Violazione del termine di permanenza dei verificatori: nessuna nullità dell'atto impositivo o delle prove raccolte

22 Marzo 2016

La violazione del termine di permanenza dei verificatori presso la sede del contribuente non comporta la nullità del successivo atto impositivo né l'inutilizzabilità delle prove raccolte. Appare, dunque, sproporzionata la sanzione del venir meno del potere accertativo fiscale a fronte del disagio arrecato al contribuente dalla più lunga permanenza degli agenti dell'Amministrazione.
Massima

Il temine previsto dall'art. 12, comma 5, della legge n. 212 del 2000 in relazione alla durata massima delle verifiche fiscale, ha natura ordinatoria e giammai perentoria. Di conseguenza la relativa violazione non determina la nullità del provvedimento di accertamento che dalla verifica dipende, apparendo sproporzionata la sanzione del venir meno del potere accertativo fiscale a fronte del disagio arrecato al contribuente dalla più lunga permanenza degli agenti dell'Amministrazione.

Il caso

La CTR della Campania, in accoglimento dell'appello incidentale proposto da una società, annullava l'impugnato avviso di accertamento in virtù della violazione dell'art. 12, comma 5 della Legge n. 212/2000 (Statuto del contribuente): infatti, secondo i giudici di appello, la protrazione della verifica presso la sede del contribuente per un tempo superiore ai trenta giorni previsto dalla citata disposizione (dato risultato pacifico dagli atti di causa), comportava l'inutilizzabilità del materiale reperito e la conseguente nullità dell'avviso di accertamento.

Col successivo ricorso per Cassazione l'Agenzia delle Entrate denunciava la violazione e la falsa applicazione dell'articolo 12, comma 5 della L. n. 212/2000, per avere la CTR ritenuto perentorio il termine da esso stabilito per la durata massima delle verifiche fiscali, nonostante l'assenza di alcuna previsione o sanzione al riguardo.

Con l'ordinanza n. 1334 del 26 gennaio 2016 la Cassazione ha accolto il ricorso dell'Agenzia, dando continuità al seguente principio di diritto: “In tema di verifiche tributarie, il termine di permanenza degli operatori civili o militari dell'Amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente è meramente ordinatorio, in quanto nessuna disposizione lo dichiara perentorio, o stabilisce la nullità degli atti compiuti dopo il suo decorso, nè la nullità di tali atti può ricavarsi dalla "ratio" delle disposizioni in materia, apparendo sproporzionata la sanzione del venir meno del potere accertativo fiscale a fronte del disagio arrecato al contribuente dalla più lunga permanenza degli agenti dell'Amministrazione” (cfr. Cass. civ. n. 17002/2012, n. 14020/2011, n. 19338/2011 ecc.).

Le questioni

La questione controversa riguarda la natura (ordinatoria o perentoria) del termine fissato per le verifiche fiscali dall'art. 12, comma 5 dello Statuto del contribuente e le conseguenze derivanti dalla sua violazione.

Non da poco conto sono gli effetti che derivano dall'adesione all'una o all'altra teoria: a voler considerare tale termine come perentorio, ne discende che la sua violazione determina la nullità dell'atto impositivo consequenziale; volendolo considerare meramente ordinatorio (secondo un orientamento che ormai sembra essersi affermato a livello di giurisprudenza di legittimità), ne deriva che la sua violazione rileva sul piano della mera irregolarità non riverberando alcun effetto sull'atto successivo.

Le soluzioni giuridiche

L'art. 12, co. 5, della Legge n. 212/2000, nella sua originaria formulazione, stabiliva ai periodi primo e secondo che “La permanenza degli operatori civili o militari dell'amministrazione finanziaria, dovuta a verifiche presso la sede del contribuente, non può superare i trenta giorni lavorativi, prorogabili per ulteriori trenta giorni nei casi di particolare complessità dell'indagine individuati e motivati dal dirigente dell'ufficio. Gli operatori possono ritornare nella sede del contribuente, decorso tale periodo, per esaminare le osservazioni e le richieste eventualmente presentate dal contribuente dopo la conclusione delle operazioni di verifica ovvero, previo assenso motivato del dirigente dell'ufficio, per specifiche ragioni”.

