Dal concetto di “fittizietà” a quello di ”inesistenza” nel reato di dichiarazione infedele

27 Settembre 2017

Con la pubblicazione del D.Lgs. n. 158/2015, che riforma il sistema sanzionatorio penale tributario, si è inteso modificare profondamente il previgente delitto di dichiarazione infedele, riducendone sensibilmente l'ambito di applicazione. L'Autore di seguito esaminerà accuratamente il reato in questione dopo l'entrata in vigore del D.Lgs. n. 158/2015.
Massima

Il fatto tipico, precisato nel modello legale del reato di dichiarazione infedele dei redditi di cui all'art. 4 del D. Lgs. n. 74/2000, come delineato a seguito delle modifiche introdotte dall'art. 4, comma 1, lett. a), del D.Lgs. n. 158/2015, deve ritenersi integrato dalla presenza alternativa di elementi positivi della condotta punibile – quali: l'annotazione di componenti positivi del reddito per ammontare inferiore a quello reale; l'indebita riduzione dell'imponibile tramite l'indicazione nella dichiarazione di costi inesistenti (non più fittizi); la sottofatturazione, ovvero l'indicazione in fattura di un importo inferiore a quello reale – oltre che dalla presenza di elementi negativi, nel senso che la divergenza tra gli importi indicati in dichiarazione e quelli effettivamente percepiti non sia il frutto della violazione della regola cronologica relativa all'esercizio di competenza o della non inerenza.

Il caso

Premessa

Con la pubblicazione del D. Lgs. n. 158/2015, che riforma il sistema sanzionatorio penale tributario, si è inteso modificare profondamente il previgente delitto di dichiarazione infedele, riducendone sensibilmente l'ambito di applicazione.

In questa direzione, del resto, si era orientato anche il testo che, tra i cinque decreti legislativi approvati in attuazione della Legge delega n. 23/2014, contiene la consistente revisione del sistema penale tributario, posta in essere con l'obiettivo espresso “[…] di meglio correlare, nel rispetto del principio di proporzionalità, le sanzioni all'effettiva gravità dei comportamenti […]”.

D'altra parte, proprio il tema della “effettiva gravità dei comportamenti aveva da tempo animato il dibattito in dottrina e ciò per una serie di ragioni che spaziavano dalla disputa circa il significato da attribuire all'aggettivo “fittizi”, riferito ai “costi” portati in deduzione, sino alla possibilità di qualificare come “infedeli”, quindi oggetto della disposizione penale, anche le dichiarazioni correlate a condotte solo elusive della normativa tributaria.

I contrasti appena accennati sull'interpretazione e sulla portata applicativa della norma penale, tuttavia, non avevano condizionato, soprattutto in campo giurisprudenziale, l'opinione prevalente che, attestata su posizioni di rigore, riteneva applicabile la norma penale non solo ai casi più evidenti di occultamento di beni o redditi o di deduzione di costi inesistenti in rerum natura, ma anche a quelli, certamente meno gravi, connessi alla sola valutazione formale delle regole dell'ordinamento tributario.

Analoghe ragioni, inoltre, erano poste a sostegno della rilevanza penale dell'elusione fiscale, dal momento che si riteneva che le condotte di malizioso aggiramento del presupposto impositivo, per quanto, sul piano formale, riferite a operazioni finanziarie e negoziali realmente esistenti, meritassero la sanzione penale se lesive di specifiche norme antielusive desumibili dall'ordinamento tributario.

Ben si comprende allora per quale motivo il dibattito, durante i lavori preparatori, oscillasse tra posizioni più radicali, che auspicavano la cancellazione della norma, e posizioni più conservative che miravano a limitare la rilevanza penale della norma ai soli fatti realmente lesivi dell'interesse protetto.

Il risultato che ne è conseguito appare come un giusto compromesso tra l'esigenza di rispettare i principi di frammentarietà, sussidiarietà ed offensività della norma penale e la opposta necessità di non abbandonare totalmente l'opzione penale in un settore dove è ampio il margine di manovra da parte dei contribuenti.

