Soggetti legittimati alla richiesta del rimborso delle accise non dovute e giudizio di equità
26 Luglio 2016
Massima
Ai sensi dell'art. 14 del D.Lgs. n. 504/1995, il diritto al rimborso dell'accisa erroneamente versata non compete al solo produttore di energia, ma deve intendersi esteso al soggetto che in concreto, quale consumatore finale, abbia assolto all'obbligo fiscale. Da parte dell'ente impositore, la contestazione della pretesa di rimborso limitata al solo difetto di prova del “quantum”, comporta che deve ritenersi non controverso lo stato di creditore del contribuente. Il giudice è legittimato alla quantificazione del credito in via equitativa in forza delle prove acquisite al processo. Il caso
Ottenuto il riconoscimento all'esclusione dalla tassazione dell'energia elettrica impiegata nel proprio stabilimento produttivo, la società beneficiaria produceva all'Agenzia delle Dogane la richiesta di rimborso delle accise versate al fornitore dell'energia. Il giudice di prime cure dichiarava il ricorso inammissibile perché proposto dal consumatore finale, ritenuto soggetto non legittimato al rimborso. La società ricorreva quindi in appello per la riforma della sentenza. L'Agenzia delle Dogane si costituiva nel relativo giudizio e affermava che la legittimazione alla richiesta di rimborso dell'accisa indebitamente versata competeva alla sola società fornitrice dell'energia. Nel merito, allegava che il rimborso non era dovuto alla società richiedente per l'impossibilità di determinare la quantità di energia elettrica esente dall'accisa, a causa della mancanza di misuratori fisici utili a discernere la quantità consumata nei processi produttivi, cui competeva l'esenzione dal pagamento dell'accisa, da quella utilizzata per scopi diversi. Sul piano della prova, non rilevava la specifica consulenza tecnica all'uopo prodotta in giudizio dalla società creditrice. Le questioni
Nella sentenza in esame, la CTR di Potenza risolve due questioni di rilievo nel processo tributario. La prima questione verte sulla legittimazione del consumatore finale a produrre una richiesta di rimborso delle somme indebitamente versate a titolo di accise erariali ed addizionali locali sul consumo di energia elettrica. Nella sentenza di primo grado, invero, i giudici avevano dichiarato inammissibile il ricorso del consumatore finale avverso il diniego espresso di rimborso per difetto di legittimazione attiva che, viceversa, doveva ritenersi di competenza esclusiva della compagnia erogatrice l'energia elettrica (cfr. art. 14, D.Lgs. 26 ottobre 1995, n. 504).
La seconda questione verte sull'applicazione del principio di non contestazione nel processo tributario e sul potere del giudice di decidere il merito della causa, di carattere estimativo, con il ricorso alla c.d. equità giudiziale di cui agli articoli 1226 e 2056 del c.c. Le soluzioni giuridiche
Con riferimento alla prima questione, nella sentenza in esame il giudice di appello ha riconosciuto la legittimazione del consumatore finale alla richiesta di rimborso dell'accisa versata sul consumo di energia elettrica utilizzata, ponendosi nel solco della giurisprudenza di legittimità per la quale deve ritenersi legittima l'impugnazione, da parte del consumatore finale, di un provvedimento di diniego del rimborso perché l'art. 14, c. 2, D. Lgs. n. 504/1995 “nel disciplinare il rimborso delle accise non pagate, non contiene alcuna indicazione specifica circa i soggetti legittimati e deve, quindi, ritenersi applicabile a tutti coloro che dimostrino di avere indebitamente pagato l'imposta” (Cass. civ., ss.uu., 19 marzo 2009, n. 6589).
Con riferimento al merito della pronuncia, dopo aver preso atto della mancata contestazione, da parte dell'Agenzia delle Dogane, dell'esistenza di un credito a favore del consumatore, i giudici di appello hanno provveduto a determinarne, in via equitativa, il quantum, sulla base della documentazione prodotta in giudizio dalle parti. Osservazioni
La legittimazione alla richiesta di rimborso da parte del consumatore finale
Preliminarmente occorre analizzare la questione relativa alla legittimazione del contribuente finale a chiedere, direttamente all'Amministrazione finanziaria, il rimborso delle accise erroneamente versate al soggetto fornitore del servizio. La fattispecie si caratterizza perché vede coinvolti più soggetti, ovverosia il soggetto erogatore dell'energia elettrica che riscuote l'accisa, il consumatore finale che rimane inciso dal tributo e l'erario quale destinatario finale del tributo stesso. L'intreccio dei soggetti interessati dà luogo a due distinti rapporti. Un primo rapporto, di tipo privatistico, riferito alla fornitura dell'energia da parte del soggetto erogatore e al pagamento, da parte dell'utilizzatore, del prezzo corrispettivo del servizio ricevuto comprensivo dell'accisa. Un secondo rapporto, di tipo tributario, prevede l'esercizio del potere impositivo dell'erario nei confronti del soggetto erogatore.
