Esimente della “forza maggiore”: il mancato incasso di crediti non costituisce “vis maior”

Ignazio Gennaro
26 Maggio 2017

In tema di sanzioni per omesso pagamento di imposte, l'art. 6 comma 5) del D.Lgs. n. 472/1997 prevede in favore del Contribuente una “esimente” consistente nell'aver “commesso il fatto per forza maggiore”.
Massima

In tema di sanzioni per omesso pagamento di imposte, l'art. 6 comma 5) del D.Lgs. n. 472/1997 prevede in favore del Contribuente una “esimente” consistente nell'aver “commesso il fatto per forza maggiore”.

Tuttavia, il mancato puntuale incasso dei crediti vantati dal Contribuente nei confronti del propri debitori non costituisce sic et simpliciter una “vis maior” in quanto tale eventualità certamente rientra tra i comuni rischi di una attività economica, richiedendosi bensì una prova puntuale e rigorosa con riguardo alla dimostrazione d'avere usato la diligenza oculata nella gestione dell'attività commerciale, atta a recuperare, evitare o limitare il decremento di liquidità.

Il caso

Una Società proponeva opposizione alla Commissione Tributaria Provinciale di Caltanissetta avverso una cartella esattoriale con la quale la competente Agenzia delle Entrate, per tramite del Concessionario della riscossione richiedeva, ex art. 36 del d.P.R. n. 600/1973, il pagamento di imposte i cui versamenti erano risultati omessi o ritardati.

La Società ricorrente lamentava la illegittimità del provvedimento impugnato limitatamente alle sanzioni irrogate, evidenziando che il mancato regolare pagamento delle imposte era stato causato dai ritardi dei creditori, tra cui anche Pubbliche Amministrazioni, ed invocava a tal fine la esimente di cui all'art. 6 comma 5) del D.Lgs. n. 472/1997: ovvero quella fattispecie di “non punibilità” consistente nell'aver “commesso il fatto per forza maggiore”.

I Giudici tributari nisseni hanno rigettato il ricorso della Società ritenendo che “il mancato puntuale incasso dei crediti vantati nei confronti dei propri debitori, non può costituire sic et simpliciter una “vis maior”, in quanto tale eventualità certamente rientra tra i comuni rischi di una attività economica, cui l'imprenditore ben deve porre attenzione ed è tenuto a fronteggiare con la comune diligenza, ponendo in essere tutti quegli strumenti che l'ordinamento pone a sua disposizione per fronteggiare le difficoltà di liquidità e l'inadempimento dei crediti”.

Ad avviso dei primi Giudici l'onere della prova della sussistenza del “fatto di forza maggiore” grava sul contribuente e quindi la Società avrebbe dovuto dare puntuale dimostrazione di essersi diligentemente adoperata per recuperare il credito ed evitare crisi di liquidità.

Secondo la Commissione di prima istanza, invece, la Società ricorrente si era “limitata genericamente a giustificare il proprio inadempimento fiscale solo sulla sussistenza di crediti vantati nei confronti della P.A. di terzi concessionari del servizio, e non ancora riscossi, mentre nulla ha provato in modo puntuale e rigoroso riguardo all'avere usato la diligenza oculata nella gestione dell'attività commerciale, atta a recuperare, evitare o limitare il decremento di liquidità”.

La questione

La sentenza in commento affrontata la questione della “colpevolezza” del contribuente che non ottemperi al pagamento dei propri debiti tributari con la conseguente irrogazione delle sanzioni che trovano disciplina nell'art. 5 del D.lgs. n. 472/1997 nonchè della “esimente” (causa di non punibilità) prevista dal successivo art. 6 comma 5) il quale dispone che “non è punibile chi ha commesso il fatto per forza maggiore”.

La Società ricorrente, infatti, pur riconoscendo di non aver pagato i propri debiti tributari eccepiva di esservi stata impossibilitata a causa della mancata riscossione dei crediti dalla stessa vantati nei confronti di diversi soggetti tra i quali anche Pubbliche Amministrazioni.

