La disciplina del transfer pricing nei finanziamenti infruttiferi tra società “sorelle”
03 Ottobre 2016
Massima
In tema di reddito d'impresa, la stipula di un mutuo gratuito tra una società controllante residente e una controllata estera soggiace all'art. 76, comma 5 (ora 110, comma 7), del d.P.R. n. 917/1986, finalizzato alla repressione del cd. "transfer pricing", che deve trovare applicazione non solo quando il prezzo pattuito sia inferiore a quello mediamente praticato nel comporto economico di riferimento, ma anche quando sia nullo, atteso che pure in tale ipotesi, peraltro maggiormente elusiva, si realizza un indebito trasferimento di ricchezza imponibile verso uno Stato estero, a cui l'ordinamento reagisce sostituendo il corrispettivo contrattuale nullo con il «valore normale» dell'operazione, costituito in caso di prestito di una somma di danaro dagli interessi al tasso di mercato.
Inoltre, l'onere probatorio gravante sull'Amministrazione finanziaria si esaurisce nel fornire la prova della esistenza della operazione infragruppo e della pattuizione di un corrispettivo inferiore al valore normale di mercato, logicamente comprensivo della più grave ipotesi della assenza di corrispettivo. Il contribuente che intende contrastare la pretesa impositiva deve invece fornire la prova che il corrispettivo convenuto, ovvero la mancanza di un corrispettivo per l'operazione infragruppo, corrisponde ai valori economici che il mercato attribuisce a tali operazioni. Non è invece necessario che l'Amministrazione finanziaria fornisca ulteriormente la prova che l'operazione infragruppo sia priva di una valida giustificazione economica. Il caso
A seguito di un p.v.c, l'Agenzia delle Entrate emetteva nei confronti di una società un avviso di accertamento con il quale contestava, tra l'altro, la mancata contabilizzazione di interessi attivi per oltre 45 miliardi di vecchie lire. Secondo la società si trattava di versamenti infruttiferi in conto futuro aumento di capitale nei confronti di una società di diritto portoghese di cui la società italiana aveva il controllo quasi totalitario. Secondo l'Ufficio si trattava di prestiti a titolo oneroso ai quali andava pertanto applicato il tasso di interesse al “valore normale”, ovvero l'interesse del 9,258%, pari a quello applicato sui finanziamenti concessi ad altre società controllate. I gradi di merito si concludevano entrambi a favore della società contribuente. In particolare, secondo la CTR si trattava effettivamente di un mutuo gratuito rientrante in una normale logica imprenditoriale. Col successivo ricorso per Cassazione l'Agenzia delle entrate denunciava la violazione di legge (in particolare della norma sul transfer pricing), nella parte in cui la CTR ha ritenuto di attribuirre all'amministrazione finanziaria l'onere di provare la finalità antielusiva, e che detta finalità debba essere esclusa in presenza di operazione giustificata da una "logica imprenditoriale"; altro errore della Ctr sarebbe stato quello di ritenere inapplicabile tale normativa in presenza di un mutuo gratuito.
