che l'annullamento dell'atto è stato disposto in ritardo a causa della oggettiva incertezza, a livello normativo o giurisprudenziale, delle questioni di fatto o di diritto.

Peraltro, la Corte di cassazione, con sentenza del 19 gennaio 2010, n. 698, ha riconosciuto il diritto del contribuente al risarcimento dei danni “per avere l'ufficio finanziario colpevolmente ritardato l'annullamento in autotutela dell'atto impositivo illegittimo” e ha evidenziato che “Ove il provvedimento di autotutela non venga tempestivamente adottato, al punto da costringere il privato ad affrontare spese legali e d'altro genere per proporre ricorso e per ottenere per questa via l'annullamento dell'atto, la responsabilità della P.A. permane ed è innegabile”.

Cass. civ. 14 dicembre 2012, n. 23078

l'annullamento dell'atto impositivo in sede di autotutela dà luogo - secondo il costante insegnamento di questa Corte - a cessazione della materia del contendere, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 46, cui non si correla necessariamente la condanna alle spese secondo la regola della soccombenza virtuale, qualora tale annullamento non consegua ad una manifesta illegittimità del provvedimento impugnato sussistente sin dal momento della sua emanazione, stante, invece, l'obiettiva complessità della materia (Cass. 22231/11) …”. In siffatta ipotesi, infatti, ben può essere disposta la compensazione delle spese di lite ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 15, comma 1, in quanto intervenuta all'esito di una valutazione complessiva della lite da parte del giudice tributario, trattandosi di un'ipotesi diversa dalla compensazione “ope legis” prevista dal comma 3 dell'art. 46 succitato, come conseguenza automatica di qualsiasi estinzione del giudizio, dichiarata costituzionalmente illegittima dalla pronuncia della Corte costituzionale n. 274 del 2005 (Cass. 19947/10)”.

Si veda inoltre Cass. civ. 20 aprile2012, n. 6283, secondo cui “l'Amministrazione finanziaria non può essere chiamata a rispondere del danno eventualmente causato al contribuente sulla base del solo dato oggettivo della illegittimità dell'azione amministrativa, essendo necessario che la stessa, nell'adottare l'atto illegittimo, abbia anche violato le regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione, che costituiscono il limite esterno della sua azione” (cfr. in senso conforme Commissione tributaria regionale del Lazio del 20 giugno 2012, n. 431/14/12).


Osservazioni

Il regime delle spese processuali nelle controversie innanzi alle Commissioni tributarie provinciali e regionali è regolato dal principio della soccombenza.

La Corte di cassazione ha evidenziato che “l'individuazione del soccombente si fa in base al principio di causalità, con la conseguenza che parte obbligata a rimborsare alle altre le spese che hanno anticipato nel processo, è quella che, col comportamento tenuto fuori del processo, ovvero col darvi inizio o resistervi in forme e con argomenti non rispondenti al diritto, ha dato causa al processo o al suo protrarsi (Cass. civ. 30 maggio 2000, n. 7182)”. Ha altresì chiarito che “la soccombenza… può essere determinata, anziché da ragioni di merito, per avere l'attore promosso il giudizio con un atto dichiarato inammissibile o improcedibile e tale dichiarato dal giudice adito con pronunzia che ha definito il giudizio (cfr. Cass. civ. 27 dicembre 1999, n. 14576), essendovi pure in tal caso il mancato accoglimento della domanda, ancorché per un impedimento di carattere processuale” (cfr. Cass. civ. 15 luglio 2008, n. 19456).

Il principio di causalità e, per certi aspetti quello di colpevolezza (sotto forma di negligenza o imperizia nell'inizio o nella prosecuzione della controversia), vale anche per la c.d. “soccombenza virtuale”: la sentenza in commento richiede infatti un atteggiamento colposo dell'Ufficio che abbia ritirato l'atto in autotutela, rappresentato dall'esistenza di una evidente illegittimità dell'atto sin dal momento della sua emissione.

Per concludere si ricorda che con l'art. 9, comma 1, lettera f) del D.Lgs. n. 156/2015 è stato modificato l'art. 15 del D.lgs. 546/1992, in materia di spese di giudizio.

Il principio ispiratore delle modifiche in tema di spese processuali risiede nell'esigenza, da un lato, di scoraggiare l'abuso dello strumento processuale e favorire l'utilizzo degli strumenti deflattivi del contenzioso e, dall'altro, di evitare che la parte sia costretta a sopportare gli oneri del giudizio nel caso di pretesa tributaria infondata.

In ossequio agli indicati principi, con la modifica dell'art. 15 del D.lgs. n. 546/1992, è stato ribadito il criterio secondo cui le spese del giudizio seguono la soccombenza, mentre la possibilità per la commissione tributaria di compensare in tutto o in parte le spese – traslata al comma 2 della norma in esame – è stata consentita solo “in caso di soccombenza reciproca o qualora sussistano gravi ed eccezionali ragioni che devono essere espressamente motivate”.

In altri termini, la parte che risulti soccombente nel merito deve essere condannata a rimborsare le spese del giudizio liquidate con la sentenza, salvo compensazione delle medesime che può essere disposta solo qualora siano presenti le condizioni alternative della soccombenza reciproca (cfr, tra le altre, Cass. civ. n. 901/2012) o della sussistenza, nel caso concreto, di gravi ed eccezionali ragioni, espressamente motivate dal giudice nel provvedimento che decide sulle spese.

Ci si è discostati, dunque, dal testo dell'art. 92 c.p.c. – richiamato nella precedente formulazione – secondo cui la compensazione è possibile solo in caso di assoluta novità della questione trattata o di mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti. Si può, tuttavia, ritenere che i criteri offerti dal codice di procedura civile continuino a rilevare, in quanto comunque integranti le eccezionali circostanze richieste dalla nuova formulazione.
Con l'introduzione nel corpo dell'articolo 15 del nuovo comma 2-bis, il legislatore, per scoraggiare le “liti temerarie”, ha espressamente richiamato l'applicabilità dell'art. 96, primo e terzo comma, c.p.c., in tema di responsabilità aggravata (i commi primo e terzo dell'art. 96 c.p.c. dispongono, rispettivamente, che “se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell'altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d'ufficio, nella sentenza” e che “in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell'art. 91, il giudice, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”).