Plusvalenze da cessioni di immobili/aziende e insufficienza del valore accertato ai fini dell'imposta di registro

30 Gennaio 2017

Per le cessioni d'immobili e di aziende nonché per la costituzione e il trasferimento di diritti reali sugli stessi, l'esistenza di un maggior corrispettivo ai fini IRPEF non è presumibile soltanto sulla base del valore anche se dichiarato, accertato o definito ai fini dell'imposta di registro, ovvero delle imposte ipotecaria e catastale.
Massima

Per le cessioni d'immobili e di aziende nonché per la costituzione e il trasferimento di diritti reali sugli stessi, l'esistenza di un maggior corrispettivo ai fini IRPEF non è presumibile soltanto sulla base del valore anche se dichiarato, accertato o definito ai fini dell'imposta di registro, ovvero delle imposte ipotecaria e catastale.

Lo stabilisce l'art. 5, comma 3, del D.Lgs. n. 147/2015, che, in quanto norma interpretativa, è applicabile anche ai giudizi in corso alla data della sua entrata in vigore.

Il caso

La controversia approdata in Cassazione riguarda una sentenza della CTR della Campania che ha confermato un accertamento dell'Agenzia delle Entrate concernente una maggior IRPEF per effetto di plusvalenza asseritamente realizzata con la cessione di alcuni terreni.

In particolare, secondo la CTR, che ha accolto l'appello dell'Agenzia delle Entrate, la contribuente non era stata in grado di vincere, con idonea prova contraria, la presunzione di corrispondenza del prezzo incassato per la cessione di un bene al "valore definitivamente attribuito a tale bene ai fini dell'imposta di registro".

Nel corso del giudizio per Cassazione l'Agenzia delle Entrate, quale controricorrente, presentava una memoria con la quale chiedeva la cessazione della materia del contendere in virtù della sopravvenienza del D.Lgs. n. 147/2015 che aveva escluso qualsiasi automatismo tra valore accertato nell'ambito dell'imposta di registro e corrispettivo da plusvalenza.

La richiesta dell'Agenzia non è stata presa in considerazione in quanto non si erano verificati fatti tali da determinare il venir meno delle ragioni di contrasto tra le parti, essendovi solo la dichiarazione unilaterale dell'Agenzia che può essere valutata solamente ai fini della regolazione delle spese processuali.

Con il ricorso in cassazione si lamentava, tra l'altro, la violazione del d.P.R. n. 917/1986, art. 68 e d.P.R. n. 131/1986, art. 51 avendo i giudici della CTR ritenuto legittimo un accertamento fondato esclusivamente sul valore determinato ai fini dell'imposta di registro ed omettendo qualsiasi valutazione degli elementi probatori forniti dal contribuente (tra i quali vi era una perizia).

I giudici di legittimità hanno accolto il ricorso presentato dagli eredi della contribuente, rinviando la controversia nuovamente alla commissione regionale. Ciò proprio in virtù dello ius superveniens intervenuto nelle more del giudizio di legittimità, rappresentato dall'entrata in vigore dell'art. 5, comma 3, del D.Lgs. n. 147/2015 secondo cui: "Gli artt. 58, 68, 85 e 86 del TUIR, approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, e gli artt. 5, 5-bis, 6 e 7 del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, si interpretano nel senso che per le cessioni di immobili e di aziende nonché per la costituzione e il trasferimento di diritti reali sugli stessi, l'esistenza di un maggior corrispettivo non è presumibile soltanto sulla base del valore anche se dichiarato, accertato o definito ai fini dell'imposta di registro di cui al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, ovvero delle imposte ipotecaria e catastale di cui al D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 347".

Del resto, secondo la pronuncia in commento, “la norma è da ritenersi applicabile anche ai giudizi in corso, atteso l'intento interpretativo chiaramente espresso dal legislatore e considerato che, come affermato tra le altre da Corte Cost. n. 246/1992, il carattere retroattivo costituisce elemento connaturale alle leggi interpretative (Cass. civ., n. 7488/2016; Cass. civ., n. 6135/2016)”.

