Revocazione ordinaria: esperibile anche quando non siano scaduti i termini di impugnazione
25 Novembre 2015
Massima
È ammissibile la revocazione ordinaria avverso una sentenza della commissione tributaria regionale inoppugnabile sotto il profilo dell'accertamento in fatto, ancorché non sia ancora scaduto il termine per la proposizione del ricorso per Cassazione. La decisione a carico della società fa stato anche nei confronti dell'amministratore, costituendo il presupposto logico giuridico da cui deriva la sua responsabilità per le sanzioni.
Il caso
L'Amministrazione Finanziaria notificava all'amministratore della società, nella sua veste di legale rappresentante della stessa, avviso di irrogazione della sanzioni con il quale veniva richiesto il pagamento in via solidale per violazioni fiscali (indebita detrazione di costi) riconducibili alla società. La società ed il legale rappresentante proponevano distinti ricorsi. Riguardo a questo ultimo, la Commissione Tributaria Regionale di Ancona, con sentenza depositata il 26 giugno 2009, aveva affermato che non poteva essere riconosciuta la responsabilità solidale dello stesso per le sanzioni applicate alla società, in quanto, con distinta pronuncia di secondo grado, la Commissione aveva accertato non esservi alcuna violazione a carico della società. La decisione di seconde cure emessa nei confronti del legale rappresentante veniva impugnata dall'Ufficio, ai sensi dell'art. 64 D.Lgs. n. 546/1992, lamentando che la stessa si basava su una pronuncia (quella emessa in sede di appello nei confronti della società) opposta in sede di Cassazione, la quale aveva reso definitivo l'accertamento emesso a carico della società.
La Commissione, con la sentenza oggetto del presente contributo, ha ritenuto ammissibile l'impugnazione ex art. 64 D.Lgs. n. 546/1992 e, per l'effetto, ha revocato la decisione della Commissione Tributaria Regionale di Ancona del 29 giugno 2009, dichiarando, conseguentemente, legittimo l'avviso di irrogazione delle sanzioni nei confronti del legale rappresentante. Le questioni
La sentenza de qua si occupa di un aspetto processuale che non è di frequente trattazione.
Si tratta della possibilità di esperire la revocazione ordinaria avverso una sentenza di secondo grado la quale sia, ancora, ricorribile per Cassazione, per non essersi consumato il relativo potere di impugnazione.
Unitamente ad esso, la Commissione affronta, seppur incidentalmente, la questione del rapporto sussistente tra la decisione emessa a carico della società e quella pronunciata nei confronti del socio. Le soluzioni giuridiche
La Commissione ha ritenuto ammissibile l'impugnazione per revocazione della sentenza di secondo grado proposta dall'Ufficio rifacendosi ad una interpretazione che la Suprema Corte (sez. V, 16 luglio 2008, n. 19522), ha fornito dell'art. 64, co. 1, del D.Lgs. n. 546/1992.
A fini interpretativi, la littera legis in questione è stata scissa dal suddetto diritto vivente in due parti: la prima disciplinerebbe il caso in cui la pronuncia non sia ulteriormente impugnabile sotto il profilo dell'accertamento del fatto, come accade per la sentenza d'appello in generale, mentre il secondo riguarderebbe il caso in cui la decisione non sia stata impugnata per far accertare un fatto, come si verifica per la statuizione di primo grado.
Rebus sic stantibus, l'art. 64, co. 1, del D.Lgs. n. 546/1992 ponendo la “non ulteriore impugnabilità” di una sentenza, sotto il profilo del suo accertamento di un fatto, come condizione per l'ammissibilità del ricorso per la sua revocazione, si riferirebbe, secondo il diritto vivente, non all'inoppugnabilità della stessa per scadenza dei termini, ma alla non ricorribilità derivante dalle preclusioni relative all'oggetto del giudizio, cioè all'accertamento del fatto che non è più contestabile in sede di legittimità.
