Corrispettivo da vendita di partecipazioni: possibile la rettifica ai fini delle imposte dirette
01 Marzo 2017
Massima
Secondo la Corte di Cassazione, l'Agenzia delle Entrate non può generalmente rettificare il prezzo di cessione delle quote di una società, facendo riferimento all'anti-economicità dell'operazione, al valore normale dell'oggetto della vendita, ed all'abuso del diritto nell'effettuare il trasferimento. Nel caso in cui, però, il valore della vendita delle quote è nettamente inferiore rispetto a quello dei beni detenuti dalla società, gli Uffici sarebbero legittimati ad effettuare una rettifica ai fini delle imposte dirette, in quanto tale discrepanza costituirebbe una presunzione dell'occultamento di parte del corrispettivo. Il caso
Due persone fisiche hanno impugnato degli avvisi di accertamento, con i quali l'Agenzia delle Entrate ha contestato il prezzo di cessione delle quote di una società che deteneva i marchi di una nota “casa di moda”.
In particolare, la rettifica si è basata sul fatto che le contribuenti avevano proceduto al trasferimento, facendo riferimento al valore nominale delle partecipazioni. L'Ufficio, al contrario, dopo aver rinvenuto alcune perizie dei marchi che riportavano un valore di codesta proprietà intellettuale, unico “asset” della società, di importo nettamente superiore a quello di cessione, ha eccepito che il corrispettivo del trasferimento fosse bene diverso e superiore rispetto a quello dichiarato. Per tale motivo, ai fini delle imposte dirette, è stata ripresa a tassazione una maggiore plusvalenza. La Commissione Provinciale Tributaria di Firenze ha accolto il ricorso delle contribuenti, mentre quella Regionale della Toscana ha respinto l'appello dell'Agenzia delle Entrate, rimarcando l'insufficienza degli elementi adotti a sostegno della pretesa erariale. Infatti, secondo i giudici di secondo grado, l'Ufficio avrebbe semplicemente identificato il valore del marchio con quello della società, trascurando che le stime, redatte successivamente al trasferimento contestato, riguardavano i marchi dell'intero gruppo, dei quali la società trasferita era titolare solo della nuda proprietà. Per questi motivi, non sarebbe possibile presumere che le due cedenti abbiano intascato più di quanto dichiarato. In tale caso, l'onere della prova sarebbe da attribuire all'Agenzia delle Entrate e non alla parte contribuente, come sembrerebbe essere stato fatto negli avvisi di accertamento, considerato che è stato eccepito l'abuso del diritto.
La Suprema Corte, investita della controversia, pur ritenendo che, ai fini delle imposte dirette, il prezzo di cessione di partecipazioni da parte di persone fisiche non può essere rettificato dagli Uffici accertatori sulla base del valore normale, ha accolto il ricorso dell'Agenzia delle Entrate, sostenendo che ciò può essere effettuato quando vi sia una presunzione che l'intero corrispettivo non sia stato interamente dichiarato. La questione
La questione ha origine da una verifica effettuata dall'Agenzia delle Entrate sul valore di cessione di alcune quote di una srl, che deteneva alcuni marchi di moda. Dal momento che il corrispettivo è stato determinato, facendo riferimento al valore nominale e non a quello di mercato, i verificatori hanno eccepito, contemporaneamente, sia l'anti-economicità dell'operazione, sia l'abuso del diritto. La Corte di Cassazione ha, però, stabilito che la contestazione del trasferimento delle quote ad un valore irrisorio e, quindi, di un prezzo reale superiore a quello dichiarato, comporterebbe che l'Agenzia delle Entrate non possa eccepire l'abuso del diritto, dal momento che la norma antielusiva postula che quanto dichiarato sia conforme alla situazione reale, sia pure in mancanza di valide ragioni economiche ed al solo fine di conseguire vantaggi altrimenti non conseguibili. Nel caso in esame, invece, gli accertatori hanno stabilito che il prezzo di cessione fosse di gran lunga inferiore a quello reale, presumendo un incasso “in nero”. E tale presunzione mal si concilierebbe con l'applicazione della normativa sull'abuso del diritto. In ogni caso, secondo i giudici di legittimità, nel caso di cessione di partecipazioni, non sarebbe possibile fare riferimento, come ha fatto l'Ufficio, esclusivamente al valore normale ex art. 9, comma 4, lettera b), del TUIR, il quale rinvia all'importo del patrimonio netto, dal momento che vi è una norma che prevede esplicitamente che la plusvalenza vada determinata, tenendo conto del corrispettivo percepito e non del valore di mercato: art. 68, comma 6, del TUIR (Così la sentenza della Corte di Cassazione del 2 marzo 2012, n. 3290).
