Concorso di violazioni e continuazione: il Giudice può applicare una sola sanzione per tutte le annualità

Ignazio Gennaro
19 Giugno 2017

Nell'ipotesi di più cartelle scaturenti da molteplici e continuate violazioni della stessa indole commesse in più anni d'imposta e riguardanti più tributi, trovano applicazione gli istituti del “concorso” e della “continuazione” contemplati dall'art. 12, D.Lgs. n. 472/1997. In tale fattispecie il Giudice Tributario secondo quanto disposto dal D.Lgs. n. 158/2015 può applicare un'unica sanzione.
Massima

Nell'ipotesi di più cartelle scaturenti da molteplici e continuate violazioni della stessa indole commesse in più anni d'imposta e riguardanti più tributi, trovano applicazione gli istituti del “concorso” e della “continuazione” contemplati dall'art. 12, D.Lgs. n. 472/1997.

In tale fattispecie il Giudice Tributario secondo quanto disposto dal D.Lgs. n. 158/2015 può applicare un'unica sanzione.

La sanzione base va individuata in quella prevista per la violazione più grave, nella misura minima del 90 per cento in applicazione del “principio di legalità” (favor libertatis) stabilito dall'art. 3 c. 3 del D.Lgs. n. 472/1997, maggiorata del 20% se le violazioni rilevano ai fini di più tributi (ex art. 12, c. 3 D.Lgs. n. 472/1997) il tutto maggiorato del 25 percento (ex art. 12 c. 1 dello stesso D.Lgs. per il “concorso” avendo violato diverse disposizioni di legge) e successivamente aumentato del 50% sul totale ex art. 12 c. 5 in quanto trattasi di violazioni della stessa indole commesse in diversi anni di imposta.

Il caso

Una Contribuente veniva raggiunta dalle notifiche di dodici avvisi di accertamento emessi dall'Agenzia delle Entrate a fronte di pretesa IVA, ILOR, IRAP ed IRPEF riguardanti diversi anni di imposta dal 1995 sino al 2000 a titolo di ritenuti redditi di impresa che venivano impugnati.

All'esito di tali giudizi facevano seguito le relative cartelle che venivano anch'esse tempestivamente impugnate dalla ricorrente dinnanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Milano limitatamente alla misura delle sanzioni.

La Contribuente nel proprio ricorso rilevava di avere già corrisposto le sanzioni nell'importo richiesto dall'Ufficio.

Tale quantificazione però veniva ritenuta eccessiva ed illegittima e ne veniva invocata la rideterminazione in applicazione del favor rei e delle “novità” introdotte dal D.Lgs. n. 158/2015.

A parere della Contribuente, infatti, le diverse sanzioni riguardanti i singoli periodi di imposta andavano rideterminate in “un'unica sanzione” in base al nuovo sistema sanzionatorio introdotto dal D.Lgs. n. 158/2015, entrato in vigore l'1 gennaio 2016, assumendo quale “sanzione base” quella riferita alla dichiarazione infedele (più grave) ai fini IVA per l'anno 1995 ridotta al 90 percento, maggiorata in aumento del 20 percento (ex art. 12 c. 3 del D.Lgs. n. 472/1997) il tutto maggiorato del 25 percento (ex art. 12 c. 1 dello stesso decreto per il concorso di violazioni) e successivamente aumentato del 50 percento sul totale ex art. 12 c. 5 trattandosi di violazioni della stessa indole commesse in diversi ani di imposta e ritenendo inoltre applicabile la c.d. “continuazione” nella forma della progressione.

La Commissione Tributaria Provinciale di Milano, con la sentenza in commento, ha accolto le ragioni della Contribuente, ha rideterminato l'importo delle sanzioni (secondo il citato “procedimento” di calcolo) ed ha ordinato all'Amministrazione Finanziaria la restituzione alla Contribuente delle sanzioni dalla stessa pagate in eccesso.

La questione

La questione esaminata dalla Commissione territoriale riguarda la corretta determinazione dell'importo delle sanzioni per violazioni della stessa indole commesse in più anni di imposta alle luce delle disposizioni introdotte dal D.Lgs. n. 158/2015.

I Giudici tributari meneghini hanno preliminarmente osservato che il sistema sanzionatorio c.d. amministrativo “in realtà poco o nulla si differenzia da quello dichiaratamente penale”.

A tale riguardo, richiamando i criteri della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (CEDU) e la relativa giurisprudenza (Corte CEDU sez. IV 20 maggio 2014; 10 febbraio 2015) hanno rilevato che già “una sanzione pecuniaria di euro 1.700,00 ha natura di sanzione penale”.