Ebbene, è l'art. 8 co. 1 della delega fiscale a precisare minuziosamente le intenzioni del legislatore e a tratteggiare i confini dell'intervento di riforma che appaiono poi tradursi, all'interno del Titolo I del decreto legislativo approvato, nella generale riduzione della latitudine dell'intervento della sanzione penale a beneficio di quella amministrativa.

I principi e i criteri direttivi risultano di immediata chiarezza: l'area di intervento della sanzione penale dev'essere limitata alle ipotesi caratterizzate da “un particolare disvalore giuridico, le quali si concretizzano in “comportamenti artificiosi, fraudolenti e simulatori, oggettivamente o soggettivamente inesistenti, ritenuti insidiosi rispetto all'attività di controllo”.

Le nuove maglie della disciplina del sistema sanzionatorio in materia tributaria s'inseriscono, dunque, all'interno della trama già cucita dal sistema vigente contenuto nel D.Lgs. n. 74/2000 e la rimodellano ed arricchiscono con nuovi dettagli.

Si assiste, per un verso, alla generale riduzione dell'area di rilevanza penale di alcune fattispecie, specialmente per mezzo della rimodulazione, oltre che della soppressione, di alcune ipotesi di punibilità; per altro verso alla modifica della stessa struttura di quegli illeciti il cui fulcro fondamentale è rappresentato da operazioni simulate e dall'uso di mezzi fraudolenti.

In ordine a quest'ultima categoria di delitti, in particolare, sono quelli di infedeltà nella dichiarazione a manifestare alcuni dei più evidenti segni della riforma intervenuta e ad essere stati oggetto di significativa ridefinizione: una delle novità più rilevanti introdotte dal legislatore è costituita infatti dall'esclusione della rilevanza penale delle non corrette classificazioni e valutazioni di elementi attivi e passivi esistenti “rispetto ai quali i criteri concretamente applicati siano stati comunque indicati nel bilancio, ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali”, degli elementi attivi connessi alla sola violazione dei criteri di determinazione dell'esercizio di competenza ed, infine, degli elementi passivi reali ritenuti “non inerenti” o “non deducibili” secondo le regole tributarie (commi 1-bis e 1-ter).

Come appare evidente dalle modifiche testé citate, la sfera di applicazione della norma penale risulta quindi fortemente ridimensionata, non solo per l'innalzamento della soglia quantitativa, ma soprattutto per l'irrilevanza penale dei costi dedotti violando le regole ed i principi dell'ordinamento tributario, anche se realmente sostenuti dal contribuente. Scelta quest'ultima volta a tutelare il contribuente da possibili arbitri dell'amministrazione finanziaria nell'interpretazione della norma tributaria; ed è proprio in tale contesto che s'inserisce la pronuncia in commento.

Il caso

Con ordinanza del 12 settembre 2016, il Tribunale di Brindisi, in funzione di Giudice dell'Esecuzione, rigettava la richiesta di revoca proposta, ai sensi dell'art. 673 c.p.p., da un contribuente, per intervenuta parziale abolitio criminis del delitto di cui all'art. 4 del D.Lgs. n. 74/2000, nella parte riferibile alla violazione dei principi di inerenza e di competenza, in relazione alla sentenza n. 176 del 2010 emessa dal Tribunale di Brindisi, Sezione Distaccata di Ostuni e divenuta irrevocabile in data 27 marzo 2013, con la quale si era visto condannare per il reato di dichiarazione infedele, in quanto, quale amministratore unico e legale rappresentante di una società a responsabilità limitata, al fine di evadere le imposte sui redditi, non indicava, relativamente alla dichiarazione dei redditi d'imposta dell'anno 2004, elementi attivi per un ammontare complessivo di circa nove milioni di euro, in tal modo evadendo la relativa imposta, nonché l'ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti risultando superiore al 10% dell'ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione.