Ciò sarebbe ancora più evidente con l'entrata in vigore della norma interpretativa ex art. art. 5, comma 3, del D.Lgs. 147 del 24 settembre 2015, laddove è stato sancito che, per le cessioni di immobili e aziende, l'esistenza di un maggior corrispettivo non è presumibile soltanto sulla base del valore dichiarato o accertato ai fini dell'imposta di registro e delle altre imposte indirette. Ciò porterebbe alla conclusione che il corrispettivo dichiarato dalle parti fa fede fino a quando non vi siano altri elementi che facciano presumere il contrario.
Le soluzioni giuridiche
Secondo la Corte di Cassazione, però, tali presunzioni di occultamento di parte del corrispettivo potrebbe verificarsi, come nel caso in esame, quando vi sia un abnorme divario tra valore di mercato e prezzo di cessione. Infatti, le perizie di stima, redatte pochi mesi dopo la cessione contestata, portavano a ritenere che il valore della società coincidesse con quello dei marchi, unici beni del soggetto giuridico. Per questo motivo, la Suprema Corte ha accolto parte del ricorso dell'Agenzia delle Entrate, rinviando ai giudici di secondo grado, affinchè rivalutino il compendio indiziario in atti, tenendo conto di tali circostanze. Osservazioni
Le conclusioni a cui giunge la Corte di Cassazione, in merito alla possibilità dei giudici di merito di rideterminare il prezzo di cessione, facendo riferimento al valore normale, non è del tutto convincente. Infatti, da un lato, viene sostenuto che ai fini delle imposte dirette non è possibile applicare il valore normale, dall'altro lato, però, viene sancito che un corrispettivo irrisorio possa giustificare le rettifica da parte dell'Ufficio. Ciò, però, non è condivisibile, in quanto, ai fini dell'imposta sui redditi, l'attenzione deve sempre focalizzarsi sul corrispettivo determinato tra le parti, in una dimensione intersoggettiva, come previsto dal Legislatore tributario all'art. 86 o all'art. 68 (se si tratta di persone fisiche) del TUIR.
Infatti, nell'ambito dell'accertamento delle imposte sui redditi, devono essere tenuti in considerazione il prezzo ed il costo di un bene al fine di determinare la plusvalenza tassabile e non il valore del cespite (CTR Roma n. 81 dell'8 aprile 2009). Come rilevato dalla stessa Amministrazione finanziaria in anni passati, la determinazione del reddito d' impresa va fatta mediante la contrapposizione di costi e ricavi nella loro effettiva misura, e non sulla base del valore dei beni oggetto di trasferimento (Risoluzione Ministeriale del primo luglio 1980, 9/1437).
