Grava sull'Amministrazione finanziaria la prova dell'elusione

Andrea Lazzaron
28 Giugno 2016

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 6656 depositata il 6 aprile 2016, ha affermato che sarà l'Amministrazione finanziaria a dover dimostrare che l'operazione economica realizzata dalla controllata o controllante con sede all'estero comporta un maggior reddito per la società italiana. I Giudici hanno ribadito inoltre la regola secondo la quale la prova dell'elusione, e dei suoi presupposti, grava sull'Amministrazione che intenda operare le conseguenti rettifiche.
Massima

È onere dell'Amministrazione finanziaria dimostrare che un'operazione economica realizzata tramite una controllata o controllante avente sede all'estero comporta un maggior reddito per la società residente in Italia. Questo il principio di diritto affermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 6656 depositata il 6 aprile 2016, nella quale si è anche ribadita la regola secondo la quale la prova dell'elusione, e dei suoi presupposti, grava sull'Amministrazione che intenda operare le conseguenti rettifiche.

Inoltre, la presunzione secondo cui le spese sostenute per la pubblicità dovrebbero far conseguire ad una società ricavi almeno pari alla spesa affrontata può essere facilmente superata da una presunzione di segno contrario, ad esempio quella per cui in fase di start-up è verosimile che il costo per promuovere il prodotto sia superiore ai ricavi delle vendite.

Il caso

Una società di capitali residente in Italia, parte di un gruppo multinazionale, aveva sostenuto i costi necessari per pubblicizzare sul mercato estero i prodotti venduti ad una propria controllata con sede in Repubblica Ceca. Dalle vendite di tali prodotti, tuttavia, erano stati ottenuti ricavi inferiori rispetto alle spese di marketing sopportate.

L'Agenzia delle Entrate aveva dunque contestato alla società italiana l'omessa contabilizzazione di ricavi derivanti da operazioni con società controllate non residenti nel territorio dello Stato, in virtù del previgente art. 76, comma 5, del d.P.R. n. 917/1986 (che corrisponde all'attuale art. 110, co. 7, del TUIR), in virtù del quale “i componenti del reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato che, direttamente o indirettamente, controllano l'impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l'impresa sono valutati in base al valore normale dei beni ceduti”.

Ad avviso dell'Agenzia delle Entrate, infatti, la società italiana avrebbe compiuto un'operazione antieconomica, vendendo dei beni, tramite la propria consociata estera, ad un prezzo eccessivamente ridotto. L'Amministrazione, in particolare, ha presunto che i beni sarebbero stati invece venduti ad un diverso e maggiore prezzo e che i ricavi realmente ottenuti non sarebbero stati dichiarati come tali.

Ne è scaturita la ripresa a tassazione della differenza tra quanto ricavato dalle vendite e quanto effettivamente speso per la pubblicità dei prodotti all'estero. Il ricorso presentato dalla società avverso l'avviso di accertamento era stato accolto dalla Commissione Tributaria Provinciale di Milano e la sentenza era stata successivamente confermata in appello. L'Agenzia delle Entrate, nonostante la soccombenza in entrambi i gradi del giudizio di merito, aveva proposto ricorso per la cassazione della sentenza della Commissione Tributaria Regionale, censurandone il difetto di motivazione in violazione dell'art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. vigente ratione temporis.

La questione

Il caso di specie rappresenta un'ipotesi di applicazione del concetto di “antieconomicitàalle operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato che, direttamente o indirettamente, controllano l'impresa, ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società che controlla l'impresa. Tali operazioni, ai sensi del previgente art. 76, comma 5, del d.P.R. n. 917/1986 (oggi art. 110, co. 7, del TUIR), necessitano si essere valutate in base al “valore normale” dei beni ceduti (cfr. art. 9, co. 3, d.P.R. n. 917 del 1986).

La questione giuridica sottesa alla fattispecie in esame, infatti, è quella di distribuire l'onere della prova in caso di condotta imprenditoriale “antieconomica”. In altri termini, occorre stabilire se sia il contribuente a dover dimostrare che l'operazione “contraria ai canoni dell'economia” che ha posto in essere non è sintomo di violazione di disposizioni tributarie o se viceversa sia l'Amministrazione finanziaria a dover dimostrare l'occultamento di materia imponibile. La questione è stata risolta dalla Suprema Corte nel secondo senso.