Le questioni

Il D.Lgs. n. 147/2015, con norma pare di interpretazione autentica, ha stabilito che non ci può essere alcun automatismo tra gli accertamenti definiti nell'ambito dell'imposta di registro e quelli rilevanti ai fini delle imposte reddituali.

Si tratta in particolare delle rettifiche di valore delle cessioni di aziende o di immobili: sul punto, infatti, l'Agenzia delle Entrate procedeva con una sorta di automatismo (invertendo in tal modo l'onere probatorio in capo ai contribuenti) a ribaltare il maggior valore accertato in sede di imposta di registro per farne derivare una maggiore plusvalenza in capo al venditore.

La questione trattata dalla sentenza in commento attiene all'ambito temporale di applicazione della norma sopra indicata: posto che è pacifico che dalla sua entrata in vigore gli accertamenti dell'Agenzia delle Entrate non potranno più essere basati esclusivamente sul valore definitivamente accertato ma richiederanno la presenza di ulteriori elementi “probanti” del maggior corrispettivo ricevuto, i dubbi si ponevano sui contenziosi in atto e sui conseguenti atti impugnati.

La soluzione prospettata dalla Cassazione (come riconosciuto anche dalla memoria presentata in corso di causa dell'Agenzia delle Entrate) non lascia spazio a dubbi, soprattutto in virtù del fatto che non si tratta di una pronuncia isolata.

Le soluzioni giuridiche

Con una delle ultime pronunce sul tema (cfr. Cass. civ., n. 16254 del 31 luglio 2015) la Cassazione ha stabilito che, in base alla normativa vigente ratione temporis, l'Amministrazione finanziaria potesse procedere all'accertamento della plusvalenza patrimoniale realizzata a seguito di cessione di terreno edificabile sulla base del valore accertato per l'applicazione dell'imposta di registro.

È (o meglio era) onere probatorio del contribuente superare la presunzione di corrispondenza del prezzo incassato con il valore di mercato accertato in via definitiva in sede di applicazione dell'imposta di registro, dimostrando di avere, in concreto, venduto a prezzo inferiore.

Secondo la citata sentenza – che ha condiviso sul punto la decisione della CTR favorevole all'erario – sarebbe stato onere del contribuente “provare il corrispettivo realmente ricevuto, superando la presunzione posta a base dell'accertamento, soprattutto perché si era in presenza di uno scostamento assai rilevante tra il valore di mercato del bene (quale accertato in via definitiva in sede di applicazione dell'imposta di registro) ed il prezzo di acquisto riportato nel contratto di compravendita”.

Su questa specifica problematica si segnala l'esistenza di una normativa sopravvenuta, rappresentata dall'art. 5, comma 3 del D.Lgs. n. 147/2015 (c.d. decreto sull'internazionalizzazione delle imprese) il quale prevede espressamente che "gli artt. 58, 68, 85 e 86 del TUIR, approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, e gli articoli 5, 5-bis, 6 e 7 del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, si interpretano nel senso che per le cessioni di immobili e di aziende nonché per la costituzione e il trasferimento di diritti reali sugli stessi, l'esistenza di un maggior corrispettivo non è presumibile soltanto sulla base del valore anche se dichiarato, accertato o definito ai fini dell'imposta di registro di cui al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, ovvero delle imposte ipotecaria e catastale di cui al D.Lgs. 31 ottobre 1990, n. 347".

Il valore dichiarato o accertato ai fini del registro, dunque, non potrà rappresentare da solo un elemento sufficiente per giustificare un accertamento ai fini delle imposte sui redditi e dell'IRAP in contrasto con le risultanze contabili, ma, potrà costituire uno degli elementi su cui basare l'accertamento solo in presenza di ulteriori presunzioni gravi, precise e concordanti.