La Cassazione, con la pronuncia in commento, ha accolto il ricorso. Secondo i giudici di legittimità trattandosi di operazioni intercorrenti con società estera controllata dalla società residente, deve comunque trovare applicazione la regola in materia di “transfer pricing” internazionale stabilita dal previgente d.P.R. n. 917/1986, art. 76, comma 5 (ora art. 110, comma 7) secondo cui la quantificazione dei componenti reddituali non deve avvenire in base al parametro ordinario del corrispettivo pattuito, bensì secondo il criterio derogatorio del “valore normale” dei beni ceduti o dei servizi prestati, definito dal richiamato art. 9, comma 3 quale prezzo e corrispettivo mediamente praticato per i medesimi beni o servizi ceduti o scambiati nello stesso tempo e luogo. Nel caso specifico di somme date a mutuo, ordinariamente produttive di interessi salvo espressa pattuizione contraria (art. 1815 c.c., comma 1), il “valore normale” è costituito dagli interessi di mercato mediamente praticati all'epoca di effettuazione della dazione delle somme di denaro. Tale disposizione volta ad impedire trasferimenti surrettizi di ricchezza in favore di una società infragruppo estera, con sottrazione di materia imponibile alla tassazione nazionale,. deve trovare applicazione non solo quando i prezzi o i corrispettivi pattuiti siano inferiori a quelli mediamente praticati nel comparto economico di riferimento, ma anche quando per la cessione del bene (nella specie una determinata quantità di denaro) sia stato pattuito un corrispettivo nullo. Anche in tale ipotesi, ed a maggior ragione in tale ipotesi, si realizza una manovra di indebito trasferimento di ricchezza imponibile verso uno Stato estero, alla quale l'ordinamento giuridico reagisce sostituendo il prezzo contrattuale (nullo) con il prezzo di mercato. In tema di onere probatorio, poi, non essendo una norma antielusiva ma di corretto riparto del carico tributario tra Stati, l'onere probatorio gravante sulla Amministrazione finanziaria si esaurisce nel fornire la prova della esistenza della operazione infragruppo e della pattuizione di un corrispettivo inferiore al valore normale di mercato, logicamente comprensivo della più grave ipotesi della assenza di corrispettivo; il contribuente che intende contrastare la pretesa impositiva deve invece fornire la prova che il corrispettivo convenuto ovvero la mancanza di un corrispettivo per l'operazione infragruppo, corrisponde ai valori economici che il mercato attribuisce a tali operazioni. Le questioni
Due sono le questioni di fondo trattate dalla pronuncia in commento. Da una parte si è trattato di stabilire se la disciplina del transfer pricing (la cui natura appare ancora dubbia) si applichi anche ai mutui infruttiferi: il dubbio era sorto in quanto, secondo una parte della giurisprudenza (cfr. Cass. civ. n. 15005/2015) la mancata produzione di un reddito tassabile, state la gratuità del mutuo tra società transfrontaliere appartenenti allo stesso gruppo, fa venire meno lo stesso elemento costitutivo della fattispecie abusiva dell'indebito risparmio fiscale. L'altra questione, logicamente e giuridicamente pregiudiziale rispetto alla precedente, attiene alla presunta natura elusiva di tali operazioni. Con le manovre sui prezzi di trasferimento si realizza infatti un artificiale aggiustamento del prezzo di scambio di beni e/o di servizi (possibile tra le società considerate dalla norma, in quanto facenti capo a un unitario centro di interesse economico) teso, fondamentalmente, secondo l'ottica assunta dal legislatore fiscale, non solo italiano, a spostare all'estero flussi di reddito prodotti nello Stato: applicando, in sede di controllo, in sostituzione di quello pattuito, il "valore normale" del prezzo di trasferimento, calcolato ai sensi dell'art. 9 comma 3, del TUIR, l'operazione deve produrre nel soggetto passivo d'imposta, residente nello Stato, "un aumento del reddito imponibile". Sostenerne la natura elusiva significherebbe onerare l'Amministrazione finanziaria di una serie di riscontri probatori come, ad esempio, l'uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione di legge, di strumenti giuridici idonei ad ottenere vantaggi in difetto di ragioni economiche diverse dalla mera aspettativa di quei benefici.
Le soluzioni giuridiche
La normativa dei prezzi di trasferimento ha la finalità di consentire all'Amministrazione finanziaria un controllo dei corrispettivi praticati tra società collegate e/o controllate residenti in Paesi diversi, al fine di evitare che vi siano arbitraggi fiscali diretti ad ottimizzare il carico fiscale del gruppo, canalizzando il reddito verso società residenti in Paesi caratterizzati da una più mite fiscalità. Un ruolo fondamentale sotto questo aspetto è assunto dall'art. 110, comma 7 del d.P.R. n. 917/1986, a norma del quale i componenti di reddito derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato che direttamente o indirettamente controllano l'impresa o ne sono controllate, o che sono controllate dalla stessa società che controlla l'impresa nazionale, sono valutati in base al “valore normale” dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni ricevuti, determinato ai sensi dell'art. 9 del d.P.R. n. 917/1986.
La suddetta norma costituisce una deroga al principio per cui, nel sistema delle imposte dirette, il reddito viene determinato sulla base dei corrispettivi pattuiti dalle parti nella singola operazione commerciale.
