Scudo fiscale ter: esimente ma non troppo e sequestro preventivo sempre possibile
04 Marzo 2016
Massima
La causa di non punibilità di cui all'art. 13-bis D.L. 78/2009 e s.m., approntata per chi aderisca al c.d. “scudo fiscale ter”, non determina un'immunità soggettiva rispetto ai reati fiscali ma opera solo per quelli direttamente riconducibili ai capitali rimpatriati o regolarizzati, cosicché è onere dell'interessato, quanto meno, allegare la sussistenza di fatti a riprova del collegamento attivante l'esimente, prova che, in sede cautelare, può anche fondarsi su elementi indiziari e presuntivi in bonam partem, purché vi sia una certa, ancorché non esatta, corrispondenza tra la somma “scudata” e quella oggetto di contestazione.
(Fonte: www.ilpenalista.it, 22 febbraio 2016) Il caso
La vicenda riguarda un sequestro preventivo di beni equivalenti al profitto del reato fiscale di cui all'art. 4 del D.lgs. 74/2000 (Dichiarazione infedele), contro cui l'interessato propose istanza di riesame dimostrando di aver aderito al c.d. “scudo fiscale ter”, ossia di aver rimpatriato fondi e pagato l'imposta straordinaria e, dunque, di potersi avvalere della causa di non punibilità prevista dall'art. 13-bis del d.l. 78/2009 e s.m., cosicché il tribunale del riesame decise di restituire i beni, ammettendo quantomeno il dubbio circa la ricorrenza della predetta esimente e rinviando al merito la verifica dell'effettiva operatività ma, intanto, valutando la cosa negativamente incidente sulla possibilità di ritenere sussistenti i gravi indizi di reato. Ricorse in Cassazione la procura che lamentò, tra l'altro, come non vi fosse certezza alcuna che le somme rimpatriate costituissero l'oggetto della condotta incriminata e quindi non poteva ritenersi operante la causa di non punibilità ex art. 13-bis del d.l. 78/2009 e s.m.
La Cassazione, coerente con sé stessa (Cass. pen., Sez. III, 5 maggio – 19 luglio 2011, n. 28724; Cass. pen., Sez. III, 2 luglio – 8 ottobre 2014, n. 41947), dà ragione alla procura, annullando con rinvio l'ordinanza, affinché il tribunale accerti, sia pure in modo sommario e nei limiti della specifica fase cautelare, la riferibilità delle somme rimpatriate al reato contestato. La Corte, infatti, ribadisce che: l'adesione alla “scudo fiscale” non determina un'immunità soggettiva in relazione ai reati fiscali nella cui condotta non rilevino affatto i capitali trasferiti a posseduti all'estero, e successivamente oggetto di rimpatrio, ciò perché la causa di non punibilità […], si riferisce alle sole condotte afferenti i capitali oggetto della procedura di rimpatrio. La suprema Corte giustifica ciò, da un lato, perché, diversamente, la causa di non punibilità sarebbe tanto ampia e generica da sconfinare in una amnistia, per la quale sarebbe occorsa, e non vi fu, una maggioranza parlamentare qualificata; dall'altro lato, in forza della ratio della norma, rinvenuta nella volontà del legislatore di esentare solo i fatti di reato emergenti insieme o per effetto della riemersione dei capitali, per togliere ogni remora agli interessati; il tutto confermato, infine, dal dato letterale dell'art. 13-bis, comma 4 cit. e s.m., che esonera dalla responsabilità limitatamente al rimpatrio ed alla regolarizzazione di cui al presente articolo.
Essendo, dunque, il collegamento tra i capitali “scudati” e i reati fiscali contestati, un fatto alla base dell'applicazione della norma che prevede la causa di non punibilità, esso deve essere, quanto meno, allegato da chi l'invochi, magari anche solo a livello indiziario, stante la fase cautelare, mentre non può bastare, per l'applicazione in via dubitativa, il mero raffronto tra le cifre in gioco, alla stregua di una presunzione in bonam partem, a meno che vi sia una certa, ancorché non esatta, corrispondenza tra la somma rimpatriata o regolarizzata e quella oggetto di contestazione, cosa non invocabile nel caso di specie. La questione
La questione è la seguente: l'esclusione della punibilità per determinati reati fiscali, prevista per il rimpatrio o la regolarizzazione dei capitali illecitamente detenuti all'estero, può configurarsi come una sorte di “bonus” che il soggetto interessato all'occorrenza può spendere a mo' di “franchigia” per i reati previsti dal combinato disposto dagli artt. 13-bis del d.l. 78/2009 e s.m. e art. 8, comma 6, lett. c), della l. 289/2002, aliunde contestati, ovvero è necessario far emergere il collegamento fra i capitali scudati e i reati predetti e ciò anche in sede cautelare reale? Le soluzioni giuridiche
La soluzione della sentenza in commento, pur essendo costante in sede di legittimità, non soddisfa tutta la giurisprudenza di merito, né tutta la dottrina. Di segno diverso, infatti, è, ad esempio, la sentenza n. 7453 del 20 aprile 2011 del Gip di Milano, che escluse la necessità di un collegamento tra i capitali scudati e i reati per cui si voglia far valere la causa di non punibilità. Si legge, infatti, nel provvedimento: Non occorre, peraltro, che l'imputato dimostri la correlazione tra le disponibilità fatte emergere ed il reato tributario posto in essere e, pertanto, la riconduzione, anche astratta, delle somme evase alle somme o alle attività costituite all'estero oggetto di rimpatrio/regolarizzazione; l'intera disciplina penale dello scudo fiscale è, infatti, enunciata esclusivamente dall'art. 8, comma 6, lettera c), della legge 27.12.2002, n. 289 e tale disposizione nulla prevede in proposito. La dottrina, poi, caldeggia questa soluzione, infatti, annotando la sentenza che è alla base della motivazione di quella in commento (Cass. pen., Sez. III, 5 maggio – 19 luglio 2011, n. 28724), è stato sostenuto (TOMASSINI) che la soluzione del necessario collegamento lascerebbe del tutto insoddisfatta l'esigenza di determinatezza della fattispecie, ossia circa l'individuazione in concreto di quando una condotta possa essere riferita al rimpatrio ed alla regolarizzazione e, dunque, non punibile, con la conseguenza di costringere il giudice penale ad una difficile valutazione casistica circa la sussistenza del collegamento stesso.