Ritornando al tenore della pronuncia in commento, si fa presente che gli Uffici dell'Agenzia delle Entrate spesso fanno seguire alle rettifiche di valore ai fini dell'imposta di registro il recupero a tassazione di una maggiore Irpef a carico del cedente per plusvalenze non tassate pari esattamente a tale maggiore valore. Ciò nonostante che i presupposti di determinazione della base imponibile siano diversi a seconda del settore impositivo. Tali rettifiche hanno, tra l'altro, ricevuto l'avallo soprattutto della giurisprudenza di legittimità.

Sulla questione esiste infatti un consolidato orientamento favorevole all'Agenzia delle Entrate, relativo agli accertamenti sintetici (a carico del compratore che vedeva imputarsi a titolo di incremento patrimoniale più che l'importo pagato, il valore accertato ai fini dell'imposta di registro) ed esteso a tutto il campo delle imposte dirette (ad esempio per determinare la plusvalenza da cessione a carico dell'alienante).

La Suprema Corte ha infatti ribadito il principio per cui “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, ai fini della determinazione della spesa per incrementi patrimoniali, funzionale alla determinazione sintetica del reddito d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ex art. 38, comma 5, il prezzo versato per l'acquisto di un bene si deve presumere, fino a prova contraria il cui onere grava sul contribuente, corrispondente al valore definitivamente attribuito a tale bene ai fini dell'imposta di registro” (cfr. Cass. civ., n. 12462/2014 e, in senso conforme, n. 16334/2013).

In altri termini, secondo la tesi della Corte (più volte espressa in tema di determinazione della plusvalenza immobiliare) sussiste una presunzione semplice, superabile dalla prova contraria eventualmente offerta dal contribuente, di conformità tra il valore di mercato definitivamente accertato ai fini dell'imposta di registro ed il prezzo incassato per la vendita; tale principio, secondo tale pronuncia, deve estendersi all'accertamento delle imposte sui redditi tout court, operando “non soltanto quando il prezzo di trasferimento di un cespite rilevi come prezzo ricevuto (ai fini della tassazione della plusvalenza del venditore) ma anche quando esso rilevi come prezzo pagato (ai fini della determinazione della spesa per incrementi patrimoniali sostenuta dal compratore, e quindi, ai fini della determinazione sintetica del reddito del compratore stesso nell'anno dell'acquisto e in quelli precedenti)”.

In relazione alle imposte dirette, la Cassazione ha più volte affermato (significativa a tal riguardo è l'ordinanza 21 maggio 2010, n. 12462) che in tema di accertamento del reddito d'impresa (ma il discorso vale anche per i redditi diversi ex art. 67 del TUIR) il valore di mercato determinato in via definitiva in sede di applicazione dell'imposta di registro può essere utilizzato dall'Amministrazione finanziaria come dato idoneo ad accertare una plusvalenza patrimoniale, “restando a carico del contribuente l'onere di superare la presunzione di corrispondenza tra il valore di mercato e il prezzo incassato mediante la prova, desumibile dalle scritture contabili o da altri elementi, di avere in concreto venduto ad un prezzo inferiore”. A questo proposito si richiamano, inoltre, sempre della Cassazione, la sentenza n. 9404 del 20 aprile 2010, nonché l'ordinanza n. 7023/2010, la sentenza n. 27019/2009 ecc.

Con sentenza n. 16334 del 28 giugno 2013 la Suprema Corte ha ampliato la portata di tale principio, estendendolo in via generalizzata a tutto il “mondo” delle imposte sui redditi: secondo tale ultima pronuncia il valore accertato ai fini dell'imposta di registro è utilizzabile anche nei confronti del compratore, per determinare la quota di incremento patrimoniale da applicare ai fini dell'accertamento sintetico.

