Doppio binario sanzionatorio penale-amministrativo nell'evoluzione della giurisprudenza
15 Dicembre 2016
Premesso che il sistema italiano del doppio binario sanzionatorio, penale ed amministrativo, applicabile in relazione alla stessa fattispecie di manipolazione del mercato, appare contrario all'art. 50 della CDFUE, come interpretato alla luce della giurisprudenza della Corte EDU sull'art. 4 prot. VII CEDU, che estende il divieto di ne bis in idem anche ai rapporti tra sanzione penale e sanzione formalmente amministrativa ma da considerarsi penale agli effetti convenzionali; rilevato che Corte Cost. 12 maggio 2016, n. 102, ha dichiarato inammissibile la q.l.c. sollevata sul punto per non avere l'ordinanza di rimessione “sciolto il nodo” dei rapporti tra concetto di ne bis idem desumibile dalla CEDU e concetto di ne bis in idem nel market abuse desumibile dal diritto dell'UE; considerato che è necessario sciogliere tale nodo e che può farlo solo la Corte UE in sede di interpretazione dell'art. 50 CDFUE, sorge necessità di disporre rinvio pregiudiziale alla Corte UE ex art. 267, paragrafo 3, TFUE in ordine alle seguenti due questioni:
1) “se la previsione dell'art. 50 CDFUE, interpretato alla luce dell'art. 4 prot. n. 7 CEDU, della relativa giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo e della normativa nazionale, osti alla possibilità di celebrare un procedimento amministrativo avente ad oggetto un fatto (condotta illecita di manipolazione del mercato) per cui il medesimo soggetto abbia riportato condanna penale irrevocabile”; 2) “se il giudice nazionale possa applicare direttamente i principi unionali in relazione al principio del ne bis in idem, in base all'art. 50 CDFUE, interpretato alla luce dell'art. 4 prot. n. 7 CEDU, della relativa giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo e della normativa nazionale”.
Cass. civ., sez. trib., 13 ottobre 2016, n. 20675 Premesso che dalla giurisprudenza della Corte EDU e da quella della Corte UE possono evincersi due diverse declinazioni del medesimo principio del ne bis in idem nella materia dell'abuso di informazioni privilegiate, sorge necessità di disporre rinvio pregiudiziale alla Corte UE ex art. 267, paragrafo 3, TFUE in ordine alle seguenti due questioni:
1) "Se l'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione vada interpretato nel senso che in presenza di un accertamento definitivo dell'insussistenza della condotta che ha integrato l'illecito penale, sia precluso, senza necessità di procedere ad alcun ulteriore apprezzamento da parte del giudice nazionale, l'avvio o la prosecuzione per gli stessi fatti di un ulteriore procedimento che sia finalizzato all'irrogazione di sanzioni che per la loro natura e gravità siano da qualificarsi penali"; 2) "Se il giudice nazionale, nel valutare l'efficacia, proporzionalità e dissuasività delle sanzioni, ai fini del riscontro della violazione del principio del ne bis in idem di cui all'art. 50 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione, debba tener conto dei limiti di pena posti dalla Direttiva 2014/57/UE".
Cass. civ., sez. II, 15 novembre 2016, n. 23232 Il divieto di ne bis in idem posto dall'art. 4 prot. VII CEDU non inibisce agli Stati membri di adottare sistemi che cumulano sanzioni penali ed amministrative convergenti su uno stesso fatto, se diversi ne sono gli scopi e parimenti diverse sono le manifestazioni di antisocialità dalle stesse colpite; tuttavia il rispetto di detto divieto esige o una forma di raccordo tra i rispettivi procedimenti in modo da determinarne l'unificazione o, in caso di loro svolgimento parallelo, comunque l'assicurazione di una duplice connessione cronologico-sostastanziale, che, evitando per quanto possibile duplicazioni nella raccolta e nella valutazione delle prove, sia sufficientemente stringente da consentire una risposta sanzionatoria complessivamente proporzionata e prevedibile, in modo che la sanzione irrogata per seconda tenga conto di quella irrogata per prima.
