Il principio di non discriminazione, la tutela dei lavoratori disabili e le ragioni dell’impresa
23 Giugno 2017
Massima
Il diniego del datore di lavoro di assegnare a un dipendente affetto da una patologia degenerativa (sclerosi multipla) mansioni di tipo sedentario, per le quali era stato riconosciuto idoneo dalla competente commissione medica ASL, integra una “violazione del principio di parità di trattamento dei lavoratori portatori di handicap posto dalla Direttiva 2000/78 e dall'art. 3 comma 3 bis D.Lgs. n. 216/2003”, giacché l'attribuzione di tali mansioni costituisce “un ragionevole accomodamento idoneo a consentire al lavoratore disabile di svolgere la propria attività lavorativa con proficuo utilizzo per l'organizzazione aziendale”. Il caso
Un lavoratore affetto da sclerosi multipla di tipo progressivo, inizialmente adibito a mansioni di controllo di qualità all'interno dello stabilimento della datrice di lavoro, a seguito dell'evoluzione degenerativa della patologia, veniva collocato presso l'edificio ove erano ubicati gli uffici amministrativi ed adibito su postazione fissa ad altre mansioni: controllo di fatture delle aziende forinitrici.
Adiva cosi il tribunale ex art 700 c.p.c per chiedere la riammissione in servizio nelle sue mansioni originarie. La questione
La pronuncia, resa in sede cautelare, relativa alla possibilità per il datore di adibire a mansioni differenti il dipendente disabile con malattia degenerativa, conferma il crescente rilievo pratico-applicativo del principio di non discriminazione nell'ordinamento nazionale e riveste particolare interesse in quanto ne conferma l'efficacia protettiva in un ambito nel quale le tutele universali assicurate dalle norme inderogabili si erano sempre arrestate di fronte al diritto, ritenuto insindacabile, del datore di lavoro alla libera organizzazione della sua impresa. Le soluzioni giuridiche
Il Tribunale muove dalla nozione, funzionale e relazionale, di handicap desumibile dalle fonti superprimarie di diritto dell'Unione, che lo qualificano come “limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori” (Corte di Giustizia, 11.4.2013, C-335/2011, nella quale si fa espresso richiamo alle disposizioni della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, approvata in nome della Comunità europea con la Decisione 2010/48/CE del Consiglio del 26 novembre 2009, e alla sua inclusione da tale data nell'ordinamento giuridico dell'Unione), anche solo ostacolando lo svolgimento di un'attività professionale (così Corte di Giustizia, 18.12.2014, causa C-354/13 e giurisprudenza ivi citata) e sempre che le menomazioni siano “durature” (ancora Corte di Giustizia, 11.4.2013, C-335/2011, cit).
Proprio in ragione della natura funzionale dell'handicap il Giudice dell'Unione ha potuto affermare (e l'ordinanza del Tribunale di Bari lo ricorda) che anche “una malattia, curabile o incurabile”, ove determini simili limitazione “può ricadere nella nozione di «handicap» ai sensi della direttiva 2000/78” (così Corte di Giustizia, 11.4.2013, cause riunite C-335/11 e C337/11).
La pronuncia in commento richiama poi l'art. 5 della direttiva 2000/78 e la disciplina interna diretta a darvi attuazione (nella specie il comma 3 bis dell'art. 3 del D.Lgs. 216/2003, introdotto dal D.L. 76/2013, in esito alla decisione della Corte di Giustizia, 4.7.2013, C-312/211), che affermano l'obbligo di tutti i datori pubblici e privati di “adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della Legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori”.
E l'art. 2 della Convenzione definisce accomodamenti ragionevoli “le modifiche e gli adattamenti necessari e appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento o l'esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali”.
Il ventesimo e il ventunesimo articolo della Direttiva 2000/78 specificano infine l'obbligo gravante sui datori di lavoro identificandone il contenuto nell'adozione di “misure appropriate, ossia misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell'handicap, ad esempio sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti o fornendo mezzi di formazione o di inquadramento. Per determinare se le misure in questione danno luogo a oneri finanziari sproporzionati, è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell'organizzazione o dell'impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni”. Osservazioni
Il Tribunale, condivisibilmente, intende le norme ora richiamate come idonee a imporre positivamente un facere, a obbligare il datore di lavoro ad adeguare la sua organizzazione di impresa alle esigenze lavorative dei dipendenti disabili nei limiti di uno sforzo proporzionato, così che il principio paritario opera quale limite minimo necessario della libertà di impresa.
Un limite destinato a operare non solo in corso di rapporto (come avvenuto nel procedimento conclusosi con l'ordinanza in commento), ma anche all'atto della sua risoluzione.