In particolare, con tale richiesta di revoca, il contribuente sottolineava come la vicenda sottesa avesse da sempre riguardato la presunta violazione dei principi di competenza.

Invero, per un verso, anche il giudice di primo grado, facendo proprie le conclusioni di un perito nominato nel corso del dibattimento, aveva concluso che, mentre l'imputazione dei ricavi operata dalla società in questione era stata effettuata in modo corretto, i costi rilevati, invece, non sempre avevano tenuto pedissequamente conto della normativa tributaria, in violazione del principio di competenza, determinando così un vantaggio fiscale dovuto ad uno sgravio previsto per l'annualità 2003, cui erano stati imputati ricavi e costi che avrebbero dovuto essere invece imputati all'esercizio 2004; per altro verso, nella stessa sentenza, era stata negata la ricorrenza della particolare ipotesi di non punibilità prevista all'art. 7 del D.Lgs. n. 74/2000 (che prevedeva la non punibilità laddove le rilevazioni nelle scritture contabili e nel bilancio fossero eseguite in violazione dei criteri di determinazione dell'esercizio di competenza ma sulla base di metodi costanti di impostazione contabile), solo perché non era stata provata la circostanza dell'applicazione di metodi costanti di impostazione contabile, certamente non desumibile da un accertamento a campione.

Stando così le cose, il fatto commesso dal ricorrente poteva essere considerato un caso di dichiarazione infedele (realizzata attraverso un abuso del diritto tributario che aveva prodotto vantaggi fiscali dovuti all'imputazione di costi e ricavi ad una annualità piuttosto che ad un'altra), da ritenersi interessato dall'abolitio criminis parziale del delitto ex art. 4 del D. Lgs. n. 74/2000 intervenuta con la recente riforma tributaria di cui al D.Lgs. n. 158 del 24 settembre 2015.

Difatti, il nuovo comma 1-bis del medesimo articolo prevede ora che, ai fini della configurabilità del reato in questione, non si debba più tener conto "[…] della non corretta classificazione, della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati in bilancio o in altra documentazione rilevante ai fini fiscali, della violazione dei criteri di determinazione dell'esercizio di competenza, della non inerenza di elementi passivi reali, della non deducibilità di elementi passivi reali […]".

Sul punto, il giudice dell'esecuzione ha tuttavia osservato come la modifica legislativa invocata dall'interessato ponesse il problema della corretta lettura dei canoni successori in materia di norme penali, occorrendo stabilire, nel caso di specie, se si fosse di fronte ad una ipotesi di continuità normativa, regolata dall'art. 2, comma 4, cod.pen. con conseguente applicazione della disciplina più favorevole, salvo il limite della pronuncia di sentenza irrevocabile, ovvero ad un caso di vera e propria abolitio criminis, soggetto alla previsione di cui al comma 2 del citato articolo, capace di travolgere il giudicato di condanna attraverso il meccanismo processuale dettato dall'art. 673 c.p.p., come appunto richiesto dal ricorrente.

Ebbene, valorizzando il fatto che la condotta per la quale era intervenuta la condanna irrevocabile non era stata unicamente quella posta in essere in violazione dei criteri di determinazione dell'esercizio di competenza, ma si trattava di una condotta diversificata su atti e documenti falsi o inesistenti, prossima, dunque, ad una vera e propria dichiarazione fraudolenta, consistita, tra l'altro, più nell'aver indicato in dichiarazione elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo, che nell'aver indicato in dichiarazione elementi passivi "fittizi" (termine successivamente abrogato e sostituito con il termine "inesistenti", per cui, ove così fosse stato, si sarebbe posto il problema di interpretare il senso di tale modifica e di individuare la differenza di contenuto fra elementi passivi fittizi ed elementi passivi inesistenti), il giudice dell'esecuzione concludeva per l'insussistenza di un caso di abolitio criminis, scorgendo una totale continuità normativa nella disciplina del reato di dichiarazione infedele, la cui struttura sarebbe rimasta inalterata anche dopo la citata modifica legislativa.