Corte EDU, Grande Camera, sentenza 15 novembre 2016, A. e B., ricorsi nn. 24130/11 e 29758/11 Il caso
Prosegue la storia apparentemente infinita del doppio binario sanzionatorio penale-amministrativo (tributario), con una nuova evoluzione: prima di Corte EDU, Grande Camera, sentenza 15 novembre 2016, A. e B., ricorsi nn. 24130/11 e 29758/11, che, sostanzialmente ribaltando la sentenza Grande Stevens, ammette la cumulabilità dei due tipi di sanzioni, purché i relativi procedimenti siano avvinti da un collogamento sufficientemente stretto da fare in modo che la sanzione irrogata per seconda tenga conto di quella irrogata per prima, le due ordinanze dapprima della sezione tributaria, 13 ottobre 2016, n. 20675, dappoi della sezione II Civile, 15 novembre 2016, n. 23232, della Suprema Corte di Cassazione, chiusasi la porta della Corte Costituzionale, bussano a quella della Corte UE. Le affermazioni della Corte EDU in A. e B., per quanto apparentemente risolutive, lasciano aperti svariati fronti, per certi versi persino aumentando il tasso complessivo di problematicità. Se è troppo presto per azzardare prospettive critico-sistematiche, si registra il dato di fondo per cui i Giudici italiani, a differenza ad esempio di quelli norvegesi, ormai rinunciano ad un ruolo da protagonisti, rimettendo la palla alla Corte UE, la quale tuttavia potrebbe loro restituirla con una (legittima) esegesi di rimbalzo. Ad ogni buon conto, qualunque sarà l'esito dei rinvii pregiudiziali alla Corte UE, della S.C. ma anche dei Giudici di merito, la relativa decisione potrà valere solo per le materie oggetto delle competenze devolute all'Unione europea. Anche sotto tale aspetto, il quadro, invece di semplificarsi, si complica. La questione
La Sezione tributaria della Suprema Corte di Cassazione, nell'ordinanza addì 13 ottobre 2016, n. 20675, cui, a pochissimi giorni di distanza, ha fatto seguito, con prospettazioni in buona parte sovrapponibili, altra ordinanza questa volta della Sezione II Civile addì 15 novembre 2016, n. 23232, è tornata nuovamente sulla tematica del doppio binario sanzionatorio in materia di abusi di mercato. In particolare, la questione trattata dalla prima ordinanza riguarda il delitto di manipolazione del mercato, ex art. 185 D.Lgs. n. 58/1998 (TUF), e il corrispondente illecito amministrativo, ex art. 187-ter; quella trattata dalla seconda ordinanza riguarda il delitto di abuso di informazioni privilegiate, ex art. 184, e il corrispondente illecito amministrativo, ex art. 187-bis.
La tematica del doppio binario sanzionatorio, su cui sono stati più volte investiti i supremi organi di giustizia nazionale e sovranazionale, prende le mosse dalla possibilità che in Italia siano legittimamente instaurati due procedimenti, uno penale ed uno amministrativo, sul medesimo fatto storico. Nello specifico, infatti, il sistema del doppio binario sanzionatorio nel nostro ordinamento prevede che, per gli abusi di mercato, un soggetto possa essere perseguito, giudicato e condannato in sede penale e, parallelamente, possa altresì essere attinto dalle concorrenti sanzioni amministrative irrogate in un procedimento amministrativo da un'autorità amministrativa pur indipendente qual è la Consob.
L'art. 649 c.p.p. quale norma disciplinatrice dell'ipotetico conflitto derivante dalla convergenza sanzionatoria sul medesimo fatto riguardato come fatto storico non è di per se stesso rilevante, perché prevede sì il divieto di bis in idem per lo stesso fatto nei confronti di un unico soggetto, ma limitatamente ai rapporti tra sanzioni penali, senza estendersi, invece, a quelli tra queste e le sanzioni amministrative.
Similmente, in astratto, come rilevato da Cass. civ., sez. trib., n. 20675/2016, in commento, il meccanismo della giustapposizione delle sanzioni penale ed amministrativa non è neppure di per se stesso contrario al principio del ne bis in idem siccome codificato dagli artt. 4 prot. VII CEDU e, per assorbimento, 50 CDFUE, tali disposizioni riferendosi testualmente ad un doppio giudizio di natura penale e non anche amministrativa. È l'interpretazione estensiva del principio, allargato sino al punto da abbracciare sanzioni amministrative da considerarsi in realtà penali, a far saltare gli schemi classici di ragionamento. Il punto di partenza sta nel fatto che, alla luce di costante giurisprudenza della Corte EDU, la concreta qualificazione delle sanzioni irrogate dalla Consob porta ad affermarne la natura penale. In altri termini, è la qualificazione convenzionalmente penalistica di sanzioni formalmente amministrative a porre la quaestio della violazione del divieto di bis in idem anzitutto sostanziale. Detta quaestio rileva, non solo a livello della giurisprudenza della Corte EDU, ma anche a livello della giurisprudenza della Corte UE, per effetto della lettura dell'art. 50 CDFUE in coerenza con l'interpretazione data dalla Corte EDU all'art. 4 prot. VII CEDU. Le soluzioni giuridiche
Il divieto di bis in idem in Europa A partire dalla sentenza della Corte UE Fransson del 2013 (Corte UE, Grande Sezione, 26 febbraio 2013, C-617/10, Aklagaren c. Fransson) e dalle sentenze della Corte EDU Zolotukhin del 2009 (Corte EDU, Grande Camera, 10 febbraio 2009, Zolotukhin) e Lucky Dev, Nykänen e Grande Stevens del 2014 (Corte EDU, sez. trib., 27 novembre 2014, Lucky Dev; Corte EDU, sez. IV, 20 maggio 2014, Nykänen; Corte EDU, Sez. II, 4 marzo 2014, Grande Steven e al.), la violazione o meno del principio del ne bis in idem si misura sulla natura sostanziale della sanzione, da valutare in base ai c.d. criteri Engel, e non (o non solo) sulla qualificazione della stessa operata dagli ordinamenti degli Stati membri, perché, se così non fosse, sarebbe facile per questi ultimi eludere le garanzie della CEDU, chiamando amministrative sanzioni per carica afflittiva da ritenersi penali.