Nelle controversie in cui si discute della violazione di tale disposizione vengono in rilievo essenzialmente due questioni sollevate dai contribuenti:

  1. una relativa al calcolo del termine di permanenza dei verificatori che i contribuenti ritengono vada effettuato sulla base dei giorni complessivamente trascorsi tra l'inizio e la fine delle operazioni di verifica;
  2. l'altra relativa all'inutilizzabilità dei dati e delle prove raccolte in conseguenza del mancato rispetto del suddetto termine.

In merito alla prima questione l'Amministrazione finanziaria, con Circolare n. 64/E del 27 giugno 2001, ha chiarito che “ai fini del computo dei giorni di permanenza di cui al comma 5 del citato art. 12, vanno considerati i giorni di effettiva presenza presso il contribuente a decorrere dalla data di accesso”. La tesi dei contribuenti è che ai fini del computo vadano considerato tutti i giorni trascorsi dall'inizio alla fine della verifica, indipendentemente da come e dove la stessa sia stata condotta.

La Cassazione ha optato sostanzialmente per la prima tesi: con la sentenza n. 23595 del 2011 ha infatti precisato che “la L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 5 […], nel fissare agli 'operatori civili o militari dell'amministrazione finanziaria' il termine ("prorogabile per ulteriori trenta giorni nei casi di particolare complessità dell'indagine individuati e motivati dal dirigente dell'ufficio") di 'trenta giorni lavorativi', regola unicamente la 'permanenza' degli stessi 'presso la sede del contribuente' quando 'dovuta a verifiche': il termine in questione, quindi, assume rilevanza sol a seguito della somma dei 'giorni lavorativi' di effettiva 'permanenza ... presso la sede del contribuente'; il computo dello stesso, pertanto, diversamente da quanto ritenuto dai contribuenti (che si sono limitati a indicare la prima e l'ultima data del PVC), non può essere compiuto soltanto sulla base dei giorni trascorsi tra l'inizio e la fine delle operazioni di verifica, computando quindi anche quelli impiegati per verifiche eseguite al di fuori della “sede del contribuente”. In altri termini rilevano solamente i giorni di effettiva permanenza dei verificatori presso la sede del contribuente in virtù del disagio arrecato all'ordinaria attività dello stesso.

La disposizione in esame è stata oggetto di recente modifica ad opera dell'art. 7, comma 2, lett. c) del D.L. 13 maggio 2011, n. 70 (noto come Decreto Sviluppo), convertito con modifiche dalla Legge 12 luglio 2011, n. 106. La norma di modifica, nel confermare l'orientamento della prassi e della giurisprudenza, ha aggiunto i due seguenti periodi al citato art. 12, comma 5: “Il periodo di permanenza presso la sede del contribuente di cui al primo periodo, così come l'eventuale proroga ivi prevista, non può essere superiore a quindici giorni lavorativi contenuti nell'arco di non più di un trimestre, in tutti i casi in cui la verifica sia svolta presso la sede di imprese in contabilità semplificata e lavoratori autonomi. In entrambi i casi, ai fini del computo dei giorni lavorativi, devono essere considerati i giorni di effettiva presenza degli operatori civili o militari dell'Amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente”. A parere dei contribuenti la nozione di “giorni effettiva presenza” valida per il computo dei giorni di permanenza dei verificatori presso la sede del contribuente, troverebbe applicazione soltanto con riferimento alle verifiche effettuate nei confronti delle imprese minori e dei lavoratori autonomi (per i quali è previsto il limite di 15 giorni nell'arco di tre mesi). Secondo questa tesi, la locuzione “in entrambi i casi” farebbe riferimento esclusivamente alle imprese “minori” e ai lavoratori autonomi per cui solo per tali categorie di contribuenti rileverebbero i giorni di effettiva presenza. Di contro, per le società in contabilità ordinaria, il limite di permanenza di trenta giorni deve essere inteso come riferito a giorni lavorativi consecutivi a decorrere da quello di accesso, prescindendo dai giorni di presenza effettiva dei verificatori presso la sede del contribuente.