Peraltro, secondo il giudice dell'esecuzione, anche qualora si fosse trattato di una condotta risoltasi nella mera violazione dei criteri di determinazione dell'esercizio di competenza, avrebbe dovuto comunque trovare applicazione l'art. 2 comma 4 c.p. (che sancisce l'intangibilità del giudicato), vertendosi ad ogni modo in un'ipotesi di continuità punitiva.

Infatti, mentre l'art. 2 comma 2 c.p., che consente il ricorso all'art. 673 c.p.p., richiede che la novazione legislativa investa il tipo di reato, abrogando il precetto penale per il quale il comportamento, all'epoca del fatto, costituiva reato, per l'applicazione dell'art. 2 comma 4 c.p., che fa salvi gli effetti della sentenza irrevocabile di condanna, è sufficiente anche solo una diversa disciplina del fatto che non inerisca alla struttura del reato.

Il giudice dell'esecuzione ha quindi concluso nel senso che il nuovo testo normativo, lasciando immutata la struttura della condotta e la struttura del reato, abbia esclusivamente modificato i limiti della causa di non punibilità prima prevista dall'art. 7 (il quale stabiliva, fra le altre cose, la non punibilità dei fatti di cui agli artt. 3 e 4 del D.Lgs. n. 74/2000 nel caso di rilevazioni, nelle scritture contabili e nel bilancio, eseguite in violazione dei criteri di determinazione dell'esercizio di competenza, ma sulla base di metodi costanti di impostazione contabile), così comportando soltanto una diversa disciplina del fatto che non inerisce alla struttura del reato e che rende quindi doveroso applicare la disposizione di cui all'art. 2 comma 4 c.p., che fa salvi gli effetti della sentenza irrevocabile di condanna.

Avverso la sovra menzionata ordinanza, il contribuente, a mezzo del proprio difensore, proponeva allora ricorso per Cassazione, articolando un unico complesso motivo di gravame, con il quale veniva dedotta l'erronea applicazione degli artt. 673 c.p.p. e 2, comma 2, cod. pen., in relazione al mancato riconoscimento della parziale abolitio criminis del delitto previsto e punito dall'art. 4 del D.Lgs. n. 74/2000, per effetto delle modifiche introdotte dai D. Lgs. nn. 158 e 128 del 2015.

Invero, riguardo alla sopravvenuta irrilevanza penale della violazione dei criteri dell'esercizio di competenza (che si colloca nel solco di una visione legislativa di favore in relazione a valori corrispondenti a non corrette valutazioni secondo i parametri tributari di elementi attivi e passivi, purché oggettivamente esistenti e nella misura in cui esse esistano in rerum natura), il ricorrente evidenziava come nell'indagine sulla continuità normativa rispetto a pregresse incriminazioni si dovesse tener conto che la stessa non è più subordinata al collegamento con metodi costanti di impostazione contabile, come invece previsto dall'abrogato art. 7, ma è generalizzata, con la conseguenza che la trasgressione ai precetti di cui all'art. 109 TUIR (ivi incluso quello riferito alla indeducibilità di cui al suo comma 4) non avrebbe più rilievo penale purché risulti la reale esistenza delle componenti negative.

Lo stesso discorso varrebbe per la non inerenza (art. 109, comma 5, TUIR) che può indurre la rilevanza ai fini dell'art. 4 di costi reali, non inerenti pur se commessi con fatti di reato realizzati dal contribuente.

Ad avviso del ricorrente, si sarebbe giunti dunque ad una "liceizzazione" agli effetti penali di tutti quei comportamenti fiscali concernenti la classificazione, la competenza, l'inerenza e la deducibilità, con quanto consegue in termini di abolitio criminis delle relative condotte.

