Rimborso crediti da dichiarazione, interessi anatocistici e svalutazione monetaria
21 Settembre 2017
Massima
Il contribuente deve provvedere a rimuovere l'eventuale errore contenuto nella dichiarazione ed a rendere così il credito certo, liquido ed esigibile nei confronti del suo debitore. Solo da quel momento possono essere computati gli eventuali interessi. In caso di ritardato adempimento di una obbligazione di valuta, il maggior danno di cui all'art. 1224, secondo comma, c.c. può ritenersi esistente in via presuntiva in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali. Ricorrendo tale ipotesi, il risarcimento del maggior danno spetta a qualunque creditore, fermo restando che se il creditore domanda, a titolo di risarcimento del maggior danno, una somma superiore a quella risultante dal suddetto saggio di rendimento dei titoli di Stato, avrà l'onere di provare l'esistenza e l'ammontare di tale pregiudizio, anche per via presuntiva. Il caso
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 19564 del 4 agosto 2017, ha affermato rilevanti considerazioni che meritano di essere evidenziate. Nel caso di specie un istituto finanziario aveva esposto nella dichiarazione annuale, presentata ai fini della IIDD per l'anno 1992, una eccedenza IRPEG di lire 12.514.420.000, da riportare a credito nell'anno successivo. Nella dichiarazione relativa al successivo periodo di imposta, anno 1993, questa eccedenza era stata riportata come credito ILOR e richiesta a rimborso come tale.
In data 15 maggio 2000 ed in data 23 ottobre 2003, la banca aveva presentato istanza di rimborso all'Agenzia delle Entrate senza ottenere risposta e, decorso il termine di 90 giorni, aveva quindi impugnato il silenzio rifiuto, chiedendo la condanna dell'Ufficio al rimborso del credito ILOR risultante dalla dichiarazione per l'anno di imposta 1993, nonché al pagamento degli interessi ordinari ed anatocistici e del risarcimento del maggior danno da ritardato adempimento, previsto dall'art. 1224, secondo comma, c.c.
Nelle more del giudizio di primo grado l'Ufficio, pur confermando le ragioni del diniego opposto alla istanza di rimborso, aveva riconosciuto la spettanza della quota capitale a titolo di IRPEG, provvedendo spontaneamente anche a versarla, ma non degli interessi essendo l'appostazione del credito in dichiarazione stata effettuata a titolo di ILOR e non di IRPEG.
La CTP aveva preso atto dell'acquiescenza dell'Ufficio sulla quota capitale ed aveva riconosciuto gli interessi ordinari e quelli anatocistici con decorrenza dalla data della istanza di sollecito del rimborso (19 maggio 2000), anziché dal secondo semestre successivo alla presentazione della dichiarazione dei redditi (1994), sulla considerazione che la contribuente in dichiarazione aveva indicato il credito di imposta di cui chiedeva il rimborso quale ILOR, invece che come IRPEG.
La Commissione Tributaria Regionale, con sentenza concernente esclusivamente gli interessi ed il risarcimento del danno, accoglieva, in parte, l'appello della contribuente, rigettando invece l'appello incidentale dell'Ufficio. Il giudice di appello riteneva in particolare che l'Ufficio avrebbe dovuto correggere, ai sensi dell'art. 36-bis, comma 2, del d.P.R. n. 600/1973, l'indicazione del credito come IRPEG invece che ILOR, quale errore materiale, e provvedere alla riliquidazione della dichiarazione dei redditi.
La CTR concludeva dunque che, per tali motivi, la data da cui computare gli interessi primari era quella del secondo semestre del 1994, ex art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 602/1973 e stabiliva, inoltre, che la capitalizzazione degli interessi anatocistici andava applicata sino al 04 luglio 2006 e non per il periodo successivo, alla luce dell'art. 37, comma 50, del D.L. n. 223/2006.
Il medesimo giudice, infine, escludeva il riconoscimento della rivalutazione monetaria e l'applicazione degli artt. 1224, comma 1, e 1284 c.c. al ritardato rimborso di crediti di imposta, richiamando la sentenza delle ss.uu. n. 19499/2008.
L'Agenzia delle Entrate ricorreva per cassazione, mentre l'istituto finanziario proponeva ricorso incidentale.
Con il motivo di ricorso principale l'Agenzia lamentava la violazione e falsa applicazione dell'art. 44 del d.P.R. n. 602/1973, in relazione all'art. 1282 c.c. ed all'art. 36-bis della Legge n. 600/1973 e si doleva del fatto che la CTR, errando, avesse ritenuto produttivo di interessi, sin dalla presentazione della dichiarazione, il credito, indicato come ILOR, nel presupposto che l'Ufficio avrebbe dovuto spontaneamente ritenere che la domanda riguardava un diverso credito IRPEG, laddove invece il giudice avrebbe dovuto considerare che gli interessi decorrevano da quando il credito era divenuto certo, liquido ed esigibile, laddove, in assenza della correzione dell'errore commesso dal contribuente, tale momento andava a coincidere con quello in cui l'Amministrazione (in data 1° dicembre 2005) si era spontaneamente determinata ad operare il rimborso, sia pure per un titolo diverso da quello indicato dal contribuente.
