L’overruling non si applica in tema di presupposti IRAP

28 Ottobre 2016

In linea generale e, dunque, anche in materia tributaria, affinché si possa parlare di "prospective overruling", devono ricorrere cumulativamente una serie di presupposti: a) innanzitutto che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza su di una regola del processo; b) che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del precedente indirizzo;c) ed infine che il suddetto overruling comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte.
Massima

In linea generale e, dunque, anche in materia tributaria, affinché si possa parlare di "prospective overruling", devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti: che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza su di una regola del processo; che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del precedente indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte ad un ragionevole affidamento su di esso; che il suddetto overruling comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte.

Di conseguenza il mutamento giurisprudenziale intervenuto in materia di presupposti per l'assoggettabilità ad IRAP non rappresenta un caso di overruling e non incide sui termini di decadenza dell'eventuale rimborso, da farsi decorrere al momento del versamento (dell'acconto) e non dalla pubblicazione della sentenza resa sulla questione di legittimità costituzionale.

Il caso

Il contenzioso trae origine dall'impugnazione, in pari data, del silenzio rifiuto formatosi in relazione a una istanza di rimborso dell'IRAP presentata dal contribuente il 19 maggio 2004 per l'annualità 1999 nonché in relazione ad altre istanze presentate per le annualità d'imposta dal 2000 al 2005.

Nell'ambito del giudizio avanti la Commissione tributaria provinciale, l'ufficio ha riconosciuto spettanti i rimborsi per le annualità dal 2000 al 2005, mentre ha eccepito l'inammissibilità dell'istanza per l'anno 1999 poiché presentata oltre il termine di quarantotto mesi dal versamento, previsto a pena di decadenza dall'art. 38 del d.P.R. n. 602/1973. Al termine del giudizio, la CTP ha dichiarato cessata la materia del contendere in relazione a tutte le annualità, avendo l'ufficio riconosciuto la spettanza del rimborso.

L'ufficio ha proposto appello in relazione all'annualità 1999 fondato sull'intervenuta decadenza, poi rigettato dalla CTR Bologna, con sentenza del 16 maggio 2014, sulla base del richiamo alla giurisprudenza della Corte di cassazione in tema di “overruling”.

In particolare, in questo caso, a parere del giudice di merito, il termine di decadenza di un diritto decorre dal momento in cui il contribuente è venuto a conoscenza di esserne titolare; pertanto, nel caso di specie, detto termine “decorre dalla data della sentenza n. 156 della Corte Costituzionale che ha reso palese al contribuente il fatto di non essere soggetto all'Irap”, con la conseguenza che l'istanza di rimborso era tempestiva all'epoca in cui la stessa era stata presentata.

La Cassazione, con la pronuncia in commento, ha ritenuto manifestamente fondato il ricorso presentato dall'Amministrazione finanziaria poiché le motivazioni espresse dal giudice di merito si pongono in contrasto con l'orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità in tema di “overruling” (cfr. Corte di cassazione, sezioni unite, sentenze 15144/2011 e 13676/2014; Cassazione civile, sez. VI-L, ordinanza n. 16132/2015).

Nel caso di specie, la CTR ha errato nel richiamare l'applicazione dell'overruling con riferimento all'affidamento che il contribuente avrebbe goduto, in epoca anteriore alla pronuncia della Corte costituzionale n. 156/2001, in ordine alla debenza dell'Irap, non sussistendone i presupposti.
Invero, nel caso specifico, non si è in presenza di mutamenti giurisprudenziali in ordine ad una questione processuale bensì si è trattato di una questione sostanziale (i presupposti per la debenza dell'IRAP) e, inoltre, “le sentenze interpretative di rigetto della Corte costituzionale … non hanno generale efficacia erga omnes nei confronti dei giudici diversi da quello a quo che ha sollevato la questione di legittimità costituzionale oggetto di tali sentenze”.

Infatti, le sentenze interpretative di rigetto, a differenza di quelle dichiarative dell'illegittimità costituzionale di norme, determinano solo un vincolo negativo per il giudice del procedimento in cui è stata sollevata la relativa questione, mentre in tutti gli altri casi il giudice conserva il potere-dovere di interpretare in piena autonomia le disposizioni di legge.