La disciplina della determinazione del valore normale dei beni, ai fini delle imposte dirette, è contenuta in una norma apposita, cioè l'articolo 9 del TUIR, il quale, però, può trovare applicazione solamente in specifici casi (tra i quali non rientra, in alcun caso, la fattispecie oggetto di contestazione), e cioè: in primo luogo, quelli in cui una transazione sia priva di corrispettivo in denaro (come, ad esempio, nel caso di conferimenti in società, permute, dazioni in pagamento, destinazioni di beni a finalità estranee all'impresa ed in generale quando siano previsti corrispettivi in natura) e, in secondo luogo, nei casi in cui vi sia la necessità di contrastare fenomeni “patologici” (come nel caso del transfer pricing di cui all'art. 110, comma 7, del TUIR, dove si estende l'applicazione del valore normale, a determinate condizioni, pur in presenza di un corrispettivo in denaro determinato tra le parti). Conseguentemente, gli Uffici potrebbero utilizzare il valore normale per effettuare le loro rettifiche solamente nei casi specificatamente previsti dal legislatore. Del resto la stessa Corte di Cassazione ha in più occasioni ribadito il principio secondo cui la divergenza tra il valore venale del bene venduto e il prezzo di cessione costituisce soltanto un elemento indiziario circa il possibile occultamento del prezzo realmente concordato tra le parti. In particolare, la Suprema Corte ha affermato che il TUIR non lascia dubbi, “sulla scorta dell'equivoco significato della parola ‘corrispettivo', circa l'influenza soltanto del maggiore ammontare del ricavato della vendita rispetto al costo di acquisto, cioè dell'entità della monetizzazione dell'incremento patrimoniale, e, quindi, non autorizza revisioni dell'imponibile in base al semplice riscontro dell'inferiorità di detto ricavato rispetto al valore di mercato, lasciando aperta soltanto la facoltà dell'Ufficio di dedurre e dimostrare l'eventuale divergenza del prezzo effettivamente riscosso rispetto a quello enunciato nel contratto di vendita, se del caso avvalendosi degli elementi presuntivi offerti dal valore venale” (in tal senso, per tutte, le Sentenza della Cassazione n. 16700 dell'8 agosto 2005 e n. 7689 del 16 maggio 2003).
Conseguentemente, l'Ufficio dovrebbe effettuare ulteriori indagini e fornire le prove, ad esempio, tramite indagini bancarie, che la riscontrata differenza (tra quanto accertato ai fini dell'imposta di registro e quanto dichiarato) supporti un maggiore incasso in nero (CTP di Reggio Emilia del 18 gennaio 2010, n. 16). Infatti, come insegna la Commissione Tributaria Centrale ( Sentenza del 17 gennaio 1990, n. 284) ai fini delle imposte dirette: “Il valore di (un cespite) in tanto rientra tra le plusvalenze patrimoniali tassabili, in quanto sia stato percepito poiché la norma impositiva mira a colpire non un reddito presunto, ma un reddito entrato effettivamente ad accrescere il patrimonio del cedente”. Pertanto, nell'ambito dell'accertamento delle imposte sui redditi devono essere tenuti in considerazione il prezzo ed il costo di un bene al fine di determinare la plusvalenza tassabile e non il valore del cespite, come avviene, ad esempio, ai fini dell'imposta di registro (CTR di Roma – Lazio n. 81 dell'8 aprile 2009). Ciò troverebbe ulteriore conferma nel fatto che il legislatore recentemente ha introdotto una normativa, secondo la quale le disposizioni in tema di imposizione diretta sulle plusvalenze da cessioni di immobili e di aziende ovvero da costituzione e il trasferimento di diritti reali sugli stessi, devono interpretarsi nel senso che, in proposito, l'esistenza di un maggior corrispettivo non è presumibile soltanto sulla base del valore normale, anche se dichiarato, accertato o definito a fini dell'imposta di registro di cui al D.P.R. n. 131/1986. Pertanto, seguendo tale principio che vale anche per gli accertamenti notificati prima dell'entrata in vigore del comma 5, comma 3, del Decreto Legislativo 14 settembre 2015, n. 147, considerata la natura interpretativa della relativa norma (Corte di Cassazione, del 16 settembre 2016, n. 18234), gli accertamenti basati esclusivamente sulla rideterminazione del corrispettivo, facendo riferimento al valore normale, non dovrebbero essere legittimi, anche se il prezzo di cessione è irrisorio rispetto a quello di mercato.
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