Richiamando la giurisprudenza di legittimità, il ricorrente infine obiettava che al giudice dell'esecuzione, nel caso di abrogazione parziale di una norma incriminatrice, non è consentita la completa rivisitazione del giudizio di merito o anche l'esecuzione di accertamenti ulteriori, al fine di stabilire se il fatto per il quale era stata pronunciata condanna costituisca o meno reato, ma deve limitarsi ad interpretare il giudicato e, quindi, ad accertare se nella contestazione fatta all'imputato risultano anche tutti gli elementi costituenti la nuova categoria dell'illecito. Un diverso procedere comporterebbe un vietato riesame del giudizio di merito, non essendo consentito al giudice dell'esecuzione di modificare l'originaria imputazione o di accertare il fatto-reato difformemente da quanto ritenuto dalla sentenza passata in giudicato (ad esempio, nel caso di specie, riconducendolo sotto l'ambito di applicazione dell'art. 3).

La questione

Ora, alla luce di quanto sopra, è evidente come l'interpretazione delle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 158/2015 in relazione al delitto di cui all'art. 4 del D.Lgs. n. 74/2000, assuma un ruolo fondamentale per comprendere se la nuova formulazione abbia modificato aspetti accidentali dell'incriminazione, restando il fatto tipico all'interno del perimetro disegnato tanto dalla vecchia quanto dalla nuova fattispecie incriminatrice, oppure, incidendo sul fatto tipico, abbia eventualmente ritagliato una porzione di fatto eliminandone la rilevanza penale, in termini di tipicità della condotta astrattamente punibile.

La questione, invero, è centrale per l'applicazione di questa fattispecie, tenendo conto che, in quest'ultimo caso, in applicazione dell'art. 2, comma 2 c.p., tutti coloro che abbiano riportato una condanna irrevocabile per dichiarazione infedele sul presupposto di una non corretta deduzione di costi pur ontologicamente esistenti, e dedotti in mera violazione dei criteri di competenza o di inerenza, avrebbero titolo per chiedere al giudice dell'esecuzione la revoca della propria sentenza di condanna, aprendosi la strada ad una pioggia di incidenti d'esecuzione ex art. 673 c.p.p.

Le soluzioni giuridiche

Ebbene, con la pronuncia in esame, la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione, dapprima, si preoccupa di ribadire come al giudice dell'esecuzione, nell'interpretazione del giudicato, sia preclusa ogni rivisitazione del giudizio di merito o disposizione di ulteriori accertamenti, non potendosi spingere a considerare, al fine di ritenerli rilevanti, comportamenti fraudolenti non richiesti per l'astratta integrazione né della fattispecie incriminatrice ratione temporis vigente (la quale esigeva peraltro, nel caso de quo, la fittizietà, non anche la fraudolenza, e limitatamente agli elementi passivi), né per l'integrazione della fattispecie sopravvenuta (che, per gli elementi passivi, non richiede più la fittizietà ma esclusivamente l'inesistenza).

In secondo luogo, chiarisce che per stabilire quando, nel caso di successioni di leggi penali nel tempo, il fenomeno successorio si risolva in una parziale abolitio criminis, governata dal principio declinato dall'art. 2, comma 2 c.p. con conseguente frantumazione del giudicato di condanna, o piuttosto comporti una piena continuità normativa, disciplinata dal comma 4 del medesimo articolo, preclusiva di qualsiasi contaminazione delle sentenze irrevocabili di condanna, occorre condurre un confronto strutturale tra le fattispecie succedutesi nel tempo, all'esito del quale dovrà applicarsi l'art. 2 comma 4 c.p., solo se i fatti commessi sotto il vigore della precedente legge rientrino anche nella previsione della disciplina sopravvenuta.