Tra l'altro, secondo la Cassazione, la sentenza n. 156/2001, in tema di soggettività passiva all'IRAP, ha respinto le numerose censure di incostituzionalità sollevate dai giudici rimettenti ma non si è trattato “... neppure una sentenza interpretativa di rigetto, poiché non ha condizionato la legittimità del provvedimento legislativo alla circostanza che lo stesso venga interpretato nei sensi resi palesi dalle motivazioni”.

Le questioni

Due sono le questioni di fondo trattate dalla pronuncia in commento.

Da una parte si è trattato di stabilire cosa si intende per overruling e a quali casistiche si applica.

Secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità si può parlare di prospective overruling nei seguenti casi:

a) deve esservi un mutamento della giurisprudenza su di una regola del processo; tale mutamento deve essere imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso;

b) l'"overruling" deve comportare un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte.

La conseguenza è che l'overruling non si applica in caso di mutamento interpretativo su una disposizione sostanziale, come, appunto la sussistenza dei presupposti per l'applicazione di un'imposta (nel caso di specie l'IRAP) o quelle relative ai termini (di prescrizione o decadenza) per l'esercizio del diritto alla ripetizione dell'indebito tributario.

Le soluzioni giuridiche

In via generale, gli effetti di una sentenza interpretativa della Corte di giustizia (come quelli delle pronunce della Corte costituzionale che dichiarano l'illegittimità di una norma) retroagiscono fino alla data di entrata in vigore della norma interpretata, salvo diversa previsione di decorrenza espressamente contenuta nella stessa pronuncia di illegittimità.

Tuttavia la giurisprudenza comunitaria ha da sempre riconosciuto tutela ai cd. rapporti esauriti scaturenti non solo da pronunce giurisdizionali passate in giudicato ma anche da provvedimenti amministrativi divenuti definitivi per scadenza del termine di impugnazione, in omaggio al principio della certezza delle situazioni giuridiche.

A tal proposito la Corte europea ha dapprima affermato che “il diritto comunitario non impone ad un giudice nazionale di disapplicare le norme processuali interne che attribuiscono autorità di cosa giudicata ad una decisione, anche quando ciò permetterebbe di accertare una violazione del diritto comunitario da parte di tale decisione” (citata sentenza 16 marzo 2006, causa C-234/04; cfr. 1° giugno 1999, causa C-126/97).

Nella sentenza del 13 gennaio 2004, causa C-453/2000, inoltre, la Corte ha affermato che “il carattere definitivo di una decisione amministrativa, acquisito alla scadenza di termini ragionevoli di ricorso o in seguito all'esaurimento dei mezzi di tutela giurisdizionale, contribuisce a tale certezza (del diritto, n.d.r.) e da ciò deriva che il diritto comunitario non esige che un organo amministrativo sia, in linea di principio, obbligato a riesaminare una decisione amministrativa che ha acquisito tale carattere definitivo”.

La definizione del perimetro dei cc.dd. rapporti esauriti è stata ulteriormente affinata dalla giurisprudenza di legittimità che vi ha ricompreso anche quelle situazioni divenute intangibili a seguito di “altri fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale, quali la prescrizione e la decadenza” (cfr. Cass. civ., n. 7057/1997 e Cass. civ., 891/1996).

Con specifico riferimento alla ripetizione di tributi riscossi in base a norme nazionali dichiarate incompatibili con il diritto comunitario, la Corte di giustizia ha sottolineato che “spetta all'ordinamento giuridico interno di ciascuno Stato membro designare i giudici competenti e stabilire le modalità procedurali dei ricorsi giurisdizionali intesi a garantire la tutela dei diritti spettanti ai singoli in forza delle norme di diritto comunitario, fermo restando che le dette modalità non possono essere meno favorevoli di quelle che riguardano ricorsi analoghi di natura interna né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico comunitario” (sentenza 15 settembre 1998, causa C-231/96; cfr. anche sentenza 17 novembre 1998, causa C-228/1996; sentenza 17 luglio 1997, cause riunite C-114/95 e C-115/95; sentenza 16 gennaio 2014, causa C-429/12).