Sotto un primo profilo, segnatamente a quello del riparto di giurisdizione, deve rilevarsi che in caso di lite tra i soggetti del rapporto privatistico le controversie relative al legittimo e corretto esercizio del diritto di rivalsa dei tributi inclusi nel prezzo di cessione, rientrano nella giurisdizione del giudice ordinario perché non riconducibili né allo schema tipico di un rapporto tributario (Cass. civ., ss.uu., 8 aprile 2010, n. 8312, Cass. civ., ss.uu., 26 giugno 2009, n. 15032, e in tal senso, Cass. civ., ss.uu., 28 gennaio 2011, n. 2064), né al catalogo degli atti impugnabili previsto dall'art. 19, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (Cass. civ., ss.uu., 19 dicembre 2009, n. 26820).
Esclusa, quindi, l'attribuzione al giudice tributario delle controversie tra privati aventi ad oggetto l'esercizio di rivalsa del tributo, la sentenza in esame riguarda la diversa fattispecie dove il contribuente consumatore finale del servizio, inciso dal tributo, si era rivolto direttamente all'erario per il rimborso delle accise versate al produttore. In tal caso, riguardo all'attribuzione della controversia al giudice tributario del conseguente diniego espresso di rimborso opposto dalla parte pubblica, la sentenza in esame ci appare condivisibile.
In primo luogo perché, in tema di giurisdizione, la richiesta di rimborso di un tributo derivante dall'esercizio del potere impositivo da parte dell'erario rientra nello schema della potestà-soggezione tipico del rapporto tributario (cfr. Cass. civ., ss.uu., 16 gennaio 2015, n. 640, v. art. 2, D.Lgs. n. 546/1992, c.d. “limite esterno” alla giurisdizione). A tale riguardo è utile osservare, per completezza, che in caso di richiesta avanzata nei confronti del fornitore di ripetizione della parte del prezzo indebitamente corrisposta e coincidente con l'accisa ritenuta non dovuta, il consumatore finale non esercita un'azione tributaria di rimborso, ma chiede all'altro contraente la restituzione della parte del prezzo non dovuta. In tal caso, quindi, la giurisdizione deve attribuirsi al giudice ordinario (Cass. civ., ss.uu., 1 febbraio 2016, n. 1837, Cass. civ., 6 agosto 2014, n. 17627, Cass. civ., ss.uu., 25 maggio 2009, n. 11987, Cass. civ., 23 febbraio 2006, n. 3994).
In secondo luogo, la sentenza ci appare condivisibile perché, segnatamente alla proponibilità della domanda, il rigetto espresso della richiesta di rimborso è inserito nel catalogo degli atti impugnabili innanzi al giudice tributario (v. art. 19, D.Lgs. n. 546/1992, c.d. “limite interno” alla giurisdizione).
Premessa, quindi, la giurisdizione del giudice tributario, ci appare condivisibile la decisione assunta dai giudici di riconoscere la legittimazione del consumatore finale ad avanzare la richiesta di rimborso delle accise versate direttamente all'erario, e quindi ad agire in giudizio. Deve rilevarsi, infatti, che in casi analoghi la Suprema Corte ha affermato che l'art. 14, comma 2, del D.Lgs. n. 504/1995, nel disciplinare il rimborso delle accise indebitamente pagate, “non contiene alcuna indicazione specifica circa i soggetti legittimati e deve, quindi, ritenersi applicabile a tutti coloro che dimostrino di avere indebitamente pagato l'imposta” (Cass. civ., ss.uu. 19 marzo 2009, n. 6589, Cass. civ., ss. uu., 4 marzo 2009, n. 5166, Cass. civ., 12 settembre 2008, n. 23518, contra CTP Genova, 2 ottobre 2010, n. 382). Sotto tale profilo, infatti, non può dubitarsi che in capo al consumatore finale, soggetto realmente inciso dal tributo, vi sia l'interesse ad agire in giudizio per il rimborso di quanto versato erroneamente (v. art. 100 c.p.c.). Sotto un diverso profilo, la decisione assunta dai giudici di appello è condivisibile perché, sul piano sostanziale, nel ritenere ammissibile il ricorso si conforma all'invito, più volte sancito dalla Corte di Cassazione, di evitare irragionevoli sanzioni di inammissibilità del ricorso introduttivo, limitandole ai soli casi nei quali il rigore estremo del provvedimento di inammissibilità risulti davvero giustificato (cfr., Cass. civ., 21 ottobre 2013, n. 23719, Cass. civ., 2 novembre 2011, n. 4315, Cass. civ., 31 ottobre 2005, n. 21170).