Il tema non è nuovo. Da tempo, infatti, l'Agenzia delle Entrate verifica la conformità del comportamento imprenditoriale rispetto ai “canoni dell'economia”. Con tale espressione si intendono quei criteri di ragionevolezza che ispirano la gestione di un'azienda e che si possono sintetizzare nella volontà dell'imprenditore di ottenere il massimo dei ricavi con il minimo dei costi.

L'Agenzia delle Entrate nel corso degli anni ha declinato il concetto di '“antieconomicità” delle operazioni imprenditoriali in varie forme, contestando talvolta la congruità o l'inerenza di alcune componenti negative di reddito, talvolta il “valore normale” delle operazioni poste in essere, così come è avvenuto nel caso di specie.

Ciò ha dato spesso origine a contenziosi, data la natura presuntiva di tale tipologia di accertamenti e l'opinabilità dell'aderenza o meno di una certa condotta rispetto a “canoni dell'economia” piuttosto vaghi.

Le soluzioni giuridiche

Nel corso del tempo, la giurisprudenza di legittimità ha seguito due diversi orientamenti interpretativi.

Con un primo orientamento (cfr. Cass. civ., sez. trib, 9 febbraio 2001, n. 1821) si è statuito che colui che ha posto in essere un comportamento antieconomico ha l'onere di fornire una giustificazione razionale della propria scelta. Tale interpretazione è stata fondata, tra l'altro, sul previgente art. 37-bis del d.P.R. n. 600/1973. La giurisprudenza, inoltre, ha affermato che l'onere del contribuente di motivare le scelte che non sono in linea con i criteri di gestione economica della propria attività è simmetrico rispetto all'obbligo di motivazione degli atti che grava sull'Amministrazione finanziaria (cfr. art. 7 della L. n. 212/2000). Si è infine stabilito che, in base al principio di collaborazione e buona fede nei rapporti tra contribuente e Amministrazione (cfr. art. 10 della L. n. 212/2000) le eventuali reticenze del contribuente potranno assumere valore indiziante a suo carico.

In definitiva, il principio di diritto affermato dalla Corte di Cassazione nel 2001 con la citata sentenza è che “in presenza di un comportamento assolutamente contrario ai canoni dell'economia che il contribuente non spieghi in alcun modo, o che giustifichi in maniera non convincente, è legittimo l'accertamento ai sensi dell'art. 39, co. 1, lett. d), del d.P.R. n. 600/1973. E, comunque, i giudici di merito, per annullare l'accertamento, devono specificare, con argomenti validi, le ragioni per le quali ritengono che l'antieconomicità del comportamento del contribuente non sia sintomatica di possibili violazioni di disposizioni tributarie”.

In tempi più recenti, tuttavia, la Corte di Cassazione ha seguito una seconda linea interpretativa, accolta anche dalla sentenza in commento, secondo la quale è onere dell'Amministrazione finanziaria dimostrare che un'operazione economica realizzata all'estero tramite una controllata o controllante avente sede all'estero costituisce reddito (cfr. Cass. civ., sez. trib., 13 ottobre 2006, n. 22023 e Cass. civ., sez. trib., 16 maggio 2007, n. 11226). Tale giurisprudenza, muovendo dalla natura di clausola antielusiva del previgente art. 76, co. 5, del TUIR, ha ricordato che l'onere della prova della ricorrenza dei presupposti dell'elusione grava in ogni caso sull'Amministrazione che intenda operare le conseguenti rettifiche (cfr. Cass. civ. sez. trib. 25 marzo 2003, n. 4317). In particolare, il contribuente non è tenuto a dimostrare la correttezza dei prezzi di trasferimento applicati, se non dopo che l'Amministrazione fiscale abbia essa stessa provato prima facie il mancato rispetto del principio del valore normale.