In altri termini spetta al diritto interno dei singoli Stati fissare le modalità di restituzione dei tributi con l'unico limite del rispetto dei principi di ragionevolezza, uguaglianza e certezza dei rapporti giuridici (attraverso la previsione di termini di decadenza).

Il contrasto più acceso nell'ambito della giurisprudenza interna si è incentrato sulla decorrenza del termine per richiedere il rimborso dell'imposta versata in applicazione di una norma interna ritenuta successivamente in contrasto col diritto comunitario: sul punto la Cassazione, dapprima con sentenza n. 13087/2012, poi con sentenza Cass. civ., n. 13087/2012, ha stabilito che “in tema di rimborso delle imposte sui redditi, l'indebito tributario è soggetto ai termini di decadenza o prescrizione previsti dalle singole leggi di imposta, qualunque sia la ragione della non debenza…. La scadenza del termine per richiedere il rimborso determina il consolidamento dei rapporti di dare ed avere tra contribuente ed erario e l'esaurimento dello stesso rapporto tributario (v. Cass. civ., n. 9223/2011), con la conseguenza che il contenuto dello stesso non può più essere rimesso in discussione. Ne deriva che, anche le richieste di rimborso dei tributi incompatibili con la normativa comunitaria, devono essere presentate entro i termini di decadenza, termini che non contrastano con le disposizioni comunitarie”. Sulla base di tali argomentazioni veniva rigettata la richiesta di rimborso del contribuente in quanto la relativa istanza era stata presentata oltre 48 mesi dopo l'effettuazione delle ritenute.

A chiarire in modo definitivo la vicenda sono intervenute le ss.uu. della Cassazione che, con sentenza n. 13676/2014 (resa in tema di incentivo all'esodo dei lavoratori ma applicabile anche alla questione oggetto della commentata pronuncia), hanno aderito all'orientamento della giurisprudenza maggioritaria “nel senso della decorrenza del termine comunque dal giorno successivo al versamento poi rivelatosi indebito”.

Sul punto la sentenza ha ricordato che già in relazione al problema della decorrenza del termine decadenziale nel caso di ritardata trasposizione nell'ordinamento interno di direttiva comunitaria self executing, la Corte ha chiarito che “il principio posto dall'art. 2935 c.c., secondo cui la prescrizione “comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere” – il quale è da ritenersi applicabile anche alla decadenza – deve essere inteso con riferimento alla sola possibilità legale, non influendo sul decorso della prescrizione…l'impossibilità di fatto di agire in cui venga a trovarsi il titolare del diritto”.

Tra gli impedimenti di fatto va annoverato anche l'ostacolo all'esercizio di un diritto rappresentato dalla presenza di una norma costituzionalmente illegittima o incompatibile con il diritto comunitario: in questo caso chi si ritenga leso da tale limitazione ha il potere di percorrere la via dell'instaurazione di un giudizio in quanto “il contrasto tra la norma di diritto interno e quella comunitaria può essere rilevato direttamente dal giudice che, sulla base di tale premessa, è tenuto a non darle applicazione, anche quando sia stata emanata in epoca successiva a quella comunitaria” (cfr. Cass. civ., n. 10231/1998, Cass. civ., n. 7176/1999; cfr., anche, Cass. civ., n. 18276/2004).

Tali principi sono stati confermati, sulla base delle stesse ragioni, anche per le ipotesi in cui l'incompatibilità del diritto interno con il diritto comunitario sia stata dichiarata con sentenza della Corte di giustizia (cfr. Cass. civ., n. 4870/2012 e Cass. civ., n. 13087/2012).