Sulla base di tale esegesi, la Commissione ha riconosciuto che ne discenderebbe, pertanto, l'ammissibilità della revocazione ordinaria avverso una sentenza della commissione tributaria regionale da considerare inoppugnabile sotto il profilo dell'accertamento in fatto, ancorché non sia ancora scaduto il termine per la proposizione del ricorso per Cassazione.
Sulla base di ciò, la Commissione ha ritenuto, nel caso di specie, che la decisione, cui faceva erroneo riferimento la sentenza impugnata, costituisse un fatto materiale nei termini in cui era richiamata in motivazione e che, quindi, l'accertamento di fatto (seppur viziato nei suoi contenuti) su cui si basava la sentenza impugnata, in quanto non determinante in re ipsa una contraddittorietà della motivazione (la quale era risultata logica e coerente all'errato presupposto di fatto), non potesse legittimare il ricorso per cassazione ex art 360 c.p.c., in quanto non ricorreva il requisito della omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.
L'impossibilità, quindi, di ricorrere per Cassazione aveva legittimato, pertanto, l'esperibilità del rimedio di cui all'art. 64 D.Lgs. n. 546/1992. Ciò premesso, la Commissione, stante l'intervenuta definitività dell'accertamento a carico della società, a seguito della pronuncia della Corte di Cassazione, ha ritenuto che tale decisione facesse stato anche nei confronti dell'amministratore, costituendo il presupposto logico giuridico da cui deriva la sua responsabilità per le sanzioni. Osservazioni
La pronuncia in disamina affronta la problematica questione dei confini applicativi dell'istituto della revocazione, con un percorso argomentativo che, seppur condivisibile nelle sue conclusioni, sembra trascurare di considerare funditus il dato positivo.
La revocazione è uno strumento di impugnazione a critica vincolata il quale investe il giudizio di fatto sulla base di motivi che solo eccezionalmente implicano la nullità della sentenza e, pertanto, coinvolge la giustizia e solo eccezionalmente la legalità della stessa (cfr. MANDRIOLI C., Diritto processuale civile, II. Il processo di cognizione, XXI edizione aggiornata a cura di A. Carratta, Torino, 2009).
Tale strumento, nato nel processo civile, ha trovato ingresso anche in quello tributario, espressamente codificato nell'art. 64 D.Lgs. n. 546/1992, laddove viene previsto che “1. contro le sentenze delle commissioni tributarie che involgono accertamenti di fatto e che sul punto non sono ulteriormente impugnabili o non sono state impugnate è ammessa la revocazione ai sensi dell'art. 395 c.p.c.”.
Sul punto sono doverose alcune precisazioni.
La locuzione “non sono ulteriormente impugnabili”, riferita alle pronunce per le quali si siano verificate le circostanze di cui all'art. 395 c.p.c., può essere intesa secondo due accezioni: a) come sentenze non altrimenti impugnabili; b) come sentenze non impugnate.
Si evince, quindi, come l'istituto della revocazione possa trovare applicazioneogni qualvolta contro la sentenza viziata non siano proponibili altri mezzi di impugnazione, come giustamente riconosciuto dalla Commissione marchigiana. In sostanza, l'impugnabilità ulteriore non è un dato relativo alla sentenza in sé, ma alla decisione rapportata al motivo di impugnazione. La determinazione della condizione di ulteriore impugnabilità di una sentenza si effettua rispondendo alla domanda se essa sia impugnabile con un determinato mezzo di gravame (in appello, per cassazione, per revocazione) basato su uno specifico motivo. A tal riguardo diviene, quindi, fondamentale cercare di porre la linea di demarcazione tra tale strumento (nella specie, in relazione al motivo di cui all'art. 395, co. 1, n. 4, c.p.c., c.d. “errore di fatto”) ed il ricorso per Cassazione per il motivo di cui all'art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. (omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio). Aspetto, quello appena esposto, sul quale la sentenza in glossa ha sorvolato, limitandosi, solamente, ad affermare l'impossibilità di proporre ricorso per Cassazione. La soluzione la si trova, ancora una volta, nello ius positum.
