Sul rapporto tra contratto di cointeressenza propria ed abuso del diritto

23 Maggio 2016

La ripresa a tassazione, da parte dell'Amministrazione Finanziaria, degli oneri da cointeressenza propria, è legittima, in quanto non costituisce argomento dirimente in senso contrario la necessità di condivisione del rischio, per il semplice motivo che le due compagini societarie, pur essendo due soggetti giuridici diversi, appartengono allo stesso soggetto economico. Ne deriva, quindi, che tramite la stipula di tale contratto si è concretizzata una forma di abuso del diritto finalizzata ad un indebito risparmio di imposta.
Massima

La ripresa a tassazione, da parte dell'Amministrazione Finanziaria, degli oneri da cointeressenza propria, è legittima, in quanto non costituisce argomento dirimente in senso contrario la necessità di condivisione del rischio, per il semplice motivo che le due compagini societarie, pur essendo due soggetti giuridici diversi, appartengono allo stesso soggetto economico. Ne deriva, quindi, che tramite la stipula di tale contratto si è concretizzata una forma di abuso del diritto finalizzata ad un indebito risparmio di imposta.

Il caso

L'Amministrazione Finanziaria notificava alla ricorrente società avviso di accertamento con il quale riprendeva a tassazione oneri derivanti dalla stipula del contratto di cointeressenza propria, asserendo trattarsi di una forma di abuso del diritto.

L'Ufficio nella parte motiva dell'avviso sosteneva, essenzialmente, che il contratto in questione fosse stato stipulato dalla società ricorrente con la controllata “al solo scopo di recuperare le perdite originate dalla controllata (….). È evidente che, tali perdite, proprio perché la controllata è cessata nell'anno 2007, non si sarebbero più potute recuperare, non avendo neanche le due società optato per il regime di tassazione del Consolidato fiscale”, non riconoscendo adeguate le motivazioni economiche sottese alla stipula del predetto contratto. Individuava l'Amministrazione ulteriori elementi che, a suo dire, avrebbe avvalorato l'interpretazione proposta: in particolare, riteneva che l'onere di cointeressenza non sarebbe stato sostenuto dalla ricorrente, in quanto compensato con crediti che la stessa vantava nei confronti della controllata; la società ricorrente (controllante) sarebbe stata perfettamente a conoscenza del fatto che la situazione reddituale della controllata sarebbe stata nel 2006 prevedibilmente negativa e che, quindi, avrebbe potuto servirsene mediante la stipula del contratto di cointeressenza.

La Commissione di prime cure rigettava il ricorso, affermando, dopo aver illustrato brevemente i principi sottesi alla tematica dell'abuso del diritto, che “per quanto attiene la sbandierata condivisione del rischio di impresa, la stessa, nel caso specifico, non sussiste, per il semplice motivo che le due compagini societarie, pur essendo due soggetti giuridici diversi, appartengono allo stesso soggetto economico, in quanto la ricorrente è proprietaria al 99,9% della controllata, senza considerare che quest'ultima, dopo qualche mese dalla stipula del contratto di cointeressenza, è stata posta in liquidazione, per cui non si vede dove sussiste la condivisione del rischio di impresa”.

Le questioni

Il rapporto tra abuso del diritto e contratto di cointeressenza è questione che, con sempre più maggior frequenza, sta occupando il diritto vivente.

Con pronuncia n. 17159 del 26 agosto 2015, la Cassazione, ha affermato che deve ritenersi integrato l'abuso di diritto quando l'effettiva funzione economica individuale di un contratto di cointeressenza, stipulato da una società con un'altra appartenente al medesimo gruppo, sia diversa da quella astrattamente collegabile al tipo contrattuale adottato, perché i negozi posti in essere hanno la diversa ed unica finalità di ottenere un indebito vantaggio fiscale.

La Commissione Tributaria Provinciale di Ancona ha dato seguito a tale indirizzo.