Già nel lontano 1976 in Engel la Corte EDU (Corte EDU, Plenary, 23 novembre 1976) aveva cercato di tassativizzare parametri oggettivi di classificazione delle sanzioni come penali. L'interprete, per verificare se una sanzione ha natura penale, deve tenere conto, anzitutto, della qualificazione giuridica posta dall'ordinamento nazionale, fermo restando che una qualificazione interna in termini di pena impedisce una retrocessione in termini di sanzione amministrativa; l'interprete, poi, a fronte di una qualificazione interna in termini di sanzione amministrativa, deve tenere conto della natura sostanziale dell'illecito, nonché della natura e del grado di severità della sanzione stessa. I criteri sono alternativi, ma possono essere cumulati per addivenire ad una qualificazione intrinsecamente coerente e, in definitiva, univoca del fatto.
Analogo catalogo e quindi analogo modo di intendere l'operatività dei criteri che lo integrano constano propugnati pure dalla Corte UE nella sentenza Bonda del 2012 (Corte UE, Grande Sezione, 5 giugno 2012, C-489/10, Łukasz Marcin Bonda) in materia di sanzioni propriamente tributarie.
Le sanzioni amministrative previste dagli artt. 187-bis e 187-ter TUF per un fatto di market abuse, nonostante che siano irrogate dalla Consob, hanno sostanzialmente natura penale agli effetti della giurisprudenza della Corte EDU. In Grande Stevens, leggesi che, “in applicazione dei criteri Engel, la Corte [EDU] ritiene che le sanzioni in causa rientrino, per la loro severità, nell'ambito della materia penale”. La Corte EDU conosceva di una fattispecie in cui, sul medesimo fatto, era divenuta definitiva la condanna alla sanzione amministrativa e, nel frattempo, era stato incardinato il procedimento penale. Qualificando sostanzialmente penale la sanzione amministrativa alla stregua dei predetti criteri Engel, ne ha tratto la conseguenza che il giudizio penale, instaurato successivamente al procedimento amministrativo incardinato presso la Consob, fosse in contrasto con il principio del ne bis in idem, enunciato dall'art. 4 prot. VII CEDU. Tale disposizione, infatti, prevede che nessuno possa essere perseguito o condannato penalmente per il medesimo fatto per cui è già stato giudicato, con sentenza definitiva, nel medesimo Stato.
La sentenza Grande Stevens è stata letta nel senso che il diritto italiano si pone in radicale contrasto con i principi della CEDU per il fatto in sé di prevedere il meccanismo del doppio binario sanzionatorio in materia tributaria. Sul medesimo fatto – da intendersi [in ossequio, quanto alla Corte EDU, alla già menzionata sentenza Zolotukhin e, quanto alla Corte UE, a Van Esbroeck del 2006 (Corte UE, Sezione II, 9 marzo 2006, C-436/04, Leopold Henri Van Esbroeck), confermativa di Guzotok e Brugge del 2003 (Corte UE, Plenary, 11 febbraio 2003, C-187/01 e C-386/01, Hüseyin Gözütok (C-187/01) e Klaus Brügge (C-385/01)] come fatto storico e non come sua vestizione giuridica con tanto di varianti nell'un ordinamento (penale) ovvero nell'altro (amministrativo) – non possono concorrere due sanzioni formalmente diverse ma ontologicamente uguali perché entrambe penali.
Non è questa la sede per approfondire i precipitati di Grande Stevens, ma, su un piano logico, per comprendere l'insegnamento praticamente opposto reso dalla stessa Corte EDU con la sentenza della Grande Camera del 15 novembre 2016, A. e B., nei ricorsi nn. 24130/11 e 29758/11, destinata a sedimentare per un bel po' prima di essere funditus inquadrata e commentata, valga rilevare, su un piano strettamente logico, che, in Grande Stevens, riportata la sanzione amministrativa nell'alveo della pena, la convergenza di due pene fa scattare il divieto di bis in idem, notasi sin d'ora, anzitutto su un piano sostanziale prima ancora che procedurale.
Gli approcci della giurisprudenza interna dopo Grande Stevens A seguito di Grande Stevens, i giudici nazionali hanno dovuto affrontare, con riferimento al TUF ma anche al D.Lgs. n. 74/2000, l'incompatibilità tra il doppio binario sanzionatorio ed il principio del ne bis in idem ai sensi dell'art. 4 prot. VII CEDU. La strada più ovvia è parsa quella di sollevare ripetutamente avanti alla Corte Costituzionale questioni di legittimità costituzionale delle disposizioni che prevedono sanzioni amministrative accanto a speculari fattispecie penali, per contrasto con l'art. 117, comma 1, Cost., con riguardo all'art. 4 prot. VII CEDU (tra le altre si ricordano Cass. pen., sez. V, n. 1782/2015, con riferimento all'art. 187-bis TUF, e Trib. Bologna, 21 aprile 2015, con riferimento agli artt. 10-ter e 13 del D.Lgs. n. 74/2000).