Sarebbe, dunque, preferibile, interpretare l'inciso dell'art. 13-bis, comma 4 cit. limitatamente al rimpatrio ed alla regolarizzazione di cui al presente articolo, in termini più quantitativi che qualitativi, ossia riferire la non punibilità agli importi oggetto dello scudo, in funzione, quindi, di una sostanziale “franchigia” da correlare ai reati tributari in senso meramente astratto, al fine di non gravare il contribuente di una probatio diabolica in questo senso. Osservazioni
Invero il problema è creato dal legislatore che non precisa cosa debba intendersi con l'inciso dell'art. 13-bis, comma 4, del d.l. 78/2009 e s.m.: limitatamente al rimpatrio ed alla regolarizzazione di cui al presente articolo; cosicché, nell'aporia normativa, diverse interpretazioni sono possibili e si può finire per preferirne una, non tanto per l'intrinseca sua forza, quanto per la maggiore debolezza della altre. In effetti, se si può convenire con il significato che la sentenza in commento dà all'inciso di cui sopra, è anche perché sono poco convincenti e poco sorrette dal dato normativo le ragioni del diverso indirizzo della dottrina e della giurisprudenza di merito citate. Infatti, mentre il giudice di merito sembra del tutto ignorare l'inciso, la dottrina evidenzia delle difficoltà (analisi casistica del giudice e probatio diabolica del contribuente) che nulla rilevano sul piano dei principi e del ragionamento giuridico, né, il ridurre tutto ad una franchigia meramente quantitativa, giova gran che sul piano della determinatezza della fattispecie, anzi il tutto introduce l'idea stravagante che il legislatore abbia voluto dotare il contribuente di una specie di carta jolly da giocare a piacere a fronte di una qualsiasi contestazione di un reato fiscale riferibile o meno ai capitali rimpatriati o regolarizzati, il che non pare proprio ragionevole, né compatibile con il pur non chiaro inciso dell'art. 13-bis, comma 4, d.l. 78/2009.
La partita, dunque, resta più giocabile, sul piano della valorizzazione della teoria generale della cause di non punibilità, specie circa la regola dell'applicazione anche in via dubitativa (art. 530, comma 3, c.p.p.). In effetti, chi invochi una causa di non punibilità, può limitarsi ad “allegare” il fatto che sta alla base dell'applicazione, vale a dire che può limitarsi ad affermare un fatto, che, ove non sia immediatamente ed intrinsecamente inattendibile, impone al giudice una verifica con tutti i mezzi istruttori a sua disposizione, con il corollario che potrà negare la non punibilità, solo a fronte di emergenze probatorie di segno nettamente contrario, mentre dovrà concederla, non solo a fronte della piena conferma dei presupposti di fatto, ma anche solo nel caso in cui gli stessi non vengano smentiti ed esclusi. Stando così le cose, trascendendo dal caso specifico, in qualunque sede giurisdizionale nessun P.M. potrà trincerarsi dietro l'affermazione che non v'è certezza che le somme rimpatriate costituiscano l'oggetto della condotta incriminata ma dovrà argomentare, fatti alla mano, sul perché vi è certezza che tale correlazione non vi sia, diversamente il giudice potrà, anzi, dovrà dissequestrare i beni ovvero assolvere l'imputato a fronte della mera impossibilità di escludere la ricorrenza dell'esimente in questione, plausibilmente invocata dall'interessato.
Semmai, la sentenza in commento non convince quando impone la valutazione della correlazione tra capitali scudati e reati fiscali, tramite un criterio fondato su un raffronto meramente quantitativo. Ciò, oltre ad essere privo di una valida copertura normativa, appare come un praticistico escamotage atto ad aggirare le regole proprie delle cause di non punibilità, perché funzionale a togliere apoditticamente attendibilità all'allegazione difensiva, bypassando l'esigenza di escluderla prove alla mano, giacché la disarmonia quantitativa tra i capitali scudati e quelli insiti nel reato fiscale contestato, può essere variamente spiegabile e nulla di preciso e determinato ci dice, in sé e per sé, circa la relazione esistente tra gli stessi, per cui non tocca all'interessato spiegarla. |