Peraltro, a ben vedere, il contrasto tra il primo ed il secondo orientamento della Corte di Cassazione è più apparente che reale, dal momento che la giurisprudenza di legittimità, a seconda delle fattispecie che si è trovata a decidere, ha evidenziato ora la necessità per il contribuente di dimostrare perché avesse tenuto una condotta economicamente irragionevole, ora l'esigenza per l'Amministrazione di motivare adeguatamente per quale motivo una presunzione semplice potesse portare ad una rettifica dell'imponibile dichiarato dal contribuente.

Il tema, esaminato nella sentenza in commento dal punto di vista del transfer pricing, è riconducibile al più ampio genere delle contestazioni sull'antieconomicità della condotta del contribuente, argomento sul quale la giurisprudenza è intervenuta più volte, chiarendo che la corrispondenza a criteri di economicità di una condotta aziendale deve necessariamente essere valutata nell'ambito in una visione d'insieme delle operazioni considerate.

Così, ad esempio, è possibile che l'acquisto di veicoli industriali usati a prezzi superiori rispetto a quelli della successiva rivendita sia effettuato per incentivare le vendite di veicoli nuovi (cfr. Cass. civ., sez. trib., 30 settembre 2015, n. 19408). O ancora, un imprenditore potrebbe decidere di concludere una transazione anche molto svantaggiosa pur di mantenere un cliente o di evitare un contenzioso (cfr. Cass. civ., sez. trib., 19 novembre 2007, n. 23863). Oppure alcuni prodotti potrebbero esser venduti a prezzi irrisori per ottenere margini superiori su altri (c.d. vendita civetta), per conquistare nuovi segmenti di mercato, per evitare l'accumularsi di scorte invendute col rischio di svalutazione del magazzino o per altre ragioni contingenti che nulla hanno a che vedere con l'occultamento di materia imponibile.

In conclusione “non si può escludere certo né che l'imprenditore compia errori di valutazione né che considerazioni di strategia generale lo inducano a compiere operazioni di per se stesse antieconomiche in vista ed in funzione di benefici economici su altri fronti [...]. Occorre cioè che le varie operazioni coordinate le une con le altre abbiano un fine logico, rispondano, almeno nelle intenzioni di chi le pone in essere, a criteri di logica economica, sia pure intesa in senso ampio e questa logica a sua volta deve essere funzionale ai meccanismi di mercato e di un regime di libera concorrenza” (Cass. civ., sez. trib., 24 luglio 2002, n. 10802).

Ciò è anche quanto affermato dalla sentenza in commento: l'irragionevolezza della condotta dell'imprenditore, contestata da parte dell'Agenzia delle Entrate sulla base di presunzioni, può essere facilmente smentita da presunzioni di segno contrario del contribuente.

Osservazioni

La sentenza in commento merita di essere apprezzata soprattutto per la chiarezza con la quale pone a carico dell'Amministrazione finanziaria l'onere di dimostrare in concreto l'esistenza di redditi non dichiarati. L'Ufficio non può desumere l'occultamento di materia imponibile dalla mera irragionevolezza della gestione imprenditoriale, ma deve raccogliere elementi ulteriori che supportino la propria tesi.

Al contrario, il contribuente può valersi di presunzioni contrarie a quelle dell'ufficio per spiegare le motivazioni della propria condotta.

In chiave critica, la sentenza in esame suscita qualche perplessità per aver introdotto nella motivazione il concetto di elusione.

Le contestazioni basate sull'antieconomicità, infatti, richiamano più che altro il concetto di evasione. In altre parole, nella maggior parte dei casi, la gestione è “antieconomica” perché il contribuente ha sottratto materia imponibile, omettendo di dichiarare ricavi effettivamente percepiti oppure incrementando artificiosamente i costi.

In attività poco propense al nero, quali quelle dei gruppi multinazionali, viceversa, le contestazioni basate sull'antieconomicità risultano particolarmente deboli; in tali casi, è verosimile che la gestione sia “antieconomica” per contingenze di diverso tipo: ad esempio, come nel caso di specie, l'impresa è in fase di start-up sul mercato straniero.

In questi casi, l'Amministrazione finanziaria deve dire qualcosa di più rispetto al fatto che la gestione non è stata profittevole. Altrimenti l'accertamento dell'Ufficio è destinato a soccombere.

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