Tali considerazioni trovano il loro fondamento nei princìpi generali dell'ordinamento, oltre che nelle massime di comune esperienza. Infatti, come evidenziato dalla Cassazione con sentenza n. 14448/2000non c'è dubbio che nell'ordinamento esiste il principio generale secondo il quale in un contratto con prestazioni corrispettive si presume che tra le due prestazioni vi sia una proporzione, tanto che è prevista una azione generale di rescissione per le ipotesi in cui ciò non si verifica”.

Oltre a ciò, può affermarsi, sulla base dell'id quod plerumque accidit, che non appare verosimile che un imprenditore ceda un'azienda per un corrispettivo notevolmente inferiore al valore di mercato, ossia adottando un comportamento palesemente antieconomico. Il fatto stesso che un imprenditore, normalmente orientato nella gestione dell'attività, alla massimizzazione del profitto, ponga in essere operazioni antieconomiche costituisce di per sé – “se non adeguatamente motivato da ragioni che invece lo rendano razionale e lo giustifichino in una prospettiva più ampia” – un elemento indiziario estremamente grave e preciso (cfr. Cass. civ. n. 398/2003 e n. 1821/2001) che, a giudizio della Suprema Corte, legittima l'accertamento presuntivo ai sensi dell'art. 39, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 600/1973.

Ad ogni modo, la possibilità riconosciuta agli uffici di procedere all'accertamento della plusvalenza o all'accertamento sintetico non lede la posizione del contribuente sul quale ricade l'onere della prova contraria. Lo stesso può infatti superare la presunzione di corrispondenza del prezzo incassato col valore di mercato definito in sede di applicazione dell'imposta di registro dimostrando “di avere in concreto venduto ad un prezzo inferiore”(Cassazione, ordinanza n. 7023/2010). A tal fine non sono sufficienti mere affermazioni di principio ma il contribuente deve fornire prove concrete a supporto delle proprie tesi.

Se la giurisprudenza, soprattutto quella di legittimità, è ormai orientata nel senso di riconoscere una presunzione di corrispondenza tra valore di mercato definito ai fini dell'imposta di registro e prezzo di cessione (rilevante ai fini delle imposte dirette), in nome del sempre più utilizzato concetto dell'antieconomicità (non è un caso quindi che le ultime pronunce abbiano tutte la forma di ordinanza, a dimostrazione di un orientamento ormai consolidato), la dottrina è scettica sull'argomento.

Due sono le principali obiezioni mosse a tale ricostruzione:

  • i criteri di valutazione utilizzati ai fini dell'imposta di registro (per gli immobili e le aziende il valore venale in comune commercio) sono diversi e incompatibili con quelli utilizzati ai fini delle imposte dirette (dove rileva il corrispettivo pattuito);
  • nell'ambito delle imposte dirette ove il legislatore abbia voluto fare riferimento al criterio del valore normale (ex art. 9 del TUIR) lo ha fatto espressamente (come, ad es., nel caso del transfer pricing, nell'ambito dei trasferimenti infragruppo, ex art. 110, comma 7 del TUIR, o per la determinazione delle plusvalenze nel caso di assegnazione di beni ai soci o a finalità estranee all'esercizio d'impresa, ai sensi dell'art. 86, primo comma, lett. c) del TUIR); in base al noto brocardo ubi lex dixit voluit, ubi noluit tacuit, dal fatto che non vi sia una deroga espressa anche per la cessione d'azienda o per l'accertamento sintetico si desume che, in questi casi, bisognerebbe riferirsi esclusivamente al corrispettivo di cessione pattuito.

A tal proposito si sottolinea come l'Associazione italiana dottori commercialisti ha emanato la norma di comportamento n. 171, nella quale ha affermato che in caso di cessione di azienda la definizione di un maggior valore ai fini dell'imposta di registro non assume automatica efficacia ai fini delle imposte sui redditi, ponendo in rilievo la profonda diversità della disciplina dell'imposta di registro rispetto a quella del reddito d'impresa con riguardo all'ipotesi della cessione d'azienda.