La disciplina, all'inizio, era stata interpretata in chiave "antielusiva" in linea con i principi comunitari in tema di abuso del diritto, in quanto finalizzata ad evitare che all'interno del gruppo di società vengano effettuati trasferimenti di utili mediante l'applicazione di prezzi inferiori o superiori al valore normale dei beni ceduti, al fine di sottrarli all'imposizione fiscale in Italia a favore di tassazioni estere inferiori (cfr. Cass. civ. n. 22023/2006, n. 11226/2007 e n. 11949/2012).
In particolare i giudici contestavano all'Amministrazione finanziaria di non dare prova del fatto che nello Stato di residenza della consociata estera vi fosse una tassazione più favorevole rispetto a quella italiana, trattandosi, nel caso di specie di “clausola antielusiva che trova, non solo, radici nei principi comunitari in tema di abuso del diritto (cioè strumentalmente piegato in funzione anomala e/o eccedente il suo normale esercizio) richiamati soprattutto in materia doganale per contrastare operazioni compiute al solo scopo di trarre benefici dalle agevolazioni daziarie (così Corte di Giustizia, sentenza 14 dicembre 2000, in causa C-110/99, Emsland-Starke GmbH) ma anche immanenza in diversi settori del diritto tributario nazionale essendo consentito all'Amministrazione finanziaria di disconoscere - ad esempio - i vantaggi fiscali conseguiti da operazioni societarie (art. 10 della L. n. 408/1990) poste in essere senza valide ragioni economiche ed allo scopo esclusivo di ottenere fraudolentemente un risparmio di imposta. Questa Corte ha già avuto modo di precisare che l'onere della prova della ricorrenza dei presupposti dell'elusione grava in ogni caso sull'Amministrazione che intenda operare le conseguenti rettifiche”. Di seguito la Cassazione, mutando decisamente rotta (ed alleggerendo in tal modo l'onere probatorio gravante sull'Amministrazione finanziaria), ha precisato che la funzione della normativa sul transfer pricing ha un duplice obiettivo: quello di ripartire la potestà impositiva tra gli Stati contraenti e di prevenire la doppia imposizione.
Di conseguenza, in subiecta materia, l'onere dell'Amministrazione finanziaria resta limitato alla dimostrazione dell'esistenza di transazioni tra imprese collegate e dello scostamento evidente tra il corrispettivo pattuito e quello di mercato (valore normale), non essendo tale onere esteso alla prova della funzione elusiva dell'operazione; di contro, in base al principio di vicinanza della prova, il contribuente deve provare non soltanto l'esistenza e l'inerenza dei costi dedotti, ma anche ogni altro elemento che consenta all'Ufficio di ritenere che la transazione sia intervenuta per valori di mercato da considerarsi normali alla stregua del disposto di cui al d.P.R. n. 917/1986, art. 9, comma 3 (cfr. Cass. civ., n. 11949/2012 e n. 22010/2013). In particolare con l'emblematica sentenza n. 10739 del 2013, la Suprema Corte distinguendo nettamente i fenomeni di transfer pricing da quelli elusivi, ha affermato che “la disciplina italiana del transfer pricing, come negli altri Paesi, prescinde dalla dimostrazione di una più elevata fiscalità nazionale. Se si vuole, la disciplina in parola rappresenta una difesa più avanzata di quella direttamente repressiva della elusione. Elusione che, per tale ragione, non occorre dimostrare. E questo, appunto, perché la disciplina di che trattasi è rivolta a reprimere il fenomeno economico in sé. Difatti, tra gli elementi costitutivi della fattispecie repressiva del transfer pricing di cui dal d.P.R. n. 917/1986, art. 76, comma 5 (oggi art. 110, comma 7), non si rinviene quello della maggiore fiscalità nazionale. Non occorre, si ripete, provare la elusione”.
Gli stessi giudici dunque precisano che, una volta constatato lo scostamento tra corrispettivo pattuito e valore di mercato, «è pertanto necessario, da parte dell'Amministrazione, soltanto dimostrare l'esistenza di transazioni tra imprese collegate. Spetta invece al contribuente, secondo le regole ordinarie di vicinanza della prova di cui all'art. 2697 c.c., dimostrare che le transazioni sono intervenute per valori di mercato da considerarsi normali à sensi del d.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, comma 3. Disposizione per la quale, come noto, son da intendersi normali i prezzi di beni e servizi praticati "in condizioni di libera concorrenza" con riferimento, "in quanto possibile", a listini e tariffe d'uso. Ciò che, quindi, non esclude altri mezzi di prova documentali”.