Per quanto concerne l'overruling (consistente nel mutamento repentino e imprevedibile di un orientamento della giurisprudenza, rispetto a pregresse interpretazioni ritenute stabili e consolidate, che comporta la compressione del diritto di azione e di difesa della parte: si tratta quindi di un istituto con effetti tipicamente processuali), secondo la Cassazione (che ne ha escluso l'applicabilità alla fattispecie in esame), “Affinché un orientamento del giudice della nomofilachia (lo stesso principio vale per le pronunce del giudice comunitario) non sia retroattivo come, invece, dovrebbe essere in forza della natura formalmente dichiarativa degli enunciati giurisprudenziali devono ricorrere cumulativamente i seguenti presupposti: che si verta in materia di mutamento della giurisprudenza su di una regola del processo; che tale mutamento sia stato imprevedibile in ragione del carattere lungamente consolidato nel tempo del pregresso indirizzo, tale, cioè, da indurre la parte a un ragionevole affidamento su di esso; che il suddetto overruling comporti un effetto preclusivo del diritto di azione o di difesa della parte (Cass. civ. n. 28967/2011, Cass. civ. n. 6801/2012 e Cass. civ., n. 13087/2012, Cass. civ., n. 5962/2013 e Cass. civ. n. 20172/2013)”.

Nel caso affrontato dalle Sezioni Unite “la sentenza della Corte di giustizia non solo non è intervenuta (in malam partem, cioè con effetti preclusivi dell'esercizio del diritto) su norme di carattere processuale, ma neanche sulle disposizioni, di natura sostanziale, che qui interessano, relative ai termini (di prescrizione o decadenza) per l'esercizio del diritto alla ripetizione dell'indebito tributario, bensì, con effetto ampliativo, su una norma tributaria che riduceva illegittimamente la portata di un beneficio fiscale”. Ne consegue che, anche in omaggio al principio di certezza del diritto, non possono essere intaccati i rapporti “esauriti”.

Osservazioni

Assodata l'impossibilità di invocare l'overruling per spostare in avanti il termine iniziale di decadenza (per la richiesta di rimborsi di imposta), trattandosi di una questione di tipo sostanziale, va comunque verificato il rispetto dei principi comunitari, in particolare quello di effettività: ciò evidentemente quando si tratta di imposte unionali (come, ad esempio, l'IVA), mentre non vale per le imposte come quella di cui alla controversia in commento.

In base a tale principio, come declinato dalla Corte di Giustizia, i termini di decadenza devono essere tali da non rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti attribuiti dall'ordinamento giuridico dell'Unione: sul punto si veda Corte di Giustizia UE, 15 dicembre 2011, causa C-427/10, ove si è riconosciuta (punti 24-31) "la compatibilità con il diritto dell'Unione della fissazione di termini di ricorso ragionevoli a pena di decadenza, nell'interesse della certezza del diritto, che tutela al tempo stesso il contribuente e l'Amministrazione di cui trattasi". Infatti, termini del genere non sono tali da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dall'ordinamento giuridico dell'Unione. È quanto avviene, ad esempio, nel caso di un termine di prescrizione biennale, atteso che tale termine è, in linea di principio, idoneo a consentire a qualsiasi soggetto passivo normalmente diligente di far validamente valere i diritti attribuitigli dall'ordinamento giuridico dell'Unione.

Detta considerazione è valida anche relativamente ad un termine di decadenza di due anni nell'ambito del diritto al rimborso dell'IVA indebitamente versata all'Amministrazione finanziaria. La Corte ha altresì dichiarato che il principio di effettività è rispettato nel caso di un termine nazionale di prescrizione asseritamente più favorevole all'Amministrazione finanziaria rispetto al termine di prescrizione in vigore per i privati (sentenza 8 settembre 2011, cause riunite C-89/10 e C-96/10, Q-Beef e Bosschaert, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 42). Di conseguenza, la previsione di un termine di decadenza di due anni entro il quale il soggetto passivo può reclamare il rimborso dell'IVA versata a torto nei confronti dell'Amministrazione finanziaria, mentre il termine di prescrizione per le azioni di ripetizione dell'indebito oggettivo tra privati è decennale, non è di per sé contraria al principio di effettività.

Per le situazioni “patologiche”, la Corte ha dichiarato che, qualora il rimborso dell'IVA risultasse impossibile o eccessivamente difficile, gli Stati membri devono prevedere gli strumenti necessari per consentire al destinatario dei servizi di recuperare l'imposta indebitamente fatturata, in modo da rispettare il principio di effettività (sentenza Reemtsma Cigarettenfabriken, cit., punto 42).

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