Anche il Consiglio nazionale del notariato ha ritenuto, nello studio n. 81/2009, che l'ufficio debba “fornire ulteriori elementi di prova (gravi, precisi e concordanti) a sostegno del più elevato valore di mercato e dell'eventuale occultamento del corrispettivo”.

Ora, in base a tale modifica normativa, gli Uffici per accertare eventuali plusvalenza non dichiarate, dovranno dimostrare con ulteriori prove (quali, ad esempio, gli importi dei finanziamenti concessi agli acquirenti e le risultanze delle indagini finanziarie) che il contribuente ha effettivamente incassato un maggior corrispettivo rispetto a quello indicato nell'atto sottoposto a registrazione.

Osservazioni

Assodato che per gli accertamenti futuri non sarà più sufficiente il riferimento al valore definitivamente accertato ai fini dell'imposta di registro, una delle problematiche aperte dalla nuova normativa riguarda invece l'impatto della stessa sul contenzioso pendente: l'Agenzia delle Entrate ha più volte ribadito che il divieto di retroattività (previsto dall'art. 3, comma 1, della Legge n. 212/2000 cd. “Statuto del contribuente”) riguarderebbe le sole norme di natura sostanziale e non anche quelle di carattere procedurale per le quali, dunque, non sarebbe operante il divieto previsto dallo Statuto.

Sembrerebbe abbastanza pacifico considerare la norma in questione di tipo “procedurale” ed, in quanto tale, applicabile anche retroattivamente, con possibilità per i contribuenti di invocarla nel primo atto defensionale utile successivo all'entrata in vigore della norma: su questo punto ovviamente sarà la giurisprudenza a fornire gli opportuni chiarimenti.

In realtà dal tenore letterale sembra trattarsi di norma interpretativa, come confermato dalle prime e univoche pronunce della Cassazione secondo cui tale norma, introdotta nel 2015, è da ritenersi applicabile anche ai giudizi in corso, atteso l'intento interpretativo chiaramente espresso dal legislatore e considerato che il carattere retroattivo costituisce elemento connaturale alle leggi interpretative. Peraltro, anche ove volesse porsi in dubbio che la norma sia effettivamente interpretativa, è certo che se il riferimento alla interpretazione da attribuire a norme precedenti non serve per ciò solo a conferire ad una norma carattere interpretativo (ove tale carattere essa non abbia effettivamente), tuttavia testimonia dell'intento del legislatore di attribuire ad essa il carattere retroattivo che è proprio della norma interpretativa (cfr. Cass. civ., n. 7488/2016 seguita da 22221 del 3 novembre 2015 e confermata dalla pronuncia in commento).

Il dubbio, ormai definitivamente dissipato, nasceva anche dal fatto che nel dossier predisposto dai Servizi studi del Senato e della Camera dei deputati è stato affermato che, poiché per le disposizioni in esame non è stata precisata l'entrata in vigore, è da presumersi che le stesse “seguano le regole generali di efficacia delle norme tributarie nel tempo, secondo lo statuto del contribuente (art. 3, comma 1 della Legge n. 212/2000)” e si applichino “solo dal periodo di imposta successivo a quello in corso all'entrata in vigore dello schema in commento”.

Si ritiene, anche alla luce delle pronunce sopra indicate, che tale precisazione sia frutto di un mero refuso, in quanto nel comma 3 dell'art. 5 in esame è chiaramente stabilito che le norme già menzionate “si interpretano” nel senso che l'esistenza di un maggior corrispettivo non è presumibile soltanto sulla base del valore dichiarato o accertato ai fini dell'imposta di registro o di quelle ipotecaria e catastale.

La natura interpretativa della norma emerge, pertanto, chiaramente dal suo dettato ed è confermata anche dalla relazione tecnica di accompagnamento della stessa.

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