Con sentenza 13 luglio 2012, n. 11949, la Cassazione è intervenuta con riferimento ad una fattispecie in cui l'Amministrazione aveva disconosciuto costi, sostenuti per l'acquisto – da parte di una società italiana - di prodotti “software” da una consorella inglese, in quanto superiori al “valore normale” dei beni ceduti; in particolare, la società inglese aveva proceduto all'“addebito alla società italiana di consistenti rettifiche in aumento dei prezzi in precedenza applicati, in relazione ad alcuni prodotti software dalla medesima acquistati nel corso dell'esercizio”. I giudici di legittimità affermano al riguardo che l'art. 110, c. 7 del TUIR “costituisce (…) una deroga al principio per cui, nel sistema di imposizione sul reddito, questo viene determinato sulla base dei corrispettivi pattuiti dalle parti della singola transazione commerciale (d.P.R. n. 917/1986, art. 109). Nelle ipotesi in cui tali corrispettivi risultano scarsamente attendibili e possono essere manipolati in danno del Fisco italiano, come nel caso degli scambi transnazionali tra soggetti i cui processi decisionali sono condizionati, poiché funzionali ad un unitario centro di interessi, i corrispettivi medesimi sono - per vero - sostituiti, per volontà di legge, dal "valore normale" dei beni o dei servizi oggetto dello scambio, qualora tale sostituzione ricada, in concreto, a vantaggio del Fisco italiano. Sotto il profilo in esame, dunque, può dirsi che la previsione in parola completi il catalogo delle garanzie offerte dalla legislazione a favore dell'Erario, con riferimento a tutte quelle ipotesi nelle quali il corrispettivo pattuito - data la sostanziale unicità del soggetto economico, trattandosi di rapporti commerciali tra articolazioni dello stesso gruppo - può non riflettere il reale valore dei beni e dei servizi scambiati. La disposizione di cui al d.P.R. n. 917/1986, art. 110, comma 7, pertanto, (…) ha la finalità ulteriore di evitare che, mediante fenomeni non simulatori come l'alterazione del prezzo di trasferimento, l'Erario italiano abbia a subire comunque un concreto pregiudizio”.
Con tale posizione, la Corte si è avvicinata ai principi internazionali in tema di transfer pricing, individuati nelle Guidelines dell'OCSE secondo cui la funzione della normativa sul transfer pricing ha un duplice obiettivo: quello di ripartire la potestà impositiva tra gli Stati contraenti e di prevenire la doppia imposizione, con ciò senza attribuire alcuna finalità antielusiva alla disciplina in esame. Analogamente la Corte di Giustizia UE (Sentenza del 21 gennaio 2010, causa C-311/08), chiamata a pronunciarsi sulla legittimità comunitaria della disciplina belga in materia di transfer pricing, ne ha giustificato l'utilizzo, e quindi la sua compatibilità con le disposizioni del Trattato UE, in ragione della natura di disciplina diretta in via principale alla “tutela della ripartizione equilibrata del potere impositivo tra gli Stati membri”. La disciplina sui prezzi di trasferimento si applica anche ai finanziamenti infruttiferi infragruppo ed è pertanto legittima l'inclusione degli interessi nella determinazione del reddito d'impresa, nella misura che sarebbe stata pattuita tra parti indipendenti. La normativa sul transfer pricing di cui all'articolo 110, comma 7 del TUIR si applica, quindi, anche alle operazioni la cui natura è fissata dalle parti come gratuita. Tale conclusione è stata recentemente affermata dalla Cassazione, con la pronuncia 7493 del 15 aprile 2016, che contrasta con la precedente e diversa posizione della medesima Corte, che si era espressa in termini di inapplicabilità del transfer pricing ai finanziamenti infruttiferi (Cass. civ., nn. 27087/2014 e 15005/2015).
