Attività "istituzionali" e "commerciali" degli enti no profit

16 Febbraio 2017

La Cassazione Civile, Sezione Tributaria, ha più volte enunciato il principio in base al quale gli enti non commerciali di tipo associativo possono godere delle agevolazioni fiscali previste dalle norme vigenti in materia IVA e di imposte sul reddito se, oltre a rispettare i requisiti formali prescritti dalla legge, si impegnano a svolgere concretamente le attività istituzionali previste dalle clausole statutarie adottate e a fornirne sufficiente dimostrazione.
Massima

Un ente non commerciale di tipo associativo, (i) che non ha redatto il proprio atto costitutivo/statuto nella forma "ad probationem" della scrittura privata autenticata o registrata o dell'atto pubblico, (ii) che non ha tenuto correttamente i libri sociali e contabili, (iii) che non ha elaborato i documenti di rendicontazione periodica, non è in grado di dimostrare l'effettivo esercizio di attività "istituzionali", meritevoli di un trattamento tributario di favore, non essendo sufficiente, a tal fine, la sola costituzione di fatto del modello associativo.

Qualora poi tale soggetto svolgesse anche attività, per loro intrinseca natura "commerciali" (in senso fiscale), come la gestione di un bar all'interno della sede sociale, accessibile solo ai soci, non potrebbe considerare tali attività come "connesse" a quelle istituzionali e riservarle il medesimo regime fiscale agevolato.

Alla luce delle motivazioni di cui sopra, l'attività istituzionale sarebbe inesistente, perchè non dimostrabile, e quindi la gestione del bar sarebbe considerata l'unica attività effettivamente svolta e pertanto da assoggettare a ordinaria imposizione fiscale.

Il caso

Attraverso un avviso di accertamento ai fini IVA e imposte dirette, redatto sulla base di un p.v.c. della G. di F. di Larino (CB), l'Agenzia delle Entrate di Termoli (CB) contestava ad un circolo ricreativo di S. Croce di Magliano (CB) la natura di ente non commerciale di tipo associativo e le conseguenti agevolazioni fiscali godute e non spettanti.

Dalla verifica della G. di F. emergeva che il circolo:

  1. svolgeva attività di vendita al dettaglio di generi alimentari nei confronti dei presunti soci all'interno della sede sociale;
  2. era stato costituito mediante semplice scrittura privata;
  3. non era in possesso di libri contabili e sociali, rendicontazione e dichiarazioni fiscali.

Sulla base di ciò l'Ufficio qualificava il circolo come ente commerciale e ricostruiva gli imponibili, da assoggettare a IVA e imposte sul reddito, sulla base dei documenti di spesa rinvenuti durante l'accesso.

Avverso l'avviso di accertamento il circolo proponeva ricorso dinanzi alla CTP Campobasso opponendo, tra le altre, le seguenti eccezioni:

  1. il circolo, affiliato ad un Ente di Promozione Sportiva (E.P.S.) avente finalità riconosciute dal Ministero dell'Interno, svolgeva, di fatto, attitivà fedelmente rispettose delle missioni istituzionali di cui allo statuto sociale;
  2. i servizi del bar erano strettamente connessi al raggiungimento delle finalità statutarie.

Per tali motivi il ricorrente riteneva che entrambe le attività meritassero il trattamento fiscale di favore previsto dalle norme vigenti in materia.

La CTP Campobasso, sez. III, n. 152/03/2005, respingeva tali eccezioni e sosteneva che le contestazioni contenute nell'atto impugnato erano puntuali e adeguatamente motivate e quindi meritevoli di accoglimento.

Secondo i giudici non è condizione sufficiente che il circolo sia costituito in ente non commerciale di tipo associativo, affiliato a E.P.S., per poter godere di talune agevolazioni fiscali nei confronti delle attività svolte, istituzionali e connesse.

A tal fine è infatti necessario rispettare i requisiti formali e sostanziali espressamente previsti dal nostro ordinamento, della cui osservanza effettiva il ricorrente non forniva dimostrazione sufficiente, vigendo il principio dell'onere della prova a carico di chi invoca il godimento di un diritto particolare.

Ne consegue che la gestione del bar, in tale fattispecie specifica, viene considerata come unica attività effettivamente svolta, qualificata come attività commerciale "tout court" e i relativi corrispettivi presunti assoggettati a IVA e imposte sul reddito.

Il circolo appellava la sentenza dinanzi alla CTR Molise, chiedendone la riforma, con conseguente annullamento integrale dell'avviso di accertamento originariamente impugnato, in quanto ritenuto illegittimo e infondato.