In realtà l'accoglimento di tale impostazione mal si concilierebbe con i principi di buon andamento ed efficacia dell'azione amministrativa, ex art. 97 della Costituzione, posto che il Legislatore ha previsto termini diversi evidentemente in funzione della presumibile maggiore complessità delle operazioni di controllo nei confronti dei contribuenti di maggiori dimensioni. Infatti da tale interpretazione deriverebbe che la permanenza dei verificatori presso i contribuenti “minori”, per i quali si introduce un termine dimezzato (da 30 a 15 gg), può protrarsi fino ad un trimestre; diversamente nel caso dei soggetti di maggiori dimensioni – per i quali rileverebbero i giorni di durata complessiva delle operazioni di verifica – anche in caso di proroga, la permanenza dei verificatori non potrebbe protrarsi oltre un periodo massimo di sessanta giorni; il tutto con effetti irragionevoli e contrari alla ratio della disposizione.

In ogni caso quello del termine di permanenza rischia di diventare un falso problema visto il recente orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui il tempo massimo previsto per la durata delle verifiche fiscali ha natura meramente ordinatoria, in quanto nessuna norma lo dichiara espressamente perentorio. Pertanto, gli atti compiuti dopo il decorso di tale termine sono pienamente legittimi.

A giudizio della suprema Corte, il termine di permanenza presso la sede del contribuente ha natura meramente ordinatoria “in quanto nessuna disposizione lo dichiara perentorio, o stabilisce la nullità degli atti compiuti dopo il suo decorso, né la nullità di tali atti può ricavarsi dalla “ratio” delle disposizioni in materia potere accertativo fiscale a fronte del disagio arrecato al contribuente dalla più lunga permanenza degli agenti dell'Amministrazione” (cfr. Cass. civ., n. 26732/2013 e in senso conforme Cass. civ., n. 17002/2012 e n. 14020/2011).

Ne deriva, pertanto, che il mancato rispetto dei termini previsti dall'articolo 12 dello Statuto del contribuente non può determinare la nullità degli atti successivi, quali l'avviso di accertamento o il prodromico processo verbale di constatazione. Del resto tale conclusione appare legittimata anche dal bilanciamento dei contrapposti interessi: se così non fosse, si legittimerebbe il venir meno del potere accertativo fiscale a fronte del semplice disagio arrecato al contribuente dalla più lunga (cfr. sul punto, Cass. civ., n. 17010/2013).

Alcune commissioni di merito hanno ritenuto di far discendere dal superamento del termine di permanenza (qualunque esso sia) l'inutilizzabilità del materiale probatorio raccolto “fuori tempo massimo”.

Ad esempio nella sentenza del 4 maggio 2004, n. 238, la CTP di Catania ha evidenziato che “ogni elemento raccolto, dagli operatori della Guardia di finanza o degli uffici impositori, oltre il limite temporale di giorni trenta prorogabili di altri trenta giorni con provvedimento motivato, è frutto di attività posta in essere in violazione della norma espressa. La conseguenza di questa violazione, anche se non comminata espressamente, è l'inutilizzabilità degli elementi di prova raccolti oltre il limite fissato dall'art. 12, comma 5”. Nello stesso senso, di recente la CTP di Bari del 2 novembre 2011, n. 148 ha affermato che «gli elementi raccolti dagli operatori oltre tale limite sono frutto di attività posta in essere in violazione di legge».

I documenti provenienti da attività illegittime quindi sarebbero inutilizzabili e tale inutilizzabilità non necessità di una espressa disposizione sanzionatoria, derivando dalla regola generale, secondo cui l'assenza del presupposto di un procedimento amministrativo, infirma tutti gli attinei quali si articola. In senso contrario, la CTR di Roma, con sentenza n. 122 del 15 luglio 2009, haaffermato che il mancato rispetto del termine di cui all'art. 12 della legge n. 212/2000 non può inficiare un atto di accertamento, salvo che non sia venuta a mancare, in modo irrimediabile, una garanzia posta dalla legge a difesa dei contribuenti.

La giurisprudenza di legittimità si è invece attestata sulla posizione opposte: a partire dalla sentenza n. 8344 del 2001 la Cassazione ha ribadito che “Gli organi di controllo possono utilizzare tutti i documenti dei quali siano venuti in possesso, salvo la verifica della attendibilità, in considerazione dalla natura e del contenuto dei documenti stessi, e dei limiti di utilizzabilità derivanti da eventuali preclusioni di carattere specifico. La violazione delle regole dell'accertamento tributario non comporta come conseguenza necessaria la inutilizzabilità degli elementi acquisiti. Si pensi al caso in cui, nel corso di una verifica fiscale, vengano acquisiti elementi determinanti ai fini dell'accertamento, soltanto il trentunesimo (o sessantunesimo) giorno lavorativo dall'inizio della verifica stessa, in violazione del precetto di cui all'art. 12, comma 5, della L. 27 luglio 2000, n. 212. Non esiste, cioè, nell'ordinamento tributario un principio generale di inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite. Tale principio è stato introdotto nel "nuovo" codice di procedura penale, e vale, ovviamente, soltanto all'interno di tale specifico sistema procedurale (vd. art. 191 del codice di procedura penale). L'acquisizione irrituale di elementi rilevanti ai fini dell'accertamento fiscale non comporta la inutilizzabilità degli stessi in mancanza di una specifica previsione in tal senso” (in senso conforme si vedano Cass. n. 1383/2002, n. 1543/2003, 4987/2003 e 8273/2003 e più recentemente n. 19338/2011).