Diviene, pertanto, imprescindibile, ai fini di un corretto inquadramento della tematica in oggetto, procedere a delineare i caratteri essenziali del contratto di cointeressenza, per appurare se, tenendo conto anche dei dati fattuali sottesi alla fattispecie oggetto di decisione, possa o meno ritenersi integrata l'ipotesi di abuso del diritto.

Le soluzioni giuridiche e Osservazioni

Il contratto di cointeressenza, disciplinato dall'art. 2554 del c.c., è lo strumento giuridico attraverso il quale si realizza la partecipazione agli utili di una impresa senza partecipazione alle perdite o attraverso cui un contraente attribuisce la partecipazione agli utili ed alle perdite della sua impresa, senza il corrispettivo di un determinato apporto.

Sulla base di tale formulazione normativa la dottrina (I. Uberti Bona, voce Cointeressenza, in “Enc. Dir.”, Milano, 1960) e la giurisprudenza (Cass. Civ., sez. III, n. 4473 del 15 aprile 1993, n. 4473) hanno poi, declinato la categoria in due sottocategorie denominate “cointeressenza propria complessa” e “cointeressenza propria semplice”; alla stregua di tale ripartizione, la prima si caratterizzerebbe per la condivisione reciproca, tra due o più imprese, ovvero tra imprenditori, dei rispettivi risultati di esercizio (utili o perdite), mentre quella semplice consisterebbe nella promessa, da parte di un'impresa ed a favore di un terzo (anch'esso imprenditore), di far partecipare questo ultimo agli utili della prima garantendo la partecipazione alle perdite.

Il contratto di cointeressenza, in entrambe le fattispecie, pur con le differenze evidenziate, si caratterizzerebbe per la causa contrattuale, che è quella di condivisione dei rischi di un'impresa in un'ottica di mutua assicurazione.

Tuttavia, è da precisare che la cointeressenza propria (fattispecie che rileva ai fini della questione che ne occupa) ha finalità para-assicurativa, in quanto differisce dal contratto di assicurazione perché l'accordo stipulato è teso a ripartire tra i contraenti il rischio di impresa, piuttosto che garantirne l'adempimento, finalità, questa ultima, propria del contratto di assicurazione. In questa ultima fattispecie negoziale, il premio pagato dall'assicurato è determinato con riferimento al valore di un rischio medio, a differenza di quanto accade nel contratto di cointeressenza dove, come osserva la migliore Dottrina (R. Weigmann, voce Cointeresssenza, in “Dig. Disc. Priv., Torino, 1988) vi è una doppia alea, dal momento che possono oscillare sia le partecipazioni agli utili, sia quelle alle perdite.

Inoltre, al contratto di assicurazione tipizzato dal codice civile (art. 1882) è connaturata la pattuizione di un “limite”, oltre al quale l'assicuratore non è tenuto a rivalere l'assicurato; nel contratto di cointeressenza, invece, non sono previsti limiti d'intervento per l'assuntore – cointeressato nel ripianamento delle eventuali perdite dell'imprenditore.

Gli altri elementi essenziali del contratto di cointeressenza propria, oltre alla causa, emergono dal rinvio operato dall'art. 2554 agli artt. 2551 e 2552 del c.c. In base all'art. 2551 c.c., la cointeressante assume obblighi nei confronti dei terzi, rimanendo, pertanto, in capo alla stessa la gestione dell'impresa ed assegnando alla cointeressata il solo diritto al rendiconto nonché, nella misura ben delimitata in seno al contratto, il diritto di esercitare un qualche controllo.

Rimanendo all'interno dello schema contrattuale della cointeressenza propria, per quanto sia ammissibile una forma di controllo da parte della cointeressata ancora più complessa ed invasiva di quella (minima) prevista dalla disposizione codicistica, è necessario che tale forma di controllo non si estenda fino ad assumere la forma di collaborazione all'impresa tra le parti del contratto in quanto, in tal caso, vi sarebbe il rischio di trasformare il contratto di cointeressenza in un vincolo associativo, ovvero in una società.