I primi Giudici hanno preliminarmente esaminato il profilo della legittimità delle sanzioni applicate ritenendo che “la costante giurisprudenza, in tema di sanzioni per violazioni di norme tributarie, ritiene comunque che la norma in questione deve essere intesa nel senso della sufficienza dei due elementi della “coscienza e volontà” del comportamento azionato a legittimare l'applicabilità delle sanzioni previste, atteso che vi è una presunzione di colpa per l'atto o il comportamento vietato tenuto dal contribuente incombendo sul contribuente l'onere di provare di avere agito senza colpa”.

A parere del collegio di prime cure quindi “grava sulla ricorrente la prova puntuale e precisa della mancanza assoluta di colpa nel commesso comportamento”.

Onere probatorio che nel caso concreto, però, non sarebbe stato assolto in quanto che la Società “si è limitata ad ancorare l'omesso pagamento dell'imposta ad una generale difficoltà di liquidità dettata dal mancato introito di cospicui crediti dalla stessa vantata verso terzi”.

Secondo i primi Giudici la esimente della “c.d. forza maggiore”, richiede la sussistenza di una “vis maior”: ovvero di un fatto esterno “che non si può prevedere ed anche se previsto, non può essere contrastato”.

Tale “causa di forza maggiore”, ad avviso della Commissione Tributaria Provinciale, non può consistere sic et simpliciter nel mancato incasso dei crediti vantati nei confronti dei propri debitori, in quanto l'eventualità del mancato o ritardato incasso di crediti rientra tra i rischi cui comunemente vanno incontro coloro che esercitino un'attività economica “rivolta alla produzione e scambio di beni e servizi” (art. 2082 c.c.) qual' è quella esercitata dalla Società ricorrente.

A parere della Commissione territoriale è compito dell'imprenditore porre la propria attenzione a tali rischi e fronteggiarli con la comune diligenza, facendo ricorso a tutti gli strumenti che l'ordinamento pone a sua disposizione “quale l'aumento di capitale, la cessione volontaria dei crediti, il finanziamento garantito, le azioni civili e amministrative nei confronti della P.A. o dei privati inadempienti ecc.”.

Ad avviso del Collegio di prime cure la Società Contribuente si sarebbe anche potuta avvalere “degli strumenti che in materia tributaria l'ordinamento consente a chi si trova in difficoltà nel pagamento delle imposte, di potere anche ottenere la rateizzazione nel pagamento delle stesse” .

Ma nulla di ciò è risultato essere stato fatto: “Nel caso di specie la Società ricorrente si è limitata genericamente a giustificare il proprio inadempimento fiscale basandolo sulla sussistenza di crediti vantati nei confronti della P.A. e di terzi mentre nulla ha provato in modo rigoroso riguardo all'avere usato la diligenza oculata nella gestione dell'attività commerciale atta a recuperare, evitare o limitare il decremento di liquidità”.

Le soluzioni giuridiche

Il Decreto Legislativo 18 dicembre 1997, n. 472 recante “Disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie, a norma dell'art. 3, comma 133, della Legge 23 dicembre 1996, n. 662, all' art. 5 disciplina la “colpevolezza” e dispone che “nelle violazioni punite con sanzioni amministrative ciascuno risponde della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa”.

Partendo da tale norma i primi Giudici hanno preliminarmente ritenuto “corretta” l'applicazione delle sanzioni irrogate dall'Amministrazione Finanziaria alla Società contribuente in conseguenza del mancato puntuale pagamento dei tributi in quanto “non vi è dubbio che l'irrogazione delle sanzioni iscritte a ruolo trova fondamento in un fatto oggettivo ed indiscutibile posto in essere dalla Società ricorrente che si sostanzia nella piena consapevolezza di non pagare quanto dovuto a titolo di imposta”.

Con riguardo all' “esimente” di cui all'art. 6, comma 5) del già citato D.lgs. n. 472/1997 invocata dalla Società, la Commissione Tributaria Provinciale ha ritenuto che “la Società ricorrente si è limitata genericamente a giustificare il proprio inadempimento fiscale basandolo solo sulla sussistenza di crediti vantati nei confronti della P.A. e di terzi...”.