È quanto accaduto anche nella vicenda oggetto di Cass. civ., sez. trib., n. 20675/2016, in commento, che curiosamente cade su un'ipotesi speculare rispetto al caso oggetto della sentenza Grande Stevens, giacché il punto di partenza, inversamente che in quest'ultima, è una sentenza penale di condanna passata in giudicato per il delitto di manipolazione del mercato ai sensi dell'art. 185 TUF seguita dall'appendice ammnistrativa. Invero, parallelamente al giudizio penale, la Consob aveva provveduto ad irrogare la sanzione amministrativa ai sensi dell'art. 187-ter TUF, contro la quale gli imputati hanno reagito in sede giurisdizionale civile, perché così prevede la procedura, sino a proporre ricorso per cassazione. Giust'appunto nel grado di legittimità la Corte, preso atto del giudicato sulla sanzione penale, ha sollevato questione di legittimità costituzionale con riferimento all'art. 187-ter TUF alla luce della sentenza della Corte EDU Grande Stevens e del principio del ne bis in idem ex artt. 2 e 4 prot. VII CEDU. Tuttavia C. Cost. n. 102/2016 (per vero investita prioritariamente della dedotta illegittimità costituzionale dell'art. 649 c.p.p. giusta Cass. pen., sez. V, n. 1782/2015, cit.), ha dichiarato inammissibile la questione per perplessità (perplessità ravvisata anche nel segmento di giudizio concernente l'art. 649 c.p.p., a proposito del quale – nondimeno seguendo un fulcro argomentativo estensibile ad un ragionamento più ampio – scrive che “il giudice a quo investe l'art. 649 cod. proc. pen. pur nella convinzione che tale via conduca a una soluzione di incerta compatibilità con la stessa Costituzione, ma che nondimeno appare idonea ad impedire la lesione di un diritto della persona …. La stessa Corte rimettente, tuttavia, evidenzia che l'accoglimento di una tale questione determinerebbe un'incertezza quanto al tipo di risposta sanzionatoria – amministrativa o penale – che l'ordinamento ricollega al verificarsi di determinati comportamenti, in base alla circostanza aleatoria del procedimento definito più celermente. Infatti, l'intervento additivo richiesto non determinerebbe un ordine di priorità, né altra forma di coordinamento, tra i due procedimenti – penale e amministrativo – cosicché la preclusione del secondo procedimento scatterebbe in base al provvedimento divenuto per primo irrevocabile, ponendo così rimedio – come osserva la Corte rimettente – ai singoli casi concreti, ma non in generale alla violazione strutturale da parte dell'ordinamento italiano del divieto di bis in idem, come censurata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, nel caso Grande Stevens. La stessa Corte rimettente sottolinea, poi, che l'incertezza e la casualità delle sanzioni applicabili potrebbero a loro volta dar luogo alla violazione di altri principi costituzionali: anzitutto, perché si determinerebbe una violazione dei principi di determinatezza e di legalità della sanzione penale, prescritti dall'art. 25 Cost.; in secondo luogo perché potrebbe risultare vulnerato il principio di ragionevolezza e di parità di trattamento, di cui all'art. 3 Cost.; infine, perché potrebbero essere pregiudicati i principi di effettività, proporzionalità e dissuasività delle sanzioni, imposti dal diritto dell'Unione europea, come esplicitato dalla Corte di giustizia dell'Unione europea (sentenza, 23 febbraio 2013, in causa C-617/10 Aklagaren contro Akerberg Fransson), in violazione, quindi, degli artt. 11 e 117 Cost. Nel ragionamento del giudice rimettente, però, tali ‘incongruenze' dovrebbero soccombere di fronte al prioritario rilievo da conferire alla tutela del diritto personale a non essere giudicato due volte per lo stesso fatto …”).
Secondo il Giudice delle Leggi, urge bensì un chiarimento del rapporto tra il principio generale del ne bis in idem contenuto nella CEDU e quello applicabile internamente alla fattispecie di abuso di mercato, così come disciplinata dalla normativa unionale; ma esso non può avvenire che in chiave legislativa, essendo solo il legislatore e non anche l'interprete l'unico abilitato a stabilire quale, e quando, tra la sanzione penale e quella amministrativa debba avere la prevalenza.