Pertanto “ritenuta la sostanziale natura penale di ogni sanzione pecuniaria eccedente l'importo di euro 1.700,00” hanno argomentato che “a mente dell'art. 4 della CEDU (Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea) del 7 dicembre 2000, alla quale è riconosciuta pari dignità dei trattati europei, nessuno può essere sottoposto a pene o trattamenti inumanti o degradanti”.

Secondo i Giudici Tributari ambrosiani infatti non rileva necessariamente la qualità detentiva della pena “ben potendo anche una pena pecuniaria degradare e affliggere moralmente, psicologicamente ed economicamente la persona umana laddove l'entità della sanzione pecuniaria sia idonea a privare il soggetto del sostentamento, della casa e delle risorse atta a soddisfare i più elementari bisogni della vita”.

A parere della Commissione territoriale, pertanto, allo scopo di adeguare il più possibile le attuali sanzioni a quelle conformi ai dettami della Carta di Nizzanon è possibile non affermare la insostenibilità, per tacer d'altro, dei massimi edittali stabiliti dal D.Lgs. n. 472/1997 anche dopo la riforma di cui al D.lgs. n. 158/2015 e non ritenere dunque applicabili le sanzioni minime ivi previste”.

Le soluzioni giuridiche

Nella fattispecie in commento i Giudici Tributari milanesi erano chiamati a pronunciarsi sulla corretta determinazione delle sanzioni alla luce delle nuove e più favorevoli (per il contribuente) disposizioni introdotte dal D.Lgs. n. 158/2015.

Nel caso in esame la Commissione territoriale ha individuato quale base per il calcolo della sanzione quella (più grave) prevista per la presentazione della dichiarazione infedele ai fini IVA per il 1995 (le violazioni, come detto, interessavano un arco temporale dal 1995 al 2000) nella misura minima del 90% in applicazione del principio di legalità (favor libertatis) stabilito dall'art. 3 c. 3 del D.Lgs. n. 472/1997, maggiorata di un aumento del 20 percento in quanto le violazioni rilevano ai fini di più tributi (ex art. 12 c. 3 D.Lgs. n. 472/1997) il tutto maggiorato del 25% ex art. 12 c. 1 dello stesso decreto, per il concorso, avendo violato diverse disposizioni di legge) successivamente aumentato del 50% sul totale ex art. 12 c. 5 poichè si trattava di violazioni della stessa indole commesse in diversi anni di imposta.

A parere dei Giudici Tributari di prime cure comunque “anche siffatto meccanismo legislativo di aumenti plurimi, ai limiti della vessazione allo stato puro, appare non scevro da criticità sotto il profilo della proporzionalità…considerato che, in un sistema incentrato su di un'unica base imponibile valida per più tributi, risulta praticamente impossibile, con una sola condotta violare un'unica norma”.

Osservazioni

I Giudici provinciali della capitale lombarda hanno esaminato anche l'applicabilità dell'istituto della “continuazione” (o “progressione” nel caso in cui siano riscontrabili plurime violazioni, omessa fatturazione, omessa registrazione, omessa liquidazione periodica, omessa dichiarazione etc. che pregiudichino la deteminazione dell'imponibile) in sede di quantificazione delle sanzioni.

Passando all'esame della fattispecie concreta sottoposta al loro vaglio hanno infatti rilevato che “si ravvisano violazioni ancorché distribuite in periodo d'imposta diversi, accomunate dalla medesima scaturigine economica costituita dall'omessa dichiarazione di redditi di impresa ravvisati dall'Agenzia delle Entrate, pertanto le condotte per cui si procede, del tutto affini tra loro, appaiono essere commesse in esecuzione di un medesimo disegno: evadere le imposte in più anni d'imposta”.

A loro parere in tema di “continuazione” sia il sistema tributario che quello penale presenterebbero delle “specularità” in quanto realizzerebbero la “medesima esigenza in campi giuridici differenti”.

Partendo da tale considerazione hanno infatti osservato che “l'istituto in oggetto è in gran parte speculare a quello contemplato dall'art. 671 c.p.p. in forza del quale "Nel caso di più sentenze o decreti penali irrevocabili pronunciati in procedimenti distinti contro la stessa persona, il condannato o il pubblico ministero possono chiedere al giudice dell'esecuzione l'applicazione della disciplina del concorso formale del reato continuato, sempre che la stessa non sia stata esclusa dal giudice della cognizione il giudice dell'esecuzione provvede determinando la pena in misura non superire alla somma di quelle inflitte con ciascuna sentenza o ciascun decreto”.