Ad avviso dei primi giudici inoltre “ritenere in modo semplicistico l'applicabilità delle invocate esimenti dell'art. 5 e dell'art. 6 comma 5) del D.lgs. n. 472/1997, solo in forza del collegamento automatico tra “difficoltà di liquidità” e “sussistenza di cospicui crediti verso terzi”, ritenendo per ciò stesso assolto l'onere probatorio in capo al contribuente della propria mancanza di colpa porterebbe a creare facili espedienti per eludere la normativa tributaria…”.

Grava quindi sul contribuente la prova puntuale e precisa della mancanza assoluta di colpa nel commesso comportamento di omesso o ritardato pagamento dei tributi.

Osservazioni

La Corte di Legittimità ha già avuto modo di occuparsi della fattispecie oggetto della sentenza in commento.

Con riferimento alla legittima applicabilità delle sanzioni amministrative, infatti, ha statuito la necessità che l'inadempimento (o l'inesatto adempimento) del contribuente sia almeno colposo e cioè, caratterizzato da una sua negligenza o imperizia o inosservanza di obblighi tributari.

Deve, pertanto, considerarsi tempestivo, secondo i normali canoni di correttezza e buona fede – e di per sé sufficiente ad escludere un giudizio di colpevolezza – l'adempimento dell'obbligazione tributaria mediante delega bancaria, qualora il ritardo nell'esecuzione della prestazione non sia imputabile al delegante, essendo stato l'ordine trasmesso con congruo anticipo e in presenza delle "normali" condizioni richieste per il buon esito dell'operazione (ritardo, nella specie, di un solo giorno, causato, peraltro, dall'erronea indicazione della scadenza da parte della stessa Amministrazione finanziaria, su cui, sebbene "contra legem", è legittimo fare affidamento). (Cassazione civile, sez. trib., 6 agosto 2014, n. 17626).

Grava quindi sul contribuente l'onere della prova dell'assenza di colpa, non potendo essere rilevata d'ufficio.

In tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, la Corte ha infatti statuito che ai fini dell'affermazione di responsabilità del contribuente, ai sensi dell'art. 5 D.lgs. 18 dicembre 1997 n. 472, occorre che l'azione od omissione causativa della violazione sia volontaria, ossia compiuta con coscienza e volontà, e colpevole, ossia compiuta con dolo o negligenza, e la prova dell'assenza di colpa grava sul contribuente, sicché va esclusa la rilevabilità d'ufficio di una presunta carenza dell'elemento soggettivo, sotto il profilo della mancanza assoluta di colpa. (Cass. civ., sez. trib., 15 giugno 2011, n. 13068).

Riferimenti

In materia di esenzione di responsabilità conseguente al mancato o ritardato pagamento di tributi, la Corte nomofilattica sezione V con recentissima Sentenza n. 6108 del 30 marzo 2017 ha affermato che nell'ipotesi di ravvedimento operoso” non è invocabile l' ”esimente” prevista dall'art. 6 comma 5).

Secondo la Corte infatti “in tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, l'istituto del ravvedimento operoso, introdotto dall'art. 13 del D.Lgs n. 472/1997, implicando riconoscimento della violazione e della ricorrenza dei presupposti di applicabilità della sanzione, rappresenta una scelta del contribuente per il pagamento della sanzione in misura ridotta, sicché non può essere invocato per ottenere il rimborso di quanto corrisposto, ai sensi dell'art. 5 del D.Lgs. n. 472/1997 o ai sensi dell'art. 10 della L. n. 212/2000, poiché tali disposizioni si applicano esclusivamente nel caso di sanzioni imposte dalla Amministrazione”.

Con altra recente pronuncia, n. 24588 del 2 dicembre 2015, la Suprema Corte sezione VI ha statuito che l'incertezza normativa oggettiva che costituisce causa di esenzione dalla responsabilità amministrativa tributaria, non sussiste in caso di divergenza tra l'indirizzo interpretativo seguito dall'Amministrazione finanziaria e le indicazioni fornite dall'associazione di categoria del contribuente, essendo necessaria la presenza di contrasti giurisprudenziali sull'oggetto della controversia”.