Come ha già chiarito la giurisprudenza (Cass. civ., sez. I, 15 gennaio 1979, n. 294; Cass. civ., se. III, 8 giugno 1985, n. 3442), il rapporto di cointeressenza propria si differenzia dal contratto di società per la mancanza di un autonomo patrimonio comune, risultante dai conferimenti dei soci e per l'assenza di una gestione condivisa dell'impresa la quale è esercitata, anche nei rapporti interni, dal solo cointeressante cui compete in modo esclusivo di svolgere ogni attività relativa all'impresa stessa secondo la propria libera determinazione.

Il contratto di cointeressenza propria è, dunque, un negozio tipico perché espressamente previsto normativamente; è da considerarsi aleatorio, in quanto caratterizzato sia dall'incertezza del verificarsi dell'evento assicurato (perdita), sia dall'incertezza sull'an e sul quantum della remunerazione dovuta per la prestazione di garanzia.

La stipula di tale forma contrattuale realizza, al pari della costituzione di società, la cooperazione economica di due o più soggetti nell'esercizio dell'impresa. Nonostante l'esigenza pratica cui rispondono i due contratti, di società e di cointeressenza, sia la medesima, id est la realizzazione di una collaborazione patrimoniale per il perseguimento di un lucro attraverso l'esercizio di un'attività economica, gli stessi si differenziano nettamente in considerazione delle diverse basi giuridiche sulle quali la collaborazione patrimoniale si fonda.

Nel contratto di società alla comunanza dei risultati corrisponde una comunanza di mezzi e di poteri che si concretizza attraverso la creazione di un'organizzazione giuridica, nella quale i partecipanti si trovano, qualitativamente, anche se non quantitativamente, in una stessa posizione. Il fondo sociale si autonomizza più o meno sensibilmente dal patrimonio dei singoli soci.

Nella cointeressenza propria, invece, alla comunanza dei risultati non corrisponde una comunanza di poteri. La cooperazione economica si attua mediante il trasferimento di determinate somme dal cointeressato al cointeressante, il quale ne acquista la proprietà e la disponibilità; la gestione dell'impresa è di pertinenza esclusiva del cointeressante ed il cointeressato non può interferire in nessun modo nell'attività ad esso inerente, dovendo accettare quanto il cointeressante ritiene di fare e potendo riservarsi solo un controllo a tutela della partecipazione che gli è stata riconosciuta.

Tutto, pertanto, si riduce ad un rapporto contrattuale per effetto del quale in corrispettivo al rischio in cui incorre il cointeressato, a questo ultimo viene riconosciuta una partecipazione agli utili conseguiti attraverso l'esercizio dell'impresa e, conseguentemente, il diritto di avere il rendiconto finale o quello annuale. L'impresa è comune soltanto nel senso che i risultati di essa vanno a beneficio o a carico di tutti: il cointeressato, infatti, corre le aree sfavorevoli non meno di quelle favorevoli della gestione dell'impresa. Non soltanto egli non assume responsabilità nei confronti dei terzi per le obbligazioni assunte dal cointeressante, ma anche nei rapporti con questo ultimo, in quanto l'obbligazione è limitata all'accordo previsto contrattualmente e nessun altro diritto può essere avanzato dal cointeressante.

Ciò posto, nel caso di specie le motivazioni concrete che hanno determinato le parti a stipulare il contratto di cointeressenza risiedono, essenzialmente, nella volontà di assumere reciprocamente in capo ad entrambe la condivisione del rischio imprenditoriale delle rispettive gestioni aziendali e, nel contempo, di far rilevare nel bilancio il risultato economico della controllata/controllante, in attesa di poter dar concretamente seguito (così come poi è stato dato seguito) ad operazioni societarie di accorpamento dei due rami aziendali, previo ottenimento dell'assenso da parte delle organizzazioni sindacali.

