È sufficiente il requisito dell'antieconomicità della condotta imprenditoriale a fondare l'accertamento presuntivo?

22 Dicembre 2016

La contestazione riguardante l'antieconomicità del comportamento imprenditoriale richiede da parte dell'Amministrazione finanziaria la dimostrazione, in chiave diacronica, dell'inattendibilità della condotta.
Massima

La contestazione riguardante l'antieconomicità del comportamento imprenditoriale richiede da parte dell'Amministrazione finanziaria la dimostrazione, in chiave diacronica, dell'inattendibilità della condotta.

Il caso

Nel corso di un controllo originato da una richiesta di rimborso di un credito IVA relativo all'anno 2004 proposta dal curatore del fallimento di una società a responsabilità limitata, dichiarata fallita nel 2005, l'Agenzia delle Entrate richiese l'esibizione di una serie di documenti contabili, tra i quali il dettaglio, per quantità e valore, delle rimanenze delle materie prime e delle merci, che il curatore si limitò ad indicare nel valore iniziale di 100.000,00 euro ed in quello finale di 200.000,00 euro.

L'Ufficio ravvisò nella genericità di quest'indicazione il presupposto per procedere ad accertamento analitico-induttivo ex art. 39, 1° co., lett. d), del d.P.R. 600/1973 e determinò, in relazione all'anno d'imposta 2002, maggiori ricavi rispetto a quelli dichiarati, facendo leva sull'incongruenza, reiterata nel tempo, della redditività, giacché il reddito dichiarato, che per l'anno 2001 era di euro 48.791,00, risultava sceso per il 2002 ad euro 1.682,00.

Ne seguì l'avviso di accertamento col quale l'Agenzia rettificò il reddito d'impresa da euro 1.682,00 ad euro 315.700,00, che il curatore impugnò, ottenendone l'annullamento dalla Commissione Tributaria Provinciale.

La Commissione Tributaria Regionale ha respinto l'appello dell'Ufficio, rimarcando per un verso la certezza dei dati indicati a titolo di rimanenze ed osservando che la scarsa redditività trova spiegazione nel fatto che la società è stata dichiarata fallita qualche anno dopo.

Avverso questa sentenza propone ricorso l'Agenzia delle Entrate, che affida ad un unico motivo, lamentando la violazione dell'art. 39, 1° co., lettera d), del d.P.R. n. 600/1973, là dove il giudice d'appello ha reputato illegittimo l'avviso di accertamento, benché fosse al cospetto di dati generici relativi alle rimanenze e di un'indubbia antieconomicità della condotta.

La questione

La questione concerne la legittimità dell'accertamento analitico-induttivo emesso dall'Ufficio, in presenza, da un lato, di dati generici relativi alle rimanenze delle materie prime e delle merci e, dall'altro, di una condotta imprenditoriale caratterizzata dall'antieconomicità.

Le soluzioni giuridiche

Quanto al primo quesito, i Giudici di legittimità, dopo aver osservato che la corretta e specifica indicazione delle rimanenze è di precipuo rilievo, giacché, in base al principio di continuità dei valori di bilancio ed all'art. 59 del d.P.R. n. 917/1986, le rimanenze finali di un esercizio costituiscono esistenze iniziali dell'esercizio successivo e le reciproche variazioni concorrono a formare il reddito di esercizio, hanno affermato che la generica indicazione delle rimanenze è, senz'altro, idonea a legittimare l'accertamento analitico-induttivo previsto dalla lett. d) del 10 comma dell'art. 39 del d.P.R. n. 600/1973, essendo idonea a far dubitare della completezza e dell'attendibilità della contabilità esaminata.

E su quest'aspetto la sentenza della Suprema Corte è confermativa di precedenti pronunciamenti che legittimano l'accertamento analitico-induttivo, in presenza di valori delle rimanenze che non permettono di risalire alle modalità di formazione e che, quindi, lasciano dubitare della completezza ed attendibilità delle scritture contabili (si veda, ex multis, Cass. civ. 10 luglio 2015, n. 14501; Cass. civ. 18 luglio 2014, n. 16477; Cass. civ. 16 maggio 2012, n. 7653; Cass. civ. 23 marzo 2011, n. 6623; Cass. civ. 14 dicembre 2001, n. 15863).

Tuttavia, nel caso in esame, lo stesso giudice d'appello, con giudizio insindacabile, perché non aggredito dall'ufficio, ha ritenuto veritieri i dati sia pure genericamente indicati dal curatore del fallimento, escludendo che tale genericità possa sostenere l'accertamento svolto dall'Agenzia.