Il divieto di discriminazione concorre infatti anche a delimitare il legittimo esercizio del potere datoriale di recesso per motivi oggettivi in confronto dei lavoratori portatori di handicap, in quanto le mansioni accessibili a tali lavoratori devono individuarsi anche in relazione all'obbligo positivo della controparte di adeguare, nei limiti di uno sforzo “non sproporzionato”, la propria organizzazione di impresa al fine di consentire loro la prosecuzione dell'attività lavorativa in condizioni di uguaglianza con gli altri dipendenti, e quindi senza rischi per la loro salute e con adeguata efficienza (cfr. sul punto espressamente Corte di Giustizia, 4.7.2013, C-312/11, che ha ritenuto che l'Italia non avesse trasposto correttamente la Direttiva 2000/78, giacché a tal fine “non è sufficiente disporre misure pubbliche di incentivo e di sostegno, ma è compito degli Stati membri imporre a tutti i datori di lavoro l'obbligo di adottare provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, a favore di tutti i disabili, che riguardino i diversi aspetti dell'occupazione e delle condizioni di lavoro e che consentano a tali persone di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione”, giudizio cui è seguito il citato D.L. 76/2013).
Ne risulta di conseguenza ridimensionata l'area della impossibilità sopravvenuta della prestazione dei lavoratori disabili e, o anche, per converso ampliato il novero delle posizioni professionali a loro utilmente assegnabili, in quanto individuabili solo in esito ai disposti ragionevoli accomodamenti.
Con la necessaria conseguenza che l'esistenza di un giustificato motivo oggettivo di recesso costituito dalla sopravvenuta superfluità per l'organizzazione di impresa della prestazione di un lavoratore portatore di handicap (in quanto non più utilmente impiegabile senza rischi per la sua salute) potrebbe ritenersi solo dopo avere verificato anche l'infruttuosità o l'impraticabilità di modifiche delle attrezzature aziendali, dei turni o della distribuzione della mansioni, aventi un costo non sproporzionato.
È certo poi che in simili fattispecie sia il datore di lavoro a essere gravato (anche) della prova dell'inesistenza o inutilità di tali ragionevoli accomodamenti, in quanto necessariamente costitutivi nella specie del giustificato motivo oggettivo allegato alla luce dell'obbligo legale di non discriminazione per motivi di handicap.
Ne deriva che, ove una tale prova non sia fornita dal soggetto onerato, il motivo oggettivo affermato dovrà ritenersi inesistente e il recesso costituirà violazione del principio paritario, sanzionabile in ogni organizzazione di impresa indipendentemente dalle sue dimensioni, con la piena tutela reintegratoria e risarcitoria prevista dai primi due commi dell'art. 18 della L. 300/1970, come modificato dalla L. 92/2012, una soluzione cui ben difficilmente avrebbe potuto pervenirsi altrimenti che per il tramite dei divieti di discriminazione in ragione della normale intangibilità in sede giudiziale dell'organizzazione di impresa.
E merita aggiungere che a una tale conclusione dovrebbe pervenirsi indipendentemente dalla prova di un intento soggettivo del datore di lavoro di discriminare il lavoratore disabile, attesa la natura oggettiva e funzionale dei divieti di discriminazione di fonte eurounitaria, che sanzionano, non un motivo, ma un effetto.
Come è noto, secondo le definizioni in uso nel diritto derivato dell'Unione si ha discriminazione diretta quando sulla base di uno dei fattori protetti (oggi specificamente età, genere, orientamento sessuale, handicap, convinzioni religiose o personale, razza o origine etnica), una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga, mentre si ha discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una posizione di particolare svantaggio le persone che professano una determinata religione o ideologia di altra natura, le persone portatrici di un handicap, le persone di un genere, di una particolare età o di una particolare tendenza sessuale, rispetto ad altre persone. In tale ultimo caso a meno che tale disposizione, tale criterio o tale prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari.
Si tratta di un principio di recente affermato anche dalla Corte di Cassazione, con la Decisione 6575/2016, che segna un deciso mutamento di paradigma da parte della giurisprudenza di legittimità, che per lungo tempo, con orientamento consolidato, aveva assimilato atto discriminatorio e atto viziato da un motivo illecito determinante (è esemplificativa di questo indirizzo Cass. civ., 9 luglio 2009, n. 16155) (così, tra l'altro, addossando al lavoratore che l'avesse affermato l'onere di dimostrare, non solo l'esistenza, ma anche l'esclusività del motivo, Cass. sez. lav., 14 luglio 2005, n. 14816).
Il principio di diritto affermato dalla pronuncia 6575/2016 ribalta l'orientamento precedente proprio in quanto esclude che la discriminazione rilevi come motivo (“La discriminazione- diversamente dal motivo illecito- opera obiettivamente -ovvero in ragione dei mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta- ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro”) e a fortiori come motivo determinante, così allineando la giurisprudenza nazionale alle definizioni eurounitarie di discriminazione. Si tratta di un orientamento destinato ragionevolmente a incidere sull'uso giudiziale del dispositivo antidiscriminatorio e che, per converso, dimostra come il confronto sempre più frequente con domande di tutela che si avvalgono di quel dispositivo imponga alla giurisprudenza di confrontarsi criticamente con propri consolidati orientamenti e, per quanto qui interessa, a diversamente apprezzare i limiti e l'intensità del proprio potere di controllo dei poteri datoriali a tutela dei diritti fondamentali delle persone. |