In realtà, ove si supponesse di leggere nelle parole della C. Cost. che è scontata l'esclusione della convergenza di una sanzione amministrativa-penale in aggiunta a quella penale e viceversa, la qual cosa per vero Essa non dice, si dimenticherebbe che, quando si ragiona del ne bis in idem, non viene in linea di conto un dogma di consistenza unica e trasversale agli ordinamenti sovranazionali e nazionale, dal momento che l'ordinamento nazionale, per un verso, assorbe la tutela dei diritti fondamentali dalla doppia giurisprudenza della Corte EDU e della Corte UE, ma, per altro verso, nella specifica materia del market abuse come in tutte le materie di competenza unionale (sia pure con le dovute distinzioni quanto ad estensione e profondità), esiste in funzione di svolgimento interno del diritto dell'Unione europea, che a sua volta protegge i diritti fondamentali sulla scorta della CEDU, sì, epperò non come CEDU, ma come acquisizione integrata alla struttura dell'Unione stessa. Alla luce di tali considerazioni, il punto forse meno condivisibile della pronuncia della C. Cost. sta in ciò che Essa, a differenza di quanto fatto per esempio dal giudice novergese in A. e B. nella sicura prospettiva di un approdo della controversia alla Corte EDU, ha rinunziato ad avventurarsi in un'ottica ricostruttiva su base interna, la quale avrebbe giovato alla certezza del diritto nella misura in cui avesse tenuto conto, com'è giusto che sia, delle istanze internazionalistiche, sciogliendole però nelle peculiarità dell'ordinamento italiano, il quale, d'altronde in compagnia di buona parte degli ordinamenti europei (secondo quanto ricordato dall'Avvocato Generale in Fransson), conosce il doppio binario sanzionatorio non come aggravamento della punizione, ma come completamento dello spettro di tutela su piani concorrenti, con prospettive autonome di esecuzione delle sanzioni in rapporto a fini non sovrapponibili.
L'invocazione dell'intervento della Corte UE È dunque successivamente alla dichiarazione di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale che la sezione tributaria, con l'ordinanza n. 20675/2016, in commento, si dà finalmente peso di investire la Corte UE – ed in verità, quale giurisdizione di ultima istanza, non avrebbe potuto non farlo – con riferimento alla questione riguardante l'interpretazione dell'art. 50 CDFUE, onde verificare anzitutto se la sua portata sia la medesima di quella dell'art. 4 prot. VII CEDU, siccome evolutosi nella giurisprudenza della Corte EDU, ma anche se esso possa essere applicato direttamente dal giudice comune (val la pena di ricordare che l'ordinanza di cui si tratta non è il primo caso di rimessione alla Corte UE di questioni su natura ed estensione del ne bis in idem ex art. 50 CDFUE; segnatamente già un anno prima il Tribunale di Bergamo, con ordinanza del 16 settembre 2015 in tema di omesso versamento IVA, aveva promosso incidente di pregiudizialità avanti la Corte UE soltanto però sotto il profilo del primo corno del problema, concernente la domanda “se la previsione dell'art. 50 CDFUE interpretato alla luce dell'art. 4 prot. VII CEDU e della relativa giurisprudenza della Corte EDU, osti alla possibilità di celebrare un procedimento penale avente ad oggetto un fatto per cui il soggetto imputato abbia riportato sanzione amministrativa irrevocabile”).
Il richiamo al principio del ne bis in idem contenuto nella CDFUE è giustificato in quanto la materia degli abusi di mercato è disciplinata dal diritto unionale. In particolare, sono intervenuti di recente il Regolamento UE n. 596/2014 e soprattutto la Direttiva 2014/57/UE, che innovano la precedente disciplina, imperniata sulla Direttiva 2003/6/CE.
La precedente disciplina, pur richiedendo la comminatoria di sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive a tutela del mercato e dei risparmiatori, lasciava alla discrezionalità del singolo Stato la previsione di sanzioni che rispettassero dette condizioni, indicando tuttavia la strada privilegiata delle sanzioni (quantomeno) amministrative. Ne conseguiva che essa, quantunque non prevedesse espressamente il cumulo di sanzioni penali ed amministrative, lo consentiva, giacché, in generale, se la normativa unionale non detta regole puntuali, una volta datane attuazione negli ordinamenti interni secondo le scelte dei corrispondenti legislatori, poiché il livello di tutela dei beni giuridici comunitario-unionali deve almeno conformarsi a quello di tutela dei beni giuridici esclusivamente interni, ammesso per questi ultimi il doppio binario sanzionatorio, lo stesso non può non essere ammesso in linea di principio anche per i primi. Piuttosto, come si ricava dalla sentenza della Corte UE Fransson, nel contesto disciplinare omogeneamente esteso (sostanzialmente per assimilazione) sia ai beni giuridici comunitario-unionali sia a quelli esclusivamente interni, spetta all'interprete garantire la protezione dei diritti fondamentali in ossequio agli standards nazionali, a patto però che ciò “non comprometta il livello di tutela [di tali diritti] previsto dalla Carta, come interpretata dalla Corte, né [sotto altro versante] il primato, l'unità e l'effettività del diritto dell'Unione”. Tali premesse conducono alla conclusione secondo cui, rispetto al tema del cumulo di sanzioni penali ed amministrative, segnatamente tributarie, è il giudice comune a dover valutare l'effettivo rispetto dei diritti fondamentali in funzione del diritto interno, purché in ogni caso sia assicurato il tetto minimo di efficacia, proporzionalità e dissuasività della risposta sanzionatoria pretesa dall'Unione europea.