Poste tali premesse, applicando i principi di diritto appena richiamati, ne consegue che il giudice dell'esecuzione, richiesto della revoca della sentenza di condanna per asserita abrogazione della norma penale incriminatrice in seguito ad una successione di leggi modificative del precetto, deve innanzitutto confrontare la struttura della vecchia incriminazione rispetto alla nuova, poi deve valutare il fatto contestato e riconosciuto in sentenza ed infine deve raffrontarlo con gli elementi nuovi e specializzanti della legge successiva, senza poter rivisitare il giudizio di merito (cfr. Cass. pen., ss.uu., n. 24468 del 26 febbraio 2009). Il giudice dell'esecuzione, per stabilire la portata del fenomeno successorio, avrebbe quindi dovuto porre a confronto la vecchia e la nuova fattispecie incriminatrice e non limitarsi, come affermano i giudici di legittimità, a valutare il fatto concreto.

Passando allora al confronto tra le fattispecie incriminatrici, la Suprema Corte non perde occasione per sottolineare come, a seguito delle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 158/2015, sia stata ridisegnata la fattispecie tipica del delitto di dichiarazione infedele, giacché la condotta punibile, risolvendosi in falsità ideologiche prive di qualsiasi connotato fraudolento, si materializza ora:

(i) nell'annotazione di componenti positivi del reddito per ammontare inferiore a quello reale (in sostanza, l'omessa annotazione di ricavi);

(ii) nell'indebita riduzione dell'imponibile tramite l'indicazione nella dichiarazione di costi inesistenti (e non più fittizi), ossia di componenti negativi del reddito mai venuti ad esistenza in rerum natura;

(iii) ed infine nelle sottofatturazioni, ovvero nell'indicazione in fattura di un importo inferiore a quello reale, in maniera da consentire all'emittente il conseguimento di ricavi non dichiarati, atteso che il delitto di infedele dichiarazione aveva ed ha natura residuale rispetto ai delitti di cui al D.Lgs. n. 74/2000, artt. 2 e 3.

Di particolare rilievo, per quanto qui interessa, è il testuale riconoscimento dell'estraneità dal fatto tipico delle violazioni dei criteri di determinazione dell'esercizio di competenza, ora non più subordinate, come invece disponeva l'abrogato art. 7 del D.Lgs. n. 74/2000, alla loro derivazione da metodi costanti di impostazione contabile, con un intervento novellistico che ha inciso direttamente sulla struttura del reato polverizzando la precedente causa di non punibilità, ora abrogata, e non riproducendone, come invece ha ritenuto il giudice dell'esecuzione, un'altra sia pure diversamente modellata.

Invero, dalla tipicità del fatto di reato, è eccettuata, essendone stata ritagliata una porzione, la divergenza tra gli importi indicati in dichiarazione e quelli effettivamente percepiti (elementi attivi per un importo inferiore a quello effettivo), quando la discrasia sia frutto della violazione della regola cronologica relativa all'esercizio di competenza o della non inerenza ma l'elemento attivo, seppur impropriamente collocato nel tempo, sia reale e ontologicamente esistente, ossia riconoscibile in rerum natura, il che vale, come anticipato, per gli elementi attivi perché, quanto a quelli passivi, è sufficiente la loro esistenza per escludere la tipicità.

Il fatto tipico, precisato nel modello legale del reato di infedele dichiarazione dei redditi, deve perciò ritenersi integrato dalla presenza di elementi positivi della condotta punibile, ossia dalla indicazione nella dichiarazione di ricavi per un ammontare inferiore a quello effettivo, anche con il ricorso alla tecnica della sottofatturazione, o dalla indicazione di costi inesistenti (non più fittizi), con conseguente superamento della soglia di punibilità, e (in aggiunta) dalla contemporanea mancanza di elementi negativi della condotta delittuosa, in quanto rientranti anche essi (sia pure in negativo) nella dimensione della tipicità (nel senso cioè che i ricavi omessi non devono essere stati anticipati o posticipati rispetto all'esercizio di competenza, risolvendosi in ciò, anche alla stregua di elementi negativi del fatto di reato, l'intera condotta punibile).