Secondo quest'ultimo orientamento l'applicazione della norma tributaria sul transfer pricing è subordinata dalla legge alla duplice condizione che dalla operazione negoziale infragruppo derivino per la società contribuente componenti (positivi o negativi) reddituali e che dalla applicazione del criterio del valore normale derivi un aumento del reddito imponibile e tali condizioni non risultano integrate nella concessione del mutuo non oneroso, essendo estranea a tale schema negoziale la stessa prestazione - avente ad oggetto la corresponsione di interessi corrispettivi - che costituisce il necessario termine di comparazione rispetto ai valore normale- La recente sentenza dei giudici di legittimità trae invece fondamento dal principio di libera concorrenza espresso nell'articolo 9 del modello Ocse. Esso stabilisce la possibilità di sottoporre a tassazione gli utili derivanti da operazioni infragruppo che siano regolate da condizioni diverse da quelle convenute tra imprese indipendenti, in condizioni comparabili sul libero mercato. E, prosegue la Corte, la valutazione in base al criterio del valore normale, prescinde dalla capacità originaria dell'operazione di produrre reddito e, quindi, da qualsivoglia obbligo negoziale delle parti attinente al pagamento del corrispettivo, in coerenza con le linee guida Ocse. Diversamente, del resto, si perverrebbe all'irragionevole risultato per cui l'agenzia delle Entrate potrebbe applicare il controllo sulla base del transfer pricing ad operazioni di finanziamento internazionale infragruppo, effettuate a condizioni inferiori a quelle previste dal criterio del valore normale, anche per importi contestati complessivamente irrisori, mentre le sarebbe inibita la contestazione qualora le parti si fossero accordate per l'infruttuosità e quindi la gratuità del finanziamento stesso, anche nell'ottica, elusiva, di sottrarsi alla normativa de qua. Osservazioni
Il riferimento ai principi Ocse rende palese che, in presenza di finanziamenti infragruppo, la determinazione del tasso di interesse a valore normale necessita della verifica di alcune variabili nell'ambito di una analisi di comparabilità, come:
Anche in sede di verifica da parte degli organi accertatori, andrebbe svolta una corretta analisi di tali variabili, idonee alla individuazione del valore normale del tasso di interesse. A tal fine non appare sufficiente, come talvolta accade, un generico riferimento alle condizioni esistenti sul mercato del mutuante, in base alla mera considerazione che è il mutuatario che generalmente si rivolge a tale mercato in qualità di prenditore di fondi; occorre invece valutare la serie di fattori sopra indicata. Ad esempio, in riferimento alle condizioni contrattuali, vanno analizzate l'entità del prestito, il titolo, la durata, la natura del contratto, la moneta di computo, le garanzie prestate in relazione al finanziamento concesso. Vanno, altresì, approfondite le caratteristiche del soggetto mutuatario, con particolare riferimento alle aspettative del creditore di essere rimborsato. Maggiore è la probabilità che il debitore assolva solo in parte i suoi obblighi di rimborso del capitale e/o di pagamento degli interessi, maggiore è il tasso di interesse che il creditore ordinariamente richiede sui fondi erogati. In conclusione, i prestiti infruttiferi infragruppo costituiscono operazioni del tutto legittime e la gratuità è scelta affidata alle parti. Tuttavia la legittimità commerciale di tali operazioni può comportare una rideterminazione a valore normale del tasso praticato. Il che non vuol dire che anche fiscalmente il tasso congruo non possa risultare pari a zero, ma ciò dovrà necessariamente derivare da una attenta analisi della sostanza economica dei rapporti intervenuti tra le parti, per determinare se questi siano conformi alle condizioni di libera concorrenza, con onere della prova a carico del contribuente. In altri termini si tratta di valutazioni di natura tipicamente economica che prescindono da riflessioni “giuridiche”. Sembra dunque prevalere la tesi dell'Amministrazione finanziaria secondo cui proprio la gratuità del mutuo evidenzia la “situazione di vantaggio” delle società controllate estere, che la normativa sul transfer pricing intende impedire. Un vantaggio rispetto al quale dette società non avrebbero potuto godere se avessero dovuto reperire il finanziamento necessario sul mercato finanziario. Perciò, vista l'accertata anomalia dell'operazione in parola, secondo l'amministrazione finanziaria trova fondamento l'applicazione della disciplina sul transfer pricing, ai sensi dell' art. 110, comma 7 del TUIR. |