Venendo al secondo quesito, una frontiera particolarmente battuta dall'Amministrazione finanziaria, in tema di accertamenti, è rappresentata dalla cd. antieconomicità. I Giudici di legittimità, nel tempo, hanno affermato la possibilità di utilizzare canoni di ragionevolezza ed elementi di comune esperienza per giustificare rettifiche di perdite ovvero di redditi apparentemente ridotti, in tutti quei casi in cui i dati contabili dichiarati mostrano chiari segnali di una gestione anti economica. Il tutto con accertamenti meramente presuntivi, anche in assenza di ispezione delle scritture contabili ovvero in presenza di dati formalmente corretti.

Occorre precisare in cosa consiste la nozione di antieconomicità.

La giurisprudenza ha elaborato tale concetto in modi differenti, valorizzando ora i limiti quantitativi di congruità dei costi in generale (Cass. civ., 27 settembre 2013, n. 22130) ora il valore normale delle operazioni, ad esempio nel settore immobiliare (Cass. civ., 3 luglio 2013, n. 16697). Non mancano le speculazioni sulla coincidenza o meno del termine con l'assenza di valide ragioni economiche di cui all'art. 37-bis del d.P.R. n. 600/1973 ovvero il richiamo alla variegata nozione di abuso del diritto.

Sin dall'inizio degli anni 2000 la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha sposato la tesi della legittimità degli accertamenti basati sull'antieconomicità (Cass. civ., 9 febbraio 2001, n. 1821). Invero, il sindacato dell'Amministrazione finanziaria circa il comportamento antieconomico del contribuente non troverebbe limiti nemmeno nella disposizione relativa alla libertà di iniziativa privata sancita dall'art. 41 della Costituzione; una condotta non ispirata ai normali criteri di economicità dell'imprenditore (principio del massimo risultato e del minimo mezzo), in contrasto con le scelte del buon senso e prive di razionale motivazione, può assumere valenza di indizio fornito dei requisiti di gravità, precisione e concordanza che legittimano il disconoscimento della deducibilità dei costi, avuto riguardo al parametro del valore normale che costituisce punto di riferimento nella valutazione fiscale delle cessioni di beni e prestazioni di servizi. Peraltro, è stato affermato a più riprese che a tale giudizio di congruità il contribuente non si può sottrarre attraverso la (mera) regolare tenuta delle scritture contabili (Cass. civ., 15 settembre 2008, n. 23635).

Il filone giurisprudenziale è diventato quindi "valanga" (così R. Lupi, L'oggetto economico delle imposte nella giurisprudenza sull'antieconomicità, in "Corr. Trib." n. 4/2009, pag 258), introducendo il concetto di inerenza "quantitativa" accanto a quello già noto dell'inerenza "qualitativa". Costi sproporzionati rispetto ai ricavi diventano quindi censurabili, e disconosciuti, in quanto non afferenti l'esercizio "economico" d'impresa.

Peraltro* anche l'art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600/1973 dispone che, in tema di accertamento delle imposte, anche in presenza di una contabilità formalmente regolare, è consentito procedere alla rettifica della dichiarazione dei redditi, senza riscontro analitico della documentazione, secondo il metodo induttivo, purché l'accertamento in rettifica risulti fondato su presunzioni assistite dai requisiti previsti dall'art. 2729 c.c. e desunte da dati di comune esperienza, oltre che da concreti e significativi elementi offerti dalle singole fattispecie.

* In evidenza
Aggiungono i giudici di legittimità (ex pluribus Cass. civ., 15 ottobre 2007, n. 21536

), secondo la quale la circostanza che una impresa commerciale dichiari, ai fini dell'imposta sul reddito, per più anni di seguito rilevanti perdite, nonché una ampia divaricazione tra costi e ricavi, costituisce una condotta commerciale anomala, di per sé sufficiente a giustificare da parte dell'Erario una rettifica della dichiarazione, ai sensi dell'

art. 39 del d.P.R. n. 600/1973

, a meno che il contribuente non dimostri concretamente la effettiva sussistenza delle perdite dichiarate.

Si consolida a questo punto la sindacabilità delle scelte economiche imprenditoriali, con ciò valutando il comportamento del contribuente non come fatto per l'emersione della veridicità, ma assumendolo ad elemento portante dell'accertamento, attribuendogli cioè il valore di idoneo elemento indiziario, dotato di per sé dei requisiti previsti dall'art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600/1973 (Cass. civ., 2 ottobre 2008, n. 24436).

Per altro verso, il giudice di legittimità (Cass. civ., 15 settembre 2008, n. 23635) afferma espressamente che, anche se il contribuente è libero di organizzare la propria attività economica, i comportamenti in contrasto con le regole di buon senso, uniti alla mancanza di una giustificazione razionale, assurgono al ruolo di indizi gravi, precisi e concordanti.