Il motivo, secondo i giudici di legittimità, era fondato. La questione
La Suprema Corte rileva come la statuizione impugnata, che faceva decorrere il computo degli interessi primari dal secondo semestre del 1994, si fondava su due argomenti: il primo era che il riporto del credito IRPEG nel campo ILOR della dichiarazione dei redditi della banca fosse da ascrivere ad un mero errore materiale della contribuente; il secondo, era che fosse onere dell'Amministrazione provvedere alla correzione di tale errore in sede di controllo automatizzato, in esecuzione di quanto previsto dall'art. 36-bis, comma 2, lett. b) del d.P.R. n. 600/1973, e che, non avendovi provveduto, l'Amministrazione subiva dunque le conseguenze dell'esecuzione posticipata del rimborso, di guisa che lo stesso veniva gravato dagli interessi primari maturati secondo i criteri stabiliti dall'art. 44, comma 2, del d.P.R. n. 602/1973.
Tale statuizione, però, secondo la Corte, risultava errata.
Rileva infatti la Corte che la CTR aveva dato erroneamente applicazione ad una versione dell'art. 36-bis, comma 2, lett. b, del d.P.R. n. 600/1973 ancora non vigente all'epoca dei fatti, in quanto conseguente ad una modifica normativa apportata dall'art. 13 del D.Lgs. n. 241/1997, con entrata in vigore ex art. 16 dal 1° gennaio 1999.
Il testo vigente dell'art. 36-bis, comma 2, lett. g) (concernente i crediti di imposta) stabiliva infatti che "gli uffici possono: ... g) controllare i crediti di imposta spettanti e i versamenti delle somme dovute in base alle dichiarazioni", prevedendo quindi solo una possibilità di controllo e non un obbligo.
Nel merito la Corte osservava poi che le Sezioni Unite avevano già affermato che "in tema di rimborso d'imposte, l'Amministrazione finanziaria può contestare il credito esposto dal contribuente nella dichiarazione dei redditi anche qualora siano scaduti i termini per l'esercizio del suo potere di accertamento, senza che abbia adottato alcun provvedimento, atteso che tali termini decadenziali operano limitatamente al riscontro dei suoi crediti e non dei suoi debiti, in applicazione del principio quae temporalia ad agendum, perpetua ad excepiendum." (Cass. civ., ss.uu. n. 5069/2016).
La stessa Corte aveva poi chiarito che "in tema di rimborso d'imposta, non è previsto - né dall'art. 38 del d.P.R. n. 602/1973, né da altre disposizioni - l'onere dell'Amministrazione finanziaria di svolgere attività di rettifica della dichiarazione in cui è stato esposto il credito, sicché, anche in assenza di accertamenti nei termini di legge, non si consolida l'asserito diritto del contribuente" (Cass. civ., n. 12557/2016).
La decisione impugnata non aveva quindi dato corretta applicazione a tali principi, poiché aveva invece ravvisato un inesistente onere di correzione della dichiarazione a carico dell'Amministrazione in favore del contribuente, e sulla pretesa inosservanza aveva poi fondato la condanna alla corresponsione degli interessi primari, retrodatandoli addirittura al secondo semestre successivo alla presentazione della dichiarazione. Le soluzioni giuridiche
Al contrario, la CTR, secondo i giudici di legittimità, avrebbe dovuto accertare se e quando la contribuente aveva provveduto a rimuovere l'errore contenuto nella dichiarazione ed a rendere così il credito certo, liquido ed esigibile nei confronti del suo preteso debitore, nel periodo temporale antecedente allo spontaneo rimborso eseguito dall'Amministrazione per un titolo diverso da quello indicato dalla contribuente stessa, computando quindi gli eventuali interessi con riferimento al periodo così individuato ed intercorrente tra la rimozione dell'errore da parte della contribuente e lo spontaneo adempimento da parte dell'Amministrazione.
Anche il motivo di ricorso incidentale sollevato dalla contribuente, la quale aveva denunciato la violazione e falsa applicazione dell'art. 1224 c.c., era peraltro fondato. La decisione a Sezioni Unite n. 19499/2008, richiamata nella decisione impugnata, aveva infatti statuito che "Nel caso di ritardato adempimento di una obbligazione di valuta, il maggior danno di cui all'art. 1224, secondo comma, c.c. può ritenersi esistente in via presuntiva in tutti i casi in cui, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali. Ricorrendo tale ipotesi, il risarcimento del maggior danno spetta a qualunque creditore, quale che ne sia la qualità soggettiva o l'attività svolta – (e quindi tanto nel caso di imprenditore, quanto nel caso di pensionato, impiegato, ecc.), fermo restando che se il creditore domanda, a titolo di risarcimento del maggior danno, una somma superiore a quella risultante dal suddetto saggio di rendimento dei titoli di Stato, avrà l'onere di provare l'esistenza e l'ammontare di tale pregiudizio, anche per via presuntiva; in particolare, ove il creditore abbia la qualità di imprenditore, avrà l'onere di dimostrare o di avere fatto ricorso al credito bancario sostenendone i relativi interessi passivi; ovvero – attraverso la produzione dei bilanci quale fosse la produttività della propria impresa, per le somme in essa investite; il debitore, dal canto suo, avrà invece l'onere di dimostrare, anche attraverso presunzioni semplici, che il creditore, in caso di tempestivo adempimento, non avrebbe potuto impiegare il denaro dovutogli in forme di investimento che gli avrebbero garantito un rendimento superiore al saggio legale" (Cass. civ., ss.uu. n. 19499/2008).