La revocazione ai sensi dell'art. 395, co. 1, n. 4), è proponibile “se la sentenza è l'effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa”. L'errore di fatto che può essere dedotto consiste, pertanto, nella percezione di una falsa realtà documentale, in conseguenza della quale il giudice si sia indotto ad affermare l'esistenza di un fatto che risulta incontrastabilmente escluso dai fatti di causa. Al contrario, il vizio di cui all'art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o carente esame di punti decisivi della controversia e non può, invece, consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte.
Ciò in quanto la citata norma non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l'esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento ed, all'uopo, valutarne le prove, controllarne l'attendibilità e la concludenza, e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione. Il ricorso per revocazione proposto, come si verifica nella fattispecie che ne occupa, ai sensi dell'art. 395, co. 1, n. 4, c.p.c., contro una sentenza tributaria di secondo grado, è diretto contro una pronuncia non ulteriormente impugnabile per errore di fatto, perché tale ipotizzato vizio non può essere fatto valere nel giudizio di Cassazione in base al combinato disposto, così come supra ricostruito, delle disposizioni contenute nell'art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. e nell'art. 395, comma primo, n. 4, c.p.c.. Questa interpretazione è confermata dal fatto che, mentre contro le decisioni tributarie di secondo grado sono esperibili tanto la revocazione ordinaria, quella ex art. 395, n. 4, c.p.c., quanto la revocazione straordinaria, ex art. 395, nn. 1, 2, 3, 5 e 6, c.p.c., che è fondata su motivi diversi da quelli che legittimano il ricorso per Cassazione, con la quale, quindi, concorre, le pronunce di primo grado, invece, sono impugnabili soltanto con la revocazione straordinaria, perché quella ordinaria si trova in rapporto di sussidiarietà con l'appello, per cui opera il principio della risoluzione dei motivi di revocazione in vizi di gravame (appello). In altri termini, è solo la sentenza di primo grado che, con riguardo esclusivo all'errore di fatto, manca del requisito della “non ulteriore impugnabilità” ai sensi dell'art. 64 del D.Lgs. n. 546/1992.
Nella fattispecie che ne occupa, giustamente, quindi, l'Ufficio ha denunciato gli errori di fatto della sentenza pronunciata dalla Commissione tributaria regionale di Ancona in data 29 giugno 2009 tramite l'istituto della revocazione, in quanto il vizio della stessa ha trovato origine in una distinta pronuncia (quella della Commissione tributaria regionale di Ancona pronunciata nei confronti della società, poi oggetto di ricorso per Cassazione), che è divenuta atto o documento della causa, giusto il disposto di cui all'art. 395, co. 1, n. 4) del c.p.c. Relativamente alla questione del rapporto intercorrente tra la sentenza pronunciata a carico della società e quella emessa nei confronti del rappresentante della stessa, bisogna rifarsi al fenomeno della pregiudizialità. Come è noto, questo ultimo, inteso come progressione logica delle questioni da affrontare per giungere alla soluzione di una controversia, può riguardare “punti” pregiudiziali (cioè, un antecedente logico non controverso), “questioni” pregiudiziali (cioè, una controversia “incidentale” che si presenta sulla strada della decisione e che il giudice, appunto, può decidere incidenter tantum) o “cause” pregiudiziali (cioè, controversie che devono essere risolte con sentenza che possa, poi, acquistare efficacia di giudicato).
Nella specie in esame trattasi del rapporto di pregiudizialità (ben colto della pronuncia in commento) esistente tra il procedimento relativo alla pretesa fiscale (pregiudicante), ricostruita in capo alla società e quello riferito alle sanzioni separatamente applicate dall'ufficio (al legale rappresentante della società) per i medesimi fatti oggetto dell'accertamento. Le sanzioni costituiscono un “accessorio” dell'an della pretesa impositiva, sicchè queste ultime vengono meno per effetto dell'annullamento di detta pretesa, come dimostrato dal fatto che il processo relativo alla sanzione deve essere sospeso in attesa della definizione di quello concernente gli asseriti della violazione (ex multis, Cass. civ., sez. VI- T, 23 ottobre 2015, n. 21675; Cass. civ., sez. trib., 19 aprile 2013, n. 9563). |