Preso atto dell'impossibilità di dare attuazione, nel brevissimo periodo, sia per ovvi motivi organizzativi, produttivi e non da ultimo sindacali, all'unificazione anche giuridica delle due società, per il tramite di operazioni di fusione, conferimento, cessione di azienda, risultava, comunque, necessario (anche per esigenze del sistema bancario che finanziava fortemente il business del gruppo) porre in essere, nel mentre dell'attuazione di tale prospettata unificazione aziendale, tutto quanto possibile, per assicurare ai terzi (e, quindi, soprattutto agli Istituti Bancari) nella fase transitoria, che entrambe le società si sarebbero garantite il reciproco sostegno finanziario in base ai risultati gestionali ottenuti e nel contempo, comunque, garantire un'adeguata informativa contabile sull'andamento e sui risultati dei due rami di azienda produttivi.

Tali motivazioni di carattere economico, oltre ad essere assolutamente comprensibili e plausibili, appaiono nel concreto assolutamente in linea con la causa del contratto di cointeressenza innanzi delineata in dottrina (funzione assicurativa in senso atecnico, tale da far rientrare il contratto nelle figure di unione tra imprenditori).

È per queste motivazioni che le parti hanno deciso di stipulare il predetto contratto di cointeressenza propria complessa, ottenendo così i seguenti risultati:

  • il primo: collegare in maniera assolutamente stringente l'andamento gestionale delle due imprese contraenti realizzando la piena condivisione reciproca del rischio imprenditoriale, garantendo, nel contempo, un'adeguata informativa contabile mediante l'esposizione nei rispettivi bilanci del risultato economico ottenuto dall'altra, il tutto senza dover redigere un ulteriore bilancio consolidato;
  • il secondo: assicurare ai terzi (in particolare al sistema bancario), attraverso l'assunzione di una obbligazione contrattuale ben specifica e giuridicamente vincolante, il reciproco sostegno finanziario da parte delle due società (sostegno finanziario derivante dal sostenimento degli oneri e/o dei proventi derivanti dal contratto di cointeressenza) in modo da garantire ad entrambi i contraenti un riscontro sia economico, circa i risultati conseguiti (poi riflesso nei rispettivi bilanci), che finanziario, determinando così di fatto una condivisione onerosa del rischio di impresa;
  • il terzo: ottenere, secondo le modalità di calcolo concordate, il riconoscimento fiscale dei rispettivi risultati economici in capo ai soggetti contraenti.

Le circostanze fattuali appena delineate mostrano chiaramente come la ripresa a tassazione, operata dall'Amministrazione, in capo alla società controllante, del risultato negativo fiscale della controllata, asserendo essersi verificata una ipotesi di abuso del diritto, sia illegittima ed infondata. In definitiva, deve verificarsi, sotto il profilo degli assetti normativi tributari vigenti, se sia da considerare “riprovevole” (e quindi il vantaggio fiscale conseguito “indebito”), la circostanza contestata nel caso di specie e, cioè, che una controllante al 99,90% di altra società possa dedurre dal proprio reddito fiscale l'eventuale perdita subita dalla controllata, operando così una compensazione intersoggettiva delle perdite fiscali tra soggetti appartenenti allo stesso gruppo.

La risposta a tale quesito va ricercata nella normativa all'epoca vigente (l'operazione contestata è avvenuta nel 2006) ed, in particolare, va valutata alla luce degli artt. 117 e ss. del TUIR (consolidato fiscale) introdotti in esecuzione dell'art. 4 della legge delega 7 aprile 2003 n. 80, il quale contemplava, tra l'altro, il principio generale della determinazione in capo alla società controllante di un'unica base imponibile per il gruppo di imprese partecipanti in misura corrispondente alla somma algebrica degli imponibili di ciascuna. A decorrere dal 2004 (data di entrata in vigore della normativa in questione), quindi, il legislatore italiano ha riconosciuto la possibilità di attrarre in capo alla controllante (consolidante) tutti i redditi fiscali IRES generati dalle controllate al ricorrere dei seguenti requisiti:

  1. la controllata deve avere l'esercizio sociale che chiude nella stessa data di quello della controllante (nel caso in esame entrambe le società chiudevano l'esercizio al 31 dicembre);
  2. la controllata e la controllante devono essere avere la forma giuridica di SRL, SPA o SAPA;
  3. la controllante deve possedere sin dall'inizio di ogni esercizio una partecipazione superiore al 50% sia in termini di diritti di voto esercitabili in assemblea, che di partecipazione agli utili; nel caso in esame alla controllante spettava, sin dal 1° gennaio 2006, il 99,90% sia dei diritti di voto, che del diritto agli utili della controllata;
  4. la controllata o la controllante non devono usufruire di riduzioni di aliquote di imposta IRES, né essere sottoposti a procedure concorsuali (nel caso in esame tali circostanze non sussistono).

Ricorrendo, nella fattispecie che ne occupa, tutti i suindicati requisiti di legge ed essendo la controllante all'epoca della stipula del contratto di cointeressenza ampiamente nei termini per poter esercitare l'opzione al consolidato fiscale, si può legittimamente affermare che il vantaggio fiscale contestato dall'Ufficio sia un risultato/vantaggio fiscale riconosciuto ampiamente legittimo dall'ordinamento tributario italiano e, quindi, non suscettibile di censura per effetto dell'applicazione del principio dell'”abuso del diritto”.

In buona sostanza il vantaggio fiscale contestato non è, né poteva essere considerato indebito, dovendo l'individuazione, l'apprezzamento e la valutazione dello stesso emergere dal confronto tra i risultati concretamente ottenuti e quelli ottenibili attraverso l'impiego di altri schemi comportamentali che, in maniera più o meno indiretta, avrebbero consentito il perseguimento del medesimo obiettivo; nella fattispecie l'opzione per il consolidato fiscale.

Non può ignorarsi che con l'adozione della tassazione di gruppo la controllante non avrebbe azzerato, per l'importo di € 3.340.183,68, il proprio credito vantato nei confronti della controllata, credito che, in un'ottica strettamente fiscale, avrebbe potuto determinare in capo alla controllante stessa una perdita su crediti deducibile di pari importo, qualora gli stessi (crediti) fossero risultati non incassabili in sede di liquidazione del patrimonio della controllata, per incapienza di attivo (ipotesi, questa, assolutamente concreta visti i risultati economici negativi subiti da questa). In definitiva, esercitando tale opzione fiscale alternativa (il consolidato fiscale), il vantaggio fiscale in capo alla controllante si sarebbe per così dire potuto “raddoppiare”: riporto nel 2006 in capo alla controllante della perdita fiscale 2006 della controllata e successiva ulteriore deducibilità fiscale (sempre in capo alla controllante) di una perdita su crediti, per l'importo di € 3.340.183,68.

La riconosciuta legittimità del risultato/vantaggio fiscale ottenuto priva da sola di qualsiasi pregio la contestazione dell'Ufficio e ciò anche, per estrema ratio, indipendentemente da una valutazione delle ragioni economiche sottese al comportamento adottato.

Ogni scelta imprenditoriale, anche generata da motivazioni fiscali, non può essere giudicata abusiva per l'assenza di valide ragioni economiche, tutte le volte in cui non aggira obblighi o divieti e non realizza un risultato o meglio non determina un vantaggio rifiutato e/o disapprovato dall'ordinamento tributario vigente.

Ne deriva, quindi, come la ricostruzione formulata dall'Amministrazione Finanziaria e fatta propria dalla stessa Commissione nella sentenza in glossa (con una motivazione alquanto succinta, priva di un percorso motivazionale adeguato all'importanza e delicatezza della questione oggetto di decisione), si riveli palesemente contraria alla ratio del contratto di cointeressenza ed ai principi dell'abuso del diritto.

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