La conseguenza di tutto ciò è che, abrogato il predetto art. 7 ed introdotto l'art. 4, comma 1-bis, il fatto tipico non è integrato se, al cospetto di tutti gli altri elementi (dolo specifico di evasione e superamento delle soglie di punibilità), la condotta sia stata realizzata in violazione dei criteri di competenza, inerenza ed indeducibilità, tali da escludere, ormai per presunzione legislativa, ogni capacità decettiva della condotta dell'agente, ritenendosi l'erario in grado, nelle ipotesi indicate nell'art. 4, comma 1-bis, di recuperare l'imposta, applicando le sole sanzioni amministrative, cosicché la immutatio veri perde di significato ai fini del disvalore penale del fatto e, quindi, ai fini della lesività della condotta.

Sulla base di tali principi, la Cassazione ha pertanto annullato senza rinvio l'ordinanza impugnata, conseguendo da ciò la revoca della sentenza di primo grado, confermata dalla Corte di Appello di Lecce il 15 novembre 2011 e divenuta irrevocabile il 27 marzo 2013, perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato.

Osservazioni

Si è già detto in premessa come, in una prospettiva di globale rivisitazione della materia lato sensusanzionatoria tributaria”, il legislatore della riforma abbia profondamente inciso sul delitto di dichiarazione infedele contemplato dall'art. 4 del D.Lgs. n. 74/2000, risolvendo definitivamente il dubbio interpretativo legato alla portata dell'aggettivo “fittizi” attribuito ai costi indicati in dichiarazione e posti in deduzione dal contribuente.

Nel sistema previgente, infatti, si confrontavano due scuole di pensiero radicalmente opposte:

  1. la prima, argomentando dalla definizione di inesistenza dell'operazione, interpretava la fittizietà come inesistenzain natura” del costo, in quanto mai sostenuto dal contribuente (così, ad esempio, Musco E., Ardito F., Caraccioli I.), per cui si riteneva che dessero luogo a componenti passive fittizie solamente quelle annotazioni di costi relativi ad operazioni non realmente intervenute nella realtà fenomenica dei fatti;
  2. la seconda, invece, equiparava la fittizietà alla categoria generale della non deducibilità, e per tale via considerava tali i costi (o le spese) annotati in violazione dei principi e delle regole dell'ordinamento tributario (così, in dottrina, Martini A., Di Amato A., Pisano R.; nonché la giurisprudenza prevalente - si veda, ex multis, Cass. pen., sez. III, n. 3203 del 26 novembre 2008 -, la quale era giunta a sanzionare penalmente comportamenti anche solo meramente elusivi e nei confronti dei quali la stessa disciplina tributaria - cfr. art. 37-bis, co. 2, del d.P.R. n. 600/1973 - si limitava a disconoscere i vantaggi fiscali conseguiti dai negozi realizzati dal contribuente, senza che neppure venisse meno la validità degli stessi. Inoltre, sulla scia di tale interpretazione estensiva del concetto di costi fittizi, il Comando Generale della Guardia di Finanza aveva diramato due Circolari, la n. 114000 del 14 aprile 2000 e la n. 1/2008, in cui si definivano fittizi e penalmente rilevanti tutti i costi posti in deduzione in violazione dei precetti normativi tributari; concetto ribadito anche nel Protocollo di intesa sottoscritto tra la Procura della Repubblica di Trento e la Direzione territoriale dell'Agenzia delle Entrate del 25 ottobre 2000).

Pertanto, ben si comprende l'importanza di definire con certezza la latitudine della nozione di fittizietà che si intendeva accogliere all'interno del sistema penale tributario: una lettura estremamente restrittiva di tale connotato, infatti, apriva le porte a facili escamotages che comportavano la fuoriuscita dalla repressione penale di molteplici forme di evasione particolarmente "oculata", estrinsecantesi in gonfiamenti di costi calibrati in modo da sfuggire alle larghe maglie di una asfittica nozione di "fittizio"; per contro, una nozione di "fittizio", definita da alcuni "pantributaristica", rischiava di pietrificare l'attività dei maggiori contribuenti, intimoriti da un concetto di "fittizietà" capace di sussumere tutto ciò che non fosse fiscalmente deducibile.