Pertanto, a loro avviso ben si comprenderebbe e giustificherebbe l'applicazione “anche” in ambito tributario della “continuazione”, in sede di esecuzione e per essa in sede di impugnazione delle cartelle che preludono all'esecuzione esattoriale, anche nella ipotesi in cui i provvedimenti di irrogazione e delle sanzioni non siano intervenuti contemporaneamente e dove sia mancata da parte del Giudice che abbia preso cognizione per ultimo del merito dei provvedimenti azionati impugnati la rideterminazione della sanzione complessiva come statuto dall'ultima alinea del c. 5 dell'art. 12 del D.Lgs. n. 472/1997.

Riferimenti bibliografici

Le cartelle e relative sanzioni oggetto di impugnazione come visto, interessavano i periodi di imposta dal 1995 al 2000.

La fattispecie affondata dai Giudici Tributari milanesi, riguardava la concreta applicazione delle novità introdotte dal D.Lgs. n. 158/2015 (entrato in vigore il 1° gennaio 2016) anche alle violazioni commesse in periodi precedenti.

La giurisprudenza di legittimità anteriore all'entrata in vigore al citato D.Lgs. si era pronunciata affermato il principio di diritto secondo il quale è sempre “la legge più favorevole al contribuente a dover essere applicata quando la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione e le leggi posteriori prevedano sanzioni di diversa entità”.

La Corte nomofilattica con sentenza n. 1656 del 24 gennaio 2013 (anteriore al citato D.Lgs. n. 158/2015) aveva statuito che “Va ribadita, nell'ambito di applicazione delle disposizioni sulle sanzioni tributarie, l'operatività del principio del favor rei ai sensi del quale, da una parte, non si può essere assoggettati a sanzioni per un fatto che secondo la legge posteriore non costituisce violazione punibile; dall'altra, è sempre la legge più favorevole al contribuente a dover essere applicata quando la legge in vigore al momento in cui è stata commessa la violazione e le leggi posteriori prevedano sanzioni di diversa entità. Detto principio è subentrato a seguito dell'abrogazione del criterio dell'ultrattività delle disposizioni sanzionatorie, e può essere applicato anche dal giudice, d'ufficio, e in ogni stato e grado del giudizio; ciò, a condizione che via sia un procedimento ancora in corso e che il provvedimento impugnato non sia definitivo”.

Di segno (sotto alcuni profili) difformi due recenti pronunce della V sezione della Suprema Corte secondo le quali il principio del “favor rei” non sarebbe di applicazione generalizzata.

Con la prima è stato affermato il principio secondo il qualeIn tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, le modifiche apportate dal D.Lgs. n. 158/2015 non operano in maniera generalizzata in “favor rei”, rendendo la sanzione irrogata illegale, sicchè deve escludersi che la mera deduzione, in sede di legittimità, di uno “ius superveniens” più favorevole, senza altra precisazione con riferimento al caso concreto, imponga la cassazione con rinvio della sentenza impugnata, non solo in ragione della necessaria specificità dei motivi di ricorso ma, soprattutto, per il principio costituzionale di ragionevole durata del processo. (Nella specie, la S.C. ha rigettato la richiesta di rideterminazione delle sanzioni in tema di "reverse charge", in assenza di specifica deduzione dell'applicabilità in concreto di una sanzione inferiore rispetto a quella irrogata, sia con riferimento ai margini edittali che alla valutazione della gravità della violazione, in assenza di circostanze tali da far ritenere manifesta la sproporzione tra entità del tributo e sanzione applicata).” (Cass. civ., sez. trib. sentenza n. 9505 del 12 aprile 2017).

Con la seconda (meno recente ma in molti tratti analoga alla precedente) i Giudici di legittimità hanno affermato il principio che grava sul Contribuente l'onere di provare l'esistenza dei presupposti per l'applicazione del “favor rei”: “In tema di sanzioni amministrative per violazione delle norme tributarie, le modifiche apportate dal D.Lgs. n. 158/2015, applicabili ai processi in corso in virtù degli artt. 3, comma 3, e 25, comma 2, del D.lgs. n. 472/1997, non operano in maniera generalizzata in "favor rei", rendendo la sanzione irrogata illegale, sicché deve escludersi che la mera deduzione, in sede di legittimità, dello "ius superveniens", senza altra precisazione con riferimento al caso concreto, imponga la cassazione con rinvio della sentenza impugnata, dovendo il contribuente allegare e, se necessario, provare la sussistenza dei fatti costitutivi e/o eventualmente modificativi, ovvero estintivi, necessari per la concreta applicazione di dette norme, atteso che il giudice non può introdurre nella controversia, di sua iniziativa, elementi di fatto diversi da quelli dedotti e dimostrati dalle parti” (Cass. civ., sez. trib., n. 20141 del 7 ottobre 2016).

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