Emerge, quindi, che l'antieconomicità del comportamento del contribuente è assunto dalla Cassazione proprio come elemento decisivo da cui dedurre l'inattendibilità della contabilità, integrante di per sé la grave incongruenza legittimante la rettifica induttiva.

La dottrina (I. Caraccioli-E. Mastrogiacomo, Comportamento "contrario ai canoni dell'economia" ed accertamento induttivo, in "il fisco" n. 42/2001) ha criticato tali sentenze, rilevando che il ricorso all'accertamento induttivo è ammissibile soltanto qualora la contabilità si appalesi inutilizzabile o inattendibile (ritenendosi tassative le ipotesi espressamente previste dai commi 1 e 2 dell'art. 39 del d.P.R. n. 600/1973), e non anche quindi nei casi in cui la contabilità semplicemente riveli e rappresenti comportamenti asseritamente anti-economici.

La dottrina sostiene infatti che l'utilizzo dello strumento accertativo ex art. 39, commi 1 e 2 del d.P.R. n. 600/1973 da parte dell'Amministrazione finanziaria, è precluso salvo che non si contesti l'esistenza o l'irregolarità delle scritture contabili e che in presenza di scritture regolari non si potrebbe prescindere dall'esistenza di presunzioni gravi, precise e concordanti. La medesima dottrina tuttavia precisa correttamente che qualora non venga mosso alcun rilievo alla contabilità, ma solo ad "anomalie" della complessiva situazione economico-patrimoniale dell'azienda, che siano asseritamente indicatrici di anti-economicità l'uso dello strumento analitico-induttivo deve essere inibito ai verificatori.

Le condivisibili critiche della dottrina (si veda, anche, M. Thione-M. Bargagli, L'antieconomicità nella recente giurisprudenza: tra efficacia presuntiva e rischio di "stereotipi accertativi, in "il fisco"; R. Lupi, Equivoci in tema di sindacato del fisco sull'economicità della gestione aziendale, in "Rassegna Tributaria" n. 1/2001) pongono in evidenza che non esiste alcun legame logico-concettuale tra comportamento antieconomico e accertamento analitico induttivo e che quindi la presenza di indici economico-patrimoniali della gestione aziendale apparentemente antieconomici può esclusivamente costituire un criterio selettivo per individuare i soggetti da sottoporre a controllo, o comunque un elemento utile alla ricostruzione della realtà fattuale che non consiste di per sé un presupposto per l'accertamento induttivo.

Inoltre, condannare il contribuente per non essere stato in grado di giustificare certe anomalie rivelatrici di anti-economicità equivarrebbe ad un'inversione dell'onere della prova, non prevista in alcun modo dalla norma.

Osservazioni

La sentenza in rassegna merita di essere apprezzata nella parte in cui sembra prendere le distanze da quell'orientamento giurisprudenziale che porti a "decontestualizzare" il riferimento all'antieconomicità, affidandole indebitamente una dignità accertativa autonoma.

Si legge, invero, nella pronuncia che si annota che il riferimento all'antieconomicità non ha la connotazione di una presunzione semplice. Parrebbe, dunque, che, ad avviso dei Giudici di legittimità, la condotta antieconomica dell'imprenditore non sia di per sé suffficiente, ai sensi dell'art. 2729 c.c., a trarre da un fatto noto le conseguenze per necessarie per risalire a un fatto ignoto (quale è l'effettiva capacità contributiva).

È significativo, al riguardo, il passaggio nel quale la Suprema Corte sottolinea che la contestazione riguardante l'«antieconomicità» del comportamento imprenditoriale “richiede da parte dell'Amministrazione finanziaria la dimostrazione dell'inattendibilità della condotta”, che deve essere apprezzata in chiave diacronica sulla base di diversi indici (ad esempio, il rapporto tra reddito operativo e capitale complessivamente investito nell'impresa oppure il rapporto tra reddito operativo e volume di affari).

Al di là di ogni automatismo inferenziale, spetta all'insindacabile apprezzamento del Giudice di merito, ove congruamente motivato, la valutazione in ordine alla gravità, precisione e concordanza degli indizi posti a fondamento dell'accertamento compiuto con metodo presuntivo.

Giurisprudenza conforme

Cass. civ., sez. trib., 9 agosto 2016, n. 16743

Cass. civ., s.u., 22 dicembre 2015, n. 25767

Cass. civ., sez. III, 1° luglio 2015, n. 13468

Cass. civ., sez. trib., 30 ottobre 2013, n. 24437

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