Tetto minimo, tuttavia, in conformità a quanto con solare evidenza messo in luce per prima da Cass. pen., sez. V, n. 1782/2015, cit., da rapportarsi, una volta reputata l'inaccettabilità del doppio binario sanzionatorio alla stregua della giurisprudenza della Corte EDU, alle sanzioni per così dire “residue”. La qual cosa equivale a dire che, qualunque sia l'opzione ermeneutica prediletta dall'ordinamento interno, quel che interessa all'Unione europea è che i propri beni giuridici siano comunque assistiti da un presidio sanzionatorio confacente. Su tali basi Cass. pen., sez. V, n. 1782/2015, cit., argomentando che sarebbe inapplicabile direttamente dal giudice comune l'art. 50 CDFUE per l'impossibilità, proprio alla stregua di Fransson, di “inapplicare” (rectius, disapplicare) tout court “norme interne sulla base di una valutazione della sussistenza dei presupposti del bis in idem svolta esclusivamente nella prospettiva indicata dalla Corte EDU”, sollevava questione di legittimità costituzionale al fine di ottenere una pronuncia modificativa dell'art. 187-bis, comma 1, TUF, sostituendo la formula iniziale: “Salve le sanzioni penali quando il fatto costituisce reato” con quella: “Salvo che il fatto costituisca reato”, in quanto la seconda consentirebbe di risolvere il contrasto prospettico (dalla S.C. definito in termini di “differente approccio”) circa l'intendimento del ne bis in idem da parte della Corte UE e della Corte EDU.
Cass. civ., sez. trib., n. 20675/2016, in commento, non ottenuta risposta dalla C. Cost., bussa ora alla porta della Corte UE, sostanzialmente riproponendo le prospettazioni di Cass. pen., sez. V, n. 1782/2015, cit.: nondimeno la Corte UE, a prescindere dalla (ed anzi, a maggior ragione, in virtù della) novità rappresentata dalla sentenza della Corte EDU in A. e B., potrebbe finanche ribadire, richiamando Fransson, che l'immediata osservanza reclamata dall'art. 50 CDFUE è attuata quando il giudice comune sceglie, secondo un criterio meramente interno (in esecuzione o meno della sentenza della Corte EDU Grande Stevens), se dare prevalenza alla sanzione penale o a quella amministrativa, purché residualmente adeguata. Qualora così facesse, la Corte UE, che sicuramente eviterebbe la fatica di affrontare il nodo gordiano della perimetrazione del divieto di bis in idem nell'ordinamento unionale ma di converso rinuncerebbe al merito di fornire un indirizzo comune alle giurisdizioni interne, restituirebbe la palla alla S.C.: la quale ultima, a quel punto, già inutilmente percorsa la strada di ottenere lumi dalla C. Cost., sarebbe costretta a dipanare da sola (con soverchiante fatica ermeneutica) la matassa. Osservazioni
Suggestioni interpretative (contrastanti) derivanti, da un lato, dalla Direttiva 2014/57/UE sul market abuse …. Qualunque sia l'autorità che avrà ad assumersi l'onere di decidere, sull'operazione di dipanamento della matassa sono suscettibili di riverberare i propri effetti due elementi di valutazione. Il primo riguarda il mutamento di prospettiva della normativa sul market abuse intervenuto dopo la Direttiva 2003/6/CE.
Mentre infatti la Direttiva 2003/6/CE muoveva dal presupposto dell'individuazione della sanzione amministrativa come piattaforma minima (o minimamente appropriata) di tutela in tema di market abuse, con la Direttiva 2014/57/UE, l'UE prevede che “è essenziale rafforzare il rispetto delle norme sugli abusi di mercato istituendo sanzioni penali, che dimostrino una forma più forte di disapprovazione sociale rispetto alle sanzioni amministrative. Introducendo sanzioni penali almeno per le forme gravi di abusi di mercato, si stabiliscono confini chiari per i tipi di comportamenti che sono ritenuti particolarmente inaccettabili e si trasmette al pubblico e ai potenziali contravventori il messaggio che tali comportamenti sono considerati molto seriamente dalle autorità competenti” (VI considerando). Tale cambio di rotta non nasce a caso, sgorgando dalla duplice constatazione a termini della quale, da un lato, “l'adozione di sanzioni amministrative da parte degli Stati membri si è finora rivelata insufficiente a garantire il rispetto delle norme intese a prevenire e combattere gli abusi di mercato” (V considerando) e, dall'altro, il fatto che “non tutti gli Stati membri hanno previsto sanzioni penali per alcune forme di violazioni gravi della normativa nazionale di attuazione della Direttiva 2003/6/CE” è di per se stesso fonte di “pregiudizio all'uniformità delle condizioni operative nel mercato interno”, potendo costituire “un incentivo ad attuare abusi di mercato negli Stati membri che non prevedono sanzioni penali” (VII considerando). Donde “l'introduzione, da parte di tutti gli Stati membri, di sanzioni penali almeno per i reati gravi di abusi di mercato” è stata ritenuta “essenziale per garantire l'attuazione efficace della politica dell'Unione in materia” (VIII considerando).