Sempre in tema di risarcimento del danno da svalutazione monetaria in campo tributario la Suprema Corte aveva inoltre di recente ribadito (Cass. civ., nn. 3331/2017, 28332/2013), che può liquidarsi il danno da svalutazione monetaria, sempre che il creditore deduca e dimostri che un tempestivo adempimento gli avrebbe consentito di impiegare il denaro in modo tale da elidere gli effetti dell'inflazione e salva l'applicazione – imposta dalla specificità della disciplina dell'obbligazione tributaria – di un particolare rigore nella valutazione del materiale probatorio (Cass. civ., n. 16871/2007; Cass. civ., nn. 26403/2010, 7803/2016, 11943/2016).
La statuizione impugnata non aveva dunque dato corretta applicazione a questi principi, avendo negato tout court la riconoscibilità del risarcimento del danno da svalutazione monetaria, che sarebbe stato invece in teoria consentito nel caso in cui la parte privata avesse provveduto ad assolvere adeguatamente ai suoi oneri probatori nei termini precisati. Osservazioni
In conclusione possiamo comunque osservare quanto segue.
Quanto agli interessi anatocistici questi ex art. 1283 c.c. decorrono, sempre in presenza delle condizioni che li rendono liquidabili, dalla domanda giudiziale.
La norma non ha eccezioni nel rapporto tributario, dove pure è regola che in caso di diritto al rimborso al contribuente spettino, sempre che ne ricorrano le condizioni, gli interessi anatocistici, ma questo solo a far data dalla domanda giudiziale di rimborso, in quanto tali interessi non sono accessori del credito principale, come tali conseguenti alla domanda di rimborso (cfr. Cass. civ., n. 11171/2013).
In tema di rimborsi d'imposta, gli interessi anatocistici sulle somme dovute a titolo di ritardato rimborso di imposta al contribuente non sono peraltro più dovuti a decorrere dal 4 luglio 2006, data di entrata in vigore dell'art. 37, comma 50, del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito in Legge 4 agosto 2006, n. 248, mentre il principio dettato dall'art. 1283 c.c. continua ad applicarsi per il periodo anteriore, attesa la portata innovativa e non interpretativa dell'art. 37, comma 50, citato (cfr Cass. civ., n. 17993/2012; Cass. civ., n. 2823/2012).
Il contribuente-creditore che invochi il pagamento degli interessi anatocistici ex art. 1283 c.c., è in ogni caso tenuto ad indicare tutti gli elementi necessari alla liquidazione di essi, a cominciare dalla capitalizzazione del primo semestre di interessi maturati sul capitale ed a formulare la richiesta nell'atto introduttivo del giudizio tributario avente ad oggetto il predetto rimborso, non potendosi i citati interessi considerare un accessorio del credito principale conseguente in via automatica all'accoglimento della domanda di rimborso o di quella degli interessi.
Si ricorda infine che la richiesta di rimborso degli interessi (anche anatocistici) è comunque possibile solo entro il termine di prescrizione di 5 anni.
In particolare, come anche in questo caso riconosciuto dalla Suprema Corte (vedi per tutte la sentenza n. 2945 del 9 febbraio 2007), “l'obbligazione del fisco per gli interessi scaturenti dal tardivo adempimento del credito da rimborso, vantato dal contribuente integra infatti una obbligazione autonoma rispetto a quella riguardante il capitale onde le vicende dell'una sono autonome e distinte rispetto a quelle dell'altra, in particolare per quanto riguarda la prescrizione, così che la prescrizione del credito per i detti interessi resta sganciata dalla prescrizione fissata per il credito di imposta ed è perfino insensibile alle vicende interruttive riguardanti esclusivamente quest'ultima” (cfr. Cass. civ., 6 agosto 2004, n. 15222 nonché la Cass. civ., 3 gennaio 2005, n. 66).
Quanto infine alla richiesta del maggior danno da svalutazione monetaria si deve rispettare il principio di diritto in base al quale l'art. 1224 c.c., nel riconoscere il risarcimento ulteriore da svalutazione monetaria, non richiede altro che la dimostrazione del danno subito, non essendo richiesto nell'accertamento di tale danno che si valuti se il creditore ha iscritto a bilancio, quale misura compensativa crediti affermati verso l'erario.
Il debito di valuta, a differenza dell'obbligazione risarcitoria, non è del resto soggetto a rivalutazione monetaria automatica, ma impone al titolare del bene di proporre la domanda di ristoro del maggior danno ai sensi dell'art. 1224 c.c. allegandone le circostanze necessarie e fornendone la prova.
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