Ciò aveva dilatato enormemente i confini della fattispecie di dichiarazione infedele, determinando un'applicazione della norma anche a quei casi opinabili in cui si poteva contestare il corretto uso della norma tributaria, e di conseguenza “una sorta di rischio penale a carico del contribuente correlato agli ampi margini di opinabilità ed incertezza” che caratterizzano la norma. La relazione illustrativa al D.Lgs. n. 158/2015 sottolinea come questo rischio possa essere foriero di conseguenze pregiudizievoli anche in termini macroeconomici, potendosi tradurre in un disincentivo alla allocazione delle imprese nel territorio italiano, stante la prospettiva che una semplice divergenza di vedute tra contribuente e organi dell'accertamento fiscale in ordine agli esiti delle operazioni valutative porta con inesorabile automatismo all'avvio di un procedimento penale.

La riforma dell'art. 4 ad opera del D. Lgs. n. 158/2015 testimonia la scelta del Legislatore di ridisegnare i confini tra l'illecito penale e l'illecito tributario a scapito del primo: il risultato è stato ottenuto sostituendo il richiamo alla fittizietà dei costi con quello all'inesistenza, sicché rileveranno solo i costi mai sostenuti in rerum natura, mentre risulteranno atipici i costi effettivamente sostenuti, anche se non inerenti o non deducibili.

Si tratta di un intervento rivoluzionario, che, se esclude la punibilità del costo reale non inerente od indeducibile ai fini del reato di dichiarazione infedele, lascia aperti altri spazi in relazione ad altre fattispecie, quale ad esempio il reato di falso in bilancio, con il risultato paradossale che, a ben vedere, l'intento di ridurre l'area penalmente rilevante della dichiarazione infedele, con la riforma del 2015, viene in realtà annullato dai riflessi che i costi reali non inerenti mantengono sul reato di falso in bilancio.

Come prontamente osservato in dottrina, resta poi da chiarire meglio la portata di quei fatti materiali caratterizzati da un utilizzo spregiudicato della regola della non inerenza, così come disciplinata dal comma 5 dell'art. 109 TUIR. Quid iuris, nei casi in cui il costo, anche se effettivamente sostenuto dal contribuente, sia stato dichiarato inerente a seguito della produzione di documenti recanti causali ed altre indicazioni vaghe e generiche, se non ideologicamente false? In tali casi, è ancora possibile affermare la sola violazione formale della norma tributaria?

L'analisi attenta delle concrete modalità della condotta, potrebbe essere di ausilio almeno nei casi macroscopici: un falso ideologico in una fattura o in un documento rilevante ai fini fiscali, potrebbe certamente far ipotizzare i più gravi reati previsti dagli artt. 2 e 3, come pure l'allegazione di una causale palesemente estranea o avulsa dall'esercizio di un'impresa potrebbe a ben vedere rendere inesistente quel costo così come dichiarato e dedotto dal contribuente. Ad ogni modo, se l'esposizione dei costi “non inerenti” (ma lo stesso potrebbe dirsi per tutti gli altri costi “non deducibili”) è realizzata con modalità fraudolente non v'è dubbio che si possa configurare il più grave reato di frode fiscale ex art. 3, D. Lgs. n. 74/2000 (in relazione al quale valgono le medesime considerazioni svolte sopra in termini di effetti sui giudicati già formatisi di cui all'art. 673 c.p.p., nel caso in cui la condotta concretamente attuata abbia ad oggetto, non già aspetti fattuali del comportamento ritenuto fittizio, ma soltanto problematiche giuridico-interpretative di dati fenomeni fiscalmente rilevanti).

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