Per raggiungere gli obiettivi dell'effettività e della dissuasività, sono state privilegiate le sanzioni di natura penale, divenute di applicazione necessaria in tutti gli Stati membri. Necessaria sì, ma non esclusiva, giacché gli Stati membri non sono obbligati – recte, vincolati – a conformare il fatto da sanzionare (soltanto) in guisa di reato, residuando loro uno spazio decisionale volto a creare fattispecie solo amministrativamente sanzionate e, oltre, nel silenzio della direttiva, (viepiù) figure di reato doppiate da una sanzione amministrativa. Infatti, sebbene sia detto che, “nell'applicare la normativa nazionale di recepimento della presente direttiva, gli Stati membri dovrebbero garantire che l'irrogazione di sanzioni penali per i reati ai sensi dalla presente direttiva e di sanzioni amministrative ai sensi del Regolamento (UE) n. 596/2014 non violi il principio del ne bis in idem”, resta fermo che, “mentre le condotte illecite commesse con dolo dovrebbero essere punite conformemente alla presente direttiva, almeno nei casi gravi, le sanzioni per le violazioni del regolamento (UE) n. 596/2014 non richiedono che sia comprovato il dolo o che gli illeciti siano qualificati come gravi”(XXIII considerando).
A questo punto, per far progredire il discorso, occorre rilevare che, in verità, gli artt. 3, paragrafo 1; 4, paragrafo 1; 5, paragrafo 1; e 6, paragrafi 1 e 2, giusta formule costantemente ripetute, introducono obblighi di penalizzazione per determinate fattispecie almeno nei casi più gravi o se commesse con dolo. Completa il quadro l'art. 7, che, al paragrafo 1, recupera il canone dell'effettività, proporzionalità e dissuasività delle sanzioni penali, ma ai paragrafi 2 e 3 si spinge sino al punto di individuare la misura minima del massimo edittale, non di una pena qualsiasi, ma tout court della reclusione.
L'effetto è sicuramente quello di un'armonizzazione al rialzo, con generale indicazione di adeguatezza della sola sanzione penale per le fattispecie più gravi o dolose. Se ora si combina tale effetto con l'insegnamento Fransson secondo cui, al netto dell'eventuale demolizione del doppio binario sanzionatorio (per stilemi appartenenti al diritto interno, in ossequio, o anche non, a Grande Stevens), efficacia, proporzionalità e dissuasività della risposta sanzionatoria sono da agganciare alle sanzioni “residue”, potrebbe ravvisarsi materia sufficiente – senza impegnare il tema dell'interpretazione dell'art. 50 CDFUE – per sostenere che il vuoto normativo paventato da C. Cost. n. 102/2016, cit., dinanzi alla constatazione della mera casualità della formazione per primo di un giudicato penale piuttosto che amministrativo è superato dall'accordata prevalenza fissa alla sanzione formalmente penale purché sopra-soglia. Il punto è fatto proprio, pur con sviluppi argomentativi non perfettamente coincidenti, da Cass. civ., sez. II, n. 23232/2016, in commento, la quale, tuttavia, ritenuta a priori la necessità di impegnare la giurisdizione unionale sull'operatività dell'art. 50 CDFUE, ne fa oggetto di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 267, paragrafo 3, TFUE.
(Segue) e, dall'altro lato, dalla sentenza della Corte EDU A. e B. Qualora si pensasse che la luce sia in procinto di rischiarare le tenebre probabilmente si cadrebbe in illusione. Tanto per cominciare, a ribaltare Grande Stevens è intervenuta la sentenza della Grande Camera della Corte EDU 15 novembre 2016, A. e B., cui già si è più volte accennato. Essa muove dal convincimento per cui l'art. 4 prot. VII CEDU in realtà non impedisce agli Stati membri di adottare una politica sanzionatoria per così dire integrata penale-amministrativa, per lo meno quante volte concorra a qualificare penalisticamente il fatto un elemento ulteriore rispetto all'omesso versamento del dovuto in sé e per sé considerato. Se di integrazione si tratta, il mezzo per assicurarla sul piano applicativo è una sufficiente connessione tra i procedimenti penale ed amministrativo in modo da potersi dire che l'uno costituisca sviluppo e completamento dell'altro. La sufficiente connessione, proprio perché unisce i due procedimenti in uno sviluppo sostanzialmente unitario, esclude in radice la configurazione delle condizioni di alterità e sequenzialità idonei ad aprire questioni di bis in idem. Il predicato di sufficienza va commisurato ad entrambi i fattori sostanziale e processuale, dovendo in particolare aversi riguardo, quanto ad entrambi, all'accortezza per cui la sanzione irrogata nel procedimento concluso per primo sia tenuta in considerazione, nel contesto di un giudizio complessivo di proporzionalità, nel procedimento concluso per secondo. Si potrebbe opinare che la sentenza A. e B. tolga le castagne dal fuoco perché, scardinando Grande Stevens, fa venir meno la contrarietà in sé del doppio binario sanzionatorio con l'art. 4 prot. VII CEDU.