In ordine a questo aspetto, va precisato che in ambito tributario non vige alcuna previsione generale di inutilizzabilità della documentazione irritualmente acquisita, come accade invece in ambito penale con la previsione di cui all'art. 191 c.p.p.

Tale posizione è avallata dalla Corte di Cassazione, la quale, già con sentenza 19 giugno 2001, n. 8344, aveva chiarito che “Non esiste … nell'ordinamento tributario un principio generale di inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite”. Dunque, il principio sancito dall'art. 191 c.p.p.vale, ovviamente, soltanto all'interno di tale specifico sistema procedurale”, vale adire in ambito penale.

Più in particolare, con tale pronuncia, la Cassazione ha precisato che, se nell'ambito di un procedimento penale viene rinvenuta della documentazione utilizzabile nel procedimento tributario, “la validità della acquisizione di tale documentazione, in quanto utilizzata nell'accertamento tributario, va giudicata sulla base della norme disciplinanti i modi di tale accertamento e non di quelle che disciplinano il procedimento penale”. Ciò in quanto “l'autonomia dei due procedimenti consente l'esistenza di una situazione per cui una nullità afferente un atto del procedimento penale non ha rilievo nel procedimento tributario”.

Il medesimo orientamento è stato successivamente confermato dalla sentenza 25 novembre 2011, n. 24923, con la quale la Suprema Corte ha precisato che “non qualsiasi irritualità nell'acquisizione di elementi rilevanti ai fini dell'accertamento fiscale comporta, di per sé, la inutilizzabilità degli stessi, in mancanza di una specifica previsione in tal senso, ed esclusi, ovviamente, i casi in cui viene in discussione la tutela di diritti fondamentali di rango costituzionale” (cfr. Cass. 26 maggio 2003, n. 8273; Cass. 1° ottobre 2004, n. 19689; Cass. civ., 16 giugno 2006, n. 14058; Cass. civ., 16 aprile 2007, n. 8990). In altri termini, in base al consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità, in assenza di una norma generale sull'inutilizzabilità in ambito tributario, eventuali illegittimità nelle procedure di acquisizione della documentazione non si riverberano sulla legittimità dell'atto tributario, salvo che:

- l'acquisizione non sia avvenuta in violazione di una norma tributaria, che sanziona la propria violazione con l'inutilizzabilità della documentazione medesima;

- l'acquisizione non sia avvenuta in violazione di un diritto fondamentale di rango costituzionale.

Sul punto sono interessanti anche le conclusioni fornite dalla giurisprudenza di legittimità in merito all'utilizzabilità, da parte dell'Amministrazione finanziaria, dei dati contenuti nella cd. “lista Falciani”, che erano stati illecitamente sottratti ad una banca svizzera ad opera di un suo dipendente.

Osservazioni

La pronuncia in commento sembra confermare definitivamente l'orientamento favorevole all'Amministrazione Finanziaria. L'unico rimedio esperibile in tali casi dal contribuente è quello di rivolgersi al Garante (art. 12, comma 6) che, nei casi più gravi, può stimolare i dirigenti degli Uffici all'esercizio dell'azione disciplinare.

Sembra un pò poco, soprattutto ove si consideri il pericolo di una verifica che rischia di protrarsi a tempo indefinito (in particolare ove si accolga la teoria che, ai fini del suddetto termine, ritiene di computare solamente i giorni di effettiva presenza degli operatori dell'Amministrazione finanziaria presso la sede del soggetto controllato, senza contare i giorni di sospensione, ovvero quelli trascorsi in ufficio ad esaminare la documentazione reperita).

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