Il principio di non contestazione e il giudizio equitativo del giudice Nella sentenza in commento, particolare attenzione merita il ricorso del giudice all'equità giudiziale per la decisione nel merito della controversia. A tale proposito, deve preliminarmente osservarsi che, da un lato, l'Agenzia delle Dogane non aveva contestato l'esistenza, a monte, di un credito a favore del contribuente. Dall'altro lato, però, aveva dichiarato di non poter procedere al rimborso del credito per la mancanza di una prova rigorosa dei consumi di energia assunti a base della richiesta di rimborso.
Con riferimento alla mancata contestazione dell'esistenza del credito vantato in giudizio dalla società (v. art. 115, c.p.c.), deve osservarsi che nel processo tributario l'applicazione del principio di non contestazione è da ritenere oramai consolidata (cfr., ex multis, Cass. civ.,sez. trib., 17 febbraio 2016, n. 3123). La ratio del principio va ricercata, infatti, nelle esigenze di economia e di semplificazione del processo che presiedono anche quello tributario. Il principio di non contestazione, invero, trova rilievo costituzionale nella ragionevole durata del processo (art. 111 Cost.), applicabile anche al processo tributario, e deve intendersi come monito per il giudice e invito alle parti ad una collaborazione al fine di ottenere, ove possibile, la rapida individuazione della materia controversa. Per il giudice (anche tributario), il principio di non contestazione rappresenta quindi lo strumento per decidere senza necessità di ricorrere all'istruzione probatoria sul fatto non contestato, per volontà della parte onerata che, liberamente, vincola il giudice a tener conto di quanto non contestato per convincersi della sua esistenza.
Precisato quanto sopra, nella sentenza in esame è quindi condivisibile la premessa del giudice di ritenere certa l'esistenza del credito del contribuente (perché non contestata), per poi procedere alla doverosa valutazione estimativa del credito stesso. Invero, sotto quest'ultimo profilo, per la giurisprudenza di legittimità ”l'impugnazione davanti al giudice tributario attribuisce a quest'ultimo la cognizione non solo dell'atto, come nelle ipotesi di "impugnazione-annullamento", orientate unicamente all'eliminazione dell'atto, ma anche del rapporto tributario, trattandosi di una cd. "impugnazione-merito", perché diretta alla pronuncia di una decisione di merito sostitutiva (nella specie) dell'accertamento dell'Amministrazione Finanziaria, implicante per esso giudice di quantificare la pretesa tributaria entro i limiti posti dalle domande di parte; ne consegue che il giudice che ritenga invalido l'avviso di accertamento non per motivi formali, ma di carattere sostanziale, non deve limitarsi ad annullare l'atto impositivo, ma deve esaminare nel merito la pretesa tributaria, e, operando una motivata valutazione sostitutiva, eventualmente ricondurla alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte (cfr. Cass. civ. n. 3309/2004, Cass. civ. n. 28770/2005, Cass. civ., n. 614/2006”. Così, Cass. civ., 8 gennaio 2015, n. 106.
Riguardo, infine, alla valutazione sostitutiva del giudice, beninteso nei limiti posti dalle parti, nella sentenza in esame i giudici di appello hanno fatto ricorso all'equità giudiziale di cui agli artt. 1226 e 2056 c.c.. Sul punto, la sentenza appare ancora condivisibile. Anche nel processo tributario, infatti, la valutazione degli elementi probatori è un'attività istituzionalmente riservata al giudice di merito. L'apprezzamento equitativo di tali elementi, per giungere ad un giudizio di stima, rientra nei poteri conferiti al giudice dagli articoli 115 e 116 del c.p.c., sicché, per la giurisprudenza di legittimità, il conclusivo giudizio estimativo che ne consegue non è riconducibile all'equità “c.d. sostitutiva” che, viceversa, è ammessa nei soli casi previsti dalla legge e attribuisce al giudice il potere di prescindere nella fattispecie dal diritto positivo. Tali principi, che nella decisione in esame sono tratti dai giudici in via analogica dalla sentenza della Suprema Corte, n. 20990/2011, in ambito tributario trovano conferma in plurimi interventi della Sezione specializzata (cfr. Cass. civ., sez. trib., 4 novembre 2015, n. 25707; Cass. civ., sez. trib., 24 febbraio 2010, n. 442, Cass. civ., sez. trib., 21 novembre 2005, n. 24520).
La sentenza in esame, quindi, deve condividersi perché i giudici non hanno derogato alle regole di giudizio secondo diritto. Sul piano della prova, infatti, essi hanno stimato il credito con ragionevole approssimazione, giungendo ad un valore che non poteva essere accertato in modo puntuale. La soluzione è senza dubbio ragionevole anche sul piano concreto e del buon senso, perché evita l'assurda conseguenza di non riconoscere alcun rimborso, seppure ne sia certo il diritto, per il sol fatto che non è possibile provare analiticamente il quantum.
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