Limitando l'analisi ad impressioni a prima lettura, può cominciare col dirsi che ciò è vero fintanto che, però, siano rispettate le condizioni che secondo la Corte EDU consentono di reputare sufficiente la connessione tra procedimenti: talché, se dette condizioni non sono integrate, si ricade in Grande Stevens, con a cascata le connesse conseguenze problematiche. Pare appena il caso di evidenziare l'ovvio, ossia che, nella realtà italiana, è assai arduo ravvisare alcuna connessione, viepiù sufficiente nei termini paventati dalla Corte EDU in A. e B., giacché i procedimenti penale ed amministrativo, eccezion fatta per la fase pre-processuale della verifica lato sensu intesa, specialmente nella fase giudiziale, sono del tutto scollegati tra loro sia nel momento iniziale di acquisizione e valutazione delle consistenze probatorie sia e soprattutto nel momento conclusivo di irrogazione delle sanzioni, che giammai tiene conto di quella, penale o amministrativa, precedentemente irrogata. Fatta tale considerazione sul piano eminentemente pratico, anche su quello teorico, differentemente da quel che una lettura veloce della sentenza A. e B. potrebbe portare a pensare, qualche nodo irrisolto rimane. Se, infatti, nelle materie di competenza unionale, e, sottolineasi, in esse soltanto, convergendo una sanzione penale ed una amministrativa, la Direttiva 2014/57/UE potrebbe essere ritenuta idonea ad accreditare la tesi sistematicamente orientata della prevalenza della sanzione penale, perché astrattamente, e dunque formalmente, riguardata come più grave di qulla amministrativa, nondimeno la sentenza A. e B. ammette sì la contemporanea – recte, coordinata – applicabilità di entrambe, tuttavia sul presupposto della loro qualifica sostanziale, e non formale, di sanzioni egualmente penali agli effetti convenzionali. Ne discende l'interrogativo fondamentale, che esige ancora oggi risposta, concernente il criterio in forza del quale accordare preminenza alla sanzione formalmente e sostanzialmente penale o a quella formalmente amministrativa ma sostanzialmente penale, la quale però può presentare un grado di afflittività anche superiore alla prima, per quanto si sottragga allo stigma che le è proprio. Il parametro dell'afflittività – purché seguito in astratto – avrebbe il pregio di salvaguardare la prevedibilità della risposta sanzionatoria, annullando tuttavia con un tratto di penna l'ontologica differenza tra pena e sanzione amministrativa, tal per cui solo la prima, e non anche la seconda, incide o può incidere sulla libertà personale. Viceversa quello dell'anteriorità del procedimento, indifferentemente penale o amministrativo-penale, cui pare accedere la sentenza A. e B., introduce un inaccettabile fattore aleatorio, temperato, sì, ma solo parzialmente dall'accorgimento per cui la sanzione inflitta per seconda deve tenere conto di quella inflitta per prima, dal momento che il quantum di pena o di sanzione amministrativo-penale cambia a seconda che l'una o l'altra, per una mera casualità, sia inflitta per prima o per seconda. Ma tanto non basta: l'anteriorità in sé dell'un procedimento o dell'altro appare insoddisfacente ogniqualvolta quantomeno il primo (ma forse ancor più problematicamente il secondo) si conclude in concreto senza applicazione (o, peggio ancora, senza esecuzione) della sanzione, anzitutto per ragioni diverse dalla negazione della sussistenza del fatto o della sua commissione (tipicamente la prescrizione in sede penale ovvero il condono in sede tributaria), epperò anche per tali ragioni. Offre conferma della possibilità del secondo estremo dell'alternativa proprio Cass. civ., sez. II, n. 23232/2016, in commento, che, al pari di Cass. civ., sez. trib., n. 20675/2016, pure in commento, conclude bensì per la necessità del rinvio pregiudiziale alla Corte UE ex art. 267, paragrafo 3, TFUE, tuttavia in un caso in cui il soggetto amministrativamente sanzionato ex art. 187-bis TUF per abuso di informazioni privilegiate era stato assolto con sentenza passata in giudicato dal reato p. e p. dall'art. 184 TUF per insussistenza del fatto. La peculiarità del caso di cui si tratta sta in ciò che fa risaltare la purezza originaria del divieto di bis in idem, giacché, in una situazione come quella dedotta, esso rileva in una dimensione prettamente processuale, atta a stroncare in radice, assorbendola, ogni questione su possibili travasi tra sanzione irrogata per prima e sanzione irrogata per seconda nel gioco riequilibrante di un'adeguatezza-proporzionalità sanzionatoria complessiva propugnata dalla Corte UE in Fransson. Proceduralmente, infatti, il divieto di bis in idem impedisce l'instaurazione in sé di un secondo procedimento-giudizio a carico del medesimo soggetto per un unico fatto, a prescindere dall'esito di quello precedente.
Donde è bensì vero, come ricordato in apertura (§ 1), che Cass. civ., sez. II, n. 23232/2016, segue uno schema logico e formula alla Corte UE quesiti sostanzialmente sovrapponibili rispetto a quelli di Cass. civ., sez. trib., n. 20675/2016; tuttavia, in astratto, la prima, più che la seconda, si presta ad evolvere verso una soluzione potenzialmente persino indifferente al precipitato di A. e B., che muove dalla premessa di un duplice esito condannatorio. Conclusivamente, sembra che, ad ogni intervento giurisprudenziale, la situazione si complichi. Il punto fermo è che, agli occhi dei Giudici italiani, la Corte UE è ormai rimasta l'ultima istanza ad essere in grado di indicare una via d'uscita. Attendiamo gli sviluppi. |