La CTR Molise, sez. I, n. 12/01/2009, accoglieva le doglianze del circolo, in quanto considerava le attività dello stesso di natura culturale, ricreativa, sportiva e assistenziale, in virtù di affiliazione presso un E.P.S., e la gestione del bar come attività accessoria e connessa a quella istituzionale di cui sopra, "rappresentando un mezzo per consentire la migliore permanenza dei soci" e non essendo dimostrato che l'attività anzidetta fosse rivolta anche ad estranei.

Secondo la Commissione l'unico criterio discriminante adottato dal Legislatore per individuare la natura commerciale o meno delle attività svolte da un ente no profit è quello della conformità alle finalità istituzionali.

Infine l'Agenzia delle Entrate ricorreva per Cassazione alla sentenza della CTR Molise, con finale e definitivo accoglimento delle contestazioni avanzate dall'Amministrazione Finanziaria.

La Cass. civ., sez. trib., n. 22187 del 3 novembre 2016, accoglieva il ricorso e cassava la sentenza impugnata, rinviandola alla CTR Molise in diversa composizione.

La Cassazione riteneva fondato e legittimo l'avviso di accertamento, in quanto il circolo non aveva soddisfatto, sul piano probatorio, l'onere di dimostrare la sussitenza dei presupposti formali e sostanziali per giustificare il diritto a godere delle agevolazioni fiscali.

Il soggetto in questione non poteva provare la natura delle attività svolte, non avendo adottato l'atto costitutivo/statuto nella forma della scrittura privata autenticata o registrata o dell'atto pubblico e non avendo fornito i libri sociali e contabili e i documenti di rendicontazione periodica, a dimostrazione che le attività concretamente svolte rispettassero le prescrizioni di cui alle clausole statutarie.

Da ciò derivava l'inesistenza di attività istituzionale, per insufficienza di prove a favore, e quindi la presenza di un bar quale unica attività effettivamente svolta e di natura commerciale, in quanto non rientrante tra le finalità statutarie del circolo.

La questione

Al fine di perseguire i propri obiettivi un ente no profit pone in essere una serie di attività, in base agli indirizzi formulati dagli associati e coerentemente con gli scopi statutariamente previsti.

Tali attività si definiscono "istituzionali" in quanto sono direttamente connesse al raggiungimento delle finalità previste dallo statuto, quelle cioè poste a fondamento dell'ente stesso.

Lo statuto può prevedere ulteriori attività "connesse" a quelle istituzionali, ovvero a queste ultime strettamente correlate e funzionali e che ne consentono un migliore svolgimento.

Infine possono essere previste attività di natura "commerciale", estranee alle attività istituzionali e connesse.

Queste ultime vengono compiute sostanzialmente al fine di consentire l'entrata di risorse finanziarie ulteriori rispetto a quelle derivanti dalle quote, dai contributi, dalle erogazioni e simili versate dagli associati o da terzi.

Il "favor" che il Legislatore in materia fiscale ha inteso concedere al settore no profit consiste nella non imponibilità (ai fini IVA e delle imposte sul reddito) delle somme rinvenute a fronte di talune attività e nel rispetto di precise condizioni.

Il soggetto che intende accedere ai benefici fiscali deve infatti rispettare determinate formalità in fase di costituzione, adottando le forme prescritte e inserendo nel proprio statuto particolari clausole, finalizzate a garantire il corretto utilizzo dello schema associativo e non lucrativo.

In aggiunta a ciò occorre in concreto, nella pratica, dimostrare di svolgere effettivamente le attività statutarie e quindi escludere ogni eventuale presunzione di esercizio di attività di impresa lucrativa dietro le sembianze dell'ente non commerciale.

La "ratio" delle regole descritte consiste innanzitutto nel premiare e incentivare chi opera in ambito culturale, ricreativo, sociale, sportivo e assistenziale e contestualmente contrastare fenomeni elusivi e di distorsione della libera concorrenza nel mercato.

Le norme vigenti, la prassi e la giurisprudenza consolidata consentono di individuare con sufficiente chiarezza quando si è in presenza di un soggetto no profit, al di là delle apparenze formali, e di delimitare i confini entro cui l'ente non commerciale può operare godendo di benefici fiscali.

Le numerose e recenti pronuce giurisprudenziali, in particolare, hanno ripetutamente accolto il principio della prevalenza della sostanza sulla forma, sia quando l'ente non commerciale ha manifestato nei fatti di meritare i benefici, pur non avendo pedissequamente rispettato taluni requisiti formali, sia quando l'ente nella realtà operativa ha palesemente agito in contrasto con il modello giuridico formale adottato oppure, come nel caso di specie in commento, quando non è stato in grado di provare di aver agito coerentemente con il modello non lucrativo.

Le soluzioni giuridiche

L'art. 148, d.P.R. n. 917/1986 (TUIR) in materia di imposte sul reddito e, analogamente ai fini IVA, l'art. 4, d.P.R. n. 633/1972, distinguono l'attività esercitata dagli enti non commerciali di tipo associativo in:

  1. "istituzionali";
  2. "connesse" a quelle istituzionali;
  3. "commerciali";
  4. commerciali "marginali";
  5. commerciali svolte da "associazioni di promozione sociale";
  6. commerciali ma "non imponibili".

Il co. 1 dell'art. 148, d.P.R. n. 917/1986 (TUIR) definisce il concetto di attività "istituzionale" e stabilisce che:

  1. non è considerata commerciale l'attività svolta nei confronti degli associati o partecipanti, in conformità alle finalità istituzionali, dagli enti non commerciali di tipo associativo ("decommercializzazione generale");
  2. le somme versate dagli associati a titolo di quote o contributi associativi non concorrono a formare il reddito imponibile.

Tale disposizione si applica quindi a condizione che:

  1. l'attività effettivamente svolta dall'associazione sia coerente con quanto previsto dallo statuto adottato;
  2. le somme corrisposte dagli associati siano finalizzate alla copertura delle spese generali e non siano invece qualificabili come corrispettivo a fronte di un servizio specifico e individuale ("sinallagma");
  3. il soggetto che corrisponde la quota possa essere correttamente qualificato quale socio o associato, dimostrando l'effettività del rapporto associativo.

Analogo trattamento viene riservato alle attività "connesse" a quelle istituzionali, come già descritte nel paragrafo 3. La questione.

I commi 2, 3 e 4 dell'art. 148, d.P.R. n. 917/1986 (TUIR) individuano le attività che hanno carattere commerciale per presunzione assoluta, e le attività che, quantunque commerciali, possono godere di non imponibilità, nel rispetto di determinate condizioni.

È considerata attività commerciale "tout court", tra le altre, la somministrazione di alimenti e bevande, di pasti, gestione di mense e di spacci aziendali.

Fanno eccezione a tale regola le attività svolte in maniera "marginale" (senza specifica organizzazione e in assenza di ricarico) o in concomitanza di raccolte pubbliche di fondi organizzate occasionalmente.

Ulteriore eccezione è quella prevista dal co. 5 dell'art. 148, d.P.R. n. 917/1986 (TUIR), ovvero per le associazioni di promozione sociale – a.p.s. (e relativi affiliati) le cui finalità assistenziali siano riconosciute dal Ministero dell'Interno (come l'ente di promozione sportiva del caso esaminato), non si considerano commerciali, anche se effettuate verso pagamento di corrispettivi specifici, la somministrazione di alimenti e bevande (oltre che l'organizzazione di gite e viaggi ma solo ai fini delle imposte dirette e non anche ai fini IVA) effettuata presso le sedi in cui viene svolta l'attività istituzionale, da bar ed esercizi similari, semprechè le predette attività siano strettamente complementari a quelle svolte in diretta attuazione degli scopi istituzionali, siano effettuate nei confronti di soci e familiari conviventi degli stessi, l'associazione sia conforme alle clausole di cui al co. 8, dell'art. 148, d.P.R. n. 917/1986 (TUIR).

Infine, le attività svolte in diretta attuazione degli scopi societari non si considerano di natura commerciale ("decommercializzazione speciale") se svolte, a certe condizioni, da associazioni politiche, sindacali e di categoria, religiose, assistenziali, culturali, sportive dilettantistiche, di promozione sociale e di formazione extra-scolastica della persona, nei confronti dei propri soci, associati, partecipanti o tesserati, anche dietro versamento di corrispettivi specifici.

Le condizioni consistono nel rispetto di determinati requisiti di carattere soggettivo ed oggettivo, ovvero relativi alla natura del soggetto e dell'attività svolta, quali:

  1. natura associativa;
  2. assenza di svolgimento esclusivo o principale di attività commerciali;
  3. statuto conforme al disposto dell'art. 148, co. 8, d.P.R. n. 917/1986 (TUIR) e redatto nella forma dell'atto pubblico o della scrittura privata autenticata o registrata;
  4. rispetto delle clausole statutarie adottate;
  5. conformità dell'attività effettivamente svolta alle finalità istituzionali;
  6. corrispettivi specifici versati da soggetti qualificati e non da terzi.

È importante in conclusione citare il disposto dell'art. 149, d.P.R. n. 917/1986 (TUIR) che prevede la perdita della qualifica di ente non commerciale (con specifiche eccezioni) per aver svolto prevalentemente attività commerciali, come sopra descritte, per un intero periodo di imposta e indipendentemente dalle previsioni statutarie.

Si ritiene allora che la sentenza della Cassazione abbia giustamente definito la controversia, applicando in modo preciso e chiaro il combinato disposto degli artt. 148 TUIR e art. 4 d.P.R. IVA, in continuità con altre sentenze quali Cass. civ., n. 4872/2015, Cass. civ., n. 8623/2012 e Cass. civ., n. 11456/2010.

La Suprema Corte ha infatti stabilito che il ricorrente, nonostante fosse di fatto costituito nella forma di ente non commerciale di tipo associativo e affiliato ad un E.P.S., non poteva godere della decommercializzazione (generale e speciale) delle attività svolte.

Ciò perchè, a monte, non è stata superata la prova, a carico dell'istante, del rispetto dei requisiti formali e sostanziali sopra analizzati.

La mancanza di un atto costitutivo/statuto nella forma prevista, di libri sociali e contabili e di rendicontazione, impedisce di verificare:

  1. la reale natura associativa;
  2. l'assenza di oggetto principale o esclusivo di natura commerciale;
  3. la presenza delle clausole prescritte e il relativo concreto rispetto;
  4. la natura delle attività istituzionalmente previste e la conformità a queste delle attività effettivamente svolte;
  5. la natura dei soggetti cui le attività sono rivolte.

Si rileva quindi, per insufficienza di elementi probatori, l'inesistenza di attività istituzionali svolte nei confronti di soggetti qualificati e, per diretta conseguenza logica, di attività ad esse correlate e pertanto di attività che possono godere di decommercializzazione generale e speciale.

Si rileva altresì l'inapplicabilità delle eccezioni disposte a favore delle a.p.s. e della fattispecie di esercizio marginale di attività commerciali.

Per tali motivi, rimane di fatto in piedi esclusivamente la gestione del bar che non può altro che essere qualificata come commerciale in senso assoluto, senza esimenti e benefici.

Osservazioni

Lo schermo elusivo del "non profit" è attualmente molto fragile e scarsamente difendibile in sede contenziosa per chi abbia svolto consapevolmente attività oggettivamente commerciali godendo di agevolazioni non spettanti.

Pertanto è assolutamente raccomandabile ai soggetti in buona fede, come sicuramente il circolo ricreativo qui in commento, di prestare la massima cautela nell'osservare le indicazioni fornite, sopratutto qualora il perseguimento delle finalità istituzionali imponesse la raccolta di fondi ulteriori rispetto a quelli rinvenibili dagli associati.

Come altrove già affermato dallo scrivente (Enti non commerciali nel mirino del Fisco, di Maurizio Mottola (Fiscopiù, Guide agli adempimenti del 20 giugno 2016), sulla base per esempio di quanto deciso dalla Cass. civ., sez. trib., n. 5154 del 16 marzo 2016, l'obiettivo dell'ente no profit deve essere sempre e comunque quello della promozione sociale, culturale o sportiva, innanzitutto attraverso i fondi raccolti da chi aderisce alla missione statutaria, secondo le regole interne adottate.

Le regole non devono rimanere solo "sulla carta"ma devono essere rispettate nella pratica quotidiana, mediante un sistema di amministrazione interno in grado di ottemperare a pochi e semplici adempimenti, che però rappresentano un importantissimo strumento di prova della effettiva democraticità della struttura.

Qualora tali fondi non siano sufficienti, si potrebbe ricorrere a talune tipologie di attività commerciali che però, in linea generale, non dovrebbero presentare i caratteri tipici dell'attività di impresa, ovvero attività organizzate con impiego di mezzi e persone, offerte al pubblico in locali "fronte strada", non connesse o estranee alle attività istituzionali e addirittura prevalenti rispetto a queste.

Sarebbe sufficiente effettuare un confronto con analoghe attività esercitate nel locale commerciale più prossimo e chiedersi il motivo per cui si dovrebbe condurre la medesima attività del proprio vicino senza assumere lo stesso rischio di impresa e senza contribuire con lo stesso prelievo erariale.

Una tale disparità non sarebbe giustificabile in quanto non può esistere nel nostro ordinamento una normativa che